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martedì 29 novembre 2011

ZAPRUDER, CHI ERA COSTUI?




Non ho mai creduto al complotto. JFK fu assassinato da un nullafacente, un nessuno: Oswald. Un nessuno, ma bravo a tirare con il fucile, il suo fucile italiano vecchiotto ma efficiente: il Mannlicher-Carcano, comprato per posta. Continuando con la banalità che irrompe nella storia c'è la vicenda del sarto Zapruter, un normalissimo sarto di Dallas che il 22 novembre del 1963, un venerdì, era andato con la moglie a vedere il corteo del presidente con la sua 8 millimetri. Zapruter diventerà famoso per il suo film che riprende e documenta momento per momento l'assassinio. Oswald sarà ucciso due giorni dopo da un gestore di night club: Jack Ruby.
La morte di Kennedy determinò un forte shock in tutto il mondo. Erano gli anni della guerra fredda, Usa e Urss si fronteggiavano con migliaia di testate atomiche. La grande illusione del dopoguerra, di un progresso generale verso il benessere trainato dalla spinta americana, dal sogno della nuova frontiera, terminava con quel filmato, era immortalato dalla cinepresa di Zapruter. Sarebbe seguito il Vietnam, la fine del sogno, la perdita della fede nel progresso, la monetarizzazione di tutti i valori, il consumismo fine a se stesso. Forse con l'assassinio di Kennedy finiva qualcosa di molto più importante, crollava tutta una visione del mondo. Non che ci fosse una relazione di causa ed effetto, si trattava di semplice coincidenza, ma era un segno che indicava altro. Quel filmato ci mostra ancora l'america degli anni cinquanta, fatta di vestiti e cappellini colorati, di macchine lunghissime con le code, delle buone casalinghe, della provincia felix. Ma quel giorno tutto questo finiva lì, insieme alla vita del giovane presidente, al sorriso della sua bella moglie. Si apriva la nuova questione del rapporto tra uomo e pianeta. Qualche anno dopo Paul Ehrlich avrebbe scritto The Population Bomb; il progresso e la tecnologia sarebbero apparsi non la salvezza, ma la causa della distruzione del pianeta. La competizione per il dominio tra le grandi potenze avrebbe lasciato il posto alla preoccupazione per il futuro, per la sopravvivenza di tutti.

lunedì 28 novembre 2011

DURBAN: UN ALTRO FALLIMENTO

Durban mi ricorda il nome di un vecchio dentrificio: Durbans mi sembra si chiamasse. Durbans serviva per assicurare un bel sorriso. Durban invece ci farà fare grasse risate. Inizia oggi 28 novembre, infatti, a Durban la conferenza Onu sui cambiamenti climatici. Parteciperanno i rappresentanti di circa 200 paesi. Pare che si discuterà ancora di come ridurre le emissioni di anidride carbonica. Il fatto è che il Protocollo di Kyoto, che doveva servire proprio a quello scopo, è miseramente fallito dopo che Usa, Cina e Brasile si sono tirati fuori. Ridurre le emissioni di Co2? Un bel problema. Con l'aria che tira, l'unica tecnologia ad emissione zero di anidride carbonica, cioè l'energia nucleare, sta chiudendo i battenti in alcuni paesi europei. Anche se Usa e Giappone (e la Francia) dicono di voler andare avanti, nonostante Fukushima, magari raffinando la tecnologia. Altri modi per ridurre l'anidride carbonica e l'effetto serra non se ne vedono, e i vari filtri messi alle ciminiere e agli scarichi industriali servono a poco. La Co2 aumenta, con o senza filtro. Il problema è sempre lo stesso: si vuole curare il cancro con l'aspirina. Si è giunti a pensare di tassare i viaggi aerei e le transazioni economiche internazionali per foraggiare i paesi in via di sviluppo e incoraggiarli all'uso delle energie rinnovabili. Si è pensato in particolare ad un “fondo verde”, un meccanismo che dovrebbe permettere ai paesi ricchi di aiutare i più vulnerabili, con l’obiettivo di trasferire 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020. Una questione che sarà seguita con attenzione dai paesi africani, i meno attrezzati a proteggersi dagli sconvolgimenti del clima che si preparano (o si preparerebbero...).
Voglio fare il facile profeta. La conferenza di Durban sarà l'ennesimo fallimento. Infatti la causa principale della polluzione di gas serra e dell'inquinamento atmosferico, la sovrappopolazione umana, non compare in nessun documento dei cervelloni dell'Onu che si adunano a Durban. Come per tutte le strutture elefantiasiche della Organizzazione delle Nazioni Unite, i burocrati sono tutti impegnati a salvaguardare le proprie laute prebende, piuttosto che l'atmosfera del pianeta, quindi i veri problemi non vengono affrontati. Troppi interessi impediscono di affrontare alla radice il problema delle eccessive emissioni e della combustione degli idrocarburi. Non ci sono solo gli interessi dei paesi produttori di petrolio. Ci sono le chiese monoteistiche da tenersi buone. Gli interessi di potenza che fanno della natalità un'arma. Le multinazionali che prosperano sulla proliferazione dei consumatori. Ma persone responsabili preoccupate del pianeta, dovrebbero porre il problema della sovrappopolazione, una tragedia che ci sta divorando. I tempi sono sempre più stretti, l'ambiente si sta degradando giorno per giorno. Si potrebbero prendere decisioni importanti, immediate. Perché non legare ad esempio gli aiuti del fondo verde (100 miliardi di dollari annui) ai paesi africani alle politiche demografiche? Ma qui si entrerebbe nei problemi seri, e la serietà non è di casa a Durban, lì c'è solo da ridere.

venerdì 25 novembre 2011

DESMOND MORRIS: IL PIANETA DELLE SCIMMIE





COME E PERCHE' UNA SCIMMIA ARROGANTE STA DISTRUGGENDO IL PIANETA.


Esistono centonovantatré specie viventi di scimmie con coda e senza coda; di queste, centonovantadue sono coperte di pelo. L’eccezione è costituita da uno scimmione nudo che si è auto-chiamato Homo sapiens. Questa razza eccezionale ed estremamente capace trascorre molto tempo ad esaminare i propri movimenti più nobili, ed altrettanto ad ignorare accuratamente quelli fondamentali. E’ orgogliosa di possedere il cervello più voluminoso tra tutti i primati, ma cerca di nascondere il fatto di avere anche il pene più grande, preferendo accordare questo onore al possente gorilla. Si tratta di uno scimmione che usa molto i propri mezzi vocali, ha un acuto senso dell’esplorazione ed è rappresentato da molti esemplari…Io sono uno zoologo e lo scimmione nudo è un animale; esso costituisce un argomento facile per la mia penna e mi rifiuto di continuare ad evitarlo solo perché alcune sue forme di comportamento sono piuttosto complesse e sorprendenti. La mia giustificazione è che pur nel diventare tanto erudito, l’Homo sapiens è rimasto uno scimmione nudo e che nell’acquistare nuovi ed elevati moventi, non ha perso nessuno dei vecchi moventi più bassi. Spesso ciò gli provoca un certo imbarazzo, ma i suoi antichi impulsi gli appartengono da milioni di anni, i nuovi solo da qualche millennio, e non vi è alcuna speranza che egli possa scuotere via rapidamente l’eredità genetica che si è accumulata durante tutto il suo passato evolutivo. Sarebbe un animale molto meno preoccupato e più soddisfatto se solo affrontasse questa realtà. Forse è qui che lo zoologo può aiutarlo.
……Negli ultimi anni, l’interesse per la conservazione degli animali si è diffuso in un certo grado nei gruppi di individui di età più giovanile, apparentemente come conseguenza dello sviluppo delle potentissime armi nucleari, il cui enorme potenziale di distruzione ci minaccia tutti con la possibilità di uno sterminio immediato, di modo che noi proviamo un impulso emotivo verso gli animali che possono venire usati come simboli di rarità. Questa osservazione non va interpretata come un’implicazione che questo è il solo motivo della conservazione della vita allo stato selvaggio. Vi sono inoltre motivi perfettamente validi sia scientifici che estetici che ci fanno desiderare di aiutare le razze meno fortunate. Se vogliamo continuare a godere della ricca complessità del mondo animale e a servirci degli animali selvaggi come oggetti di esplorazioni scientifiche ed estetiche , dobbiamo dare loro un aiuto. Se consentiamo che essi spariscano, il nostro ambiente si verrà a semplificare nel modo più sfavorevole. Poiché noi siamo una razza dotata di forte spirito investigativo, non possiamo consentirci di perdere una fonte così preziosa di materiale.
Nel trattare i problemi della conservazione, talvolta vengono menzionati anche motivi economici. E’ stato fatto rilevare che la protezione intelligente e la produzione controllata delle razze allo stato selvaggio possono essere di aiuto in alcune parti del mondo alle popolazioni affamate di proteine. Se ciò è perfettamente vero parlando di un breve periodo di tempo, il quadro delle previsioni a lunga scadenza è più pessimistico. Se continueremo ad aumentare di numero con la spaventosa velocità del giorno d’oggi , alla fine si tratterà di scegliere tra loro e noi.. Per quanto le specie selvaggie possano esserci preziose da un punto di vista simbolico, scientifico ed estetico, i fattori economici della situazione saranno contro di loro. La realtà è che quando la densità della nostra razza raggiunge un determinato livello, non resta spazio per gli altri animali. L’obiezione che essi costituiscano una fonte basilare di cibo, sfortunatamente, non regge ad un attento esame. E’ più efficace mangiare direttamente cibo vegetale, anziché trasformare questo in carne e quindi mangiare gli animali. Con l’ulteriore esigenza dello spazio per vivere, si dovranno prendere misure anche più drastiche, per cui saremo costretti a sintetizzare i nostri cibi e, a meno che non riusciamo a colonizzare gli altri pianeti su vasta scala in modo da dividere il carico, oppure a controllare seriamente in qualche modo l’aumento della popolazione, , saremo obbligati, in un futuro non troppo lontano, ad eliminare dalla terra tutte le altre forme di vita.
Se ciò vi sembra piuttosto melodrammatico, diamo un’occhiata ai dati. Alla fine del diciassettesimo secolo la popolazione mondiale degli scimmiotti nudi era soltanto di mezzo miliardo, mentre adesso è arrivata a tre miliardi (nel 1967 prima edizione di questo libro- oggi purtroppo siamo a ben 7 miliardi! N.d.r.). Ogni ventiquattro ore essa aumenta di 150.000 unità (le autorità competenti per la emigrazione interplanetaria considererebbero questo dato una sfida scoraggiante). Tra 260 anni, se l’aumento si mantiene costante, il che è improbabile, sulla terra si affollerà una massa in fermento di 400 miliardi di scimmioni nudi. Ciò significa che per ogni miglio quadrato della superficie terrestre, vi saranno undicimila individui. Per dirla in altro modo, la densità di popolazione che oggi abbiamo nelle città più grandi esisterebbe in ogni angolo del globo. E’ ovvio quali conseguenze ciò porterebbe alle forme di vita allo stato selvaggio. Ugualmente triste sarebbe l’effetto sulla nostra razza.
Non è necessario fermarci su questo incubo poiché la possibilità che esso si realizzi è molto remota. Nonostante i grandi progressi tecnologici, noi siamo ancora fondamentalmente un semplice fenomeno biologico e, malgrado le nostre idee grandiose e l’alto concetto che abbiamo di noi stessi, siamo ancora degli umili animali, soggetti a tutte le leggi fondamentali del comportamento animale. Molto prima che la nostra popolazione raggiunga i livelli considerati precedentemente, avremo infranto così tante regole che governano la nostra natura biologica, da perdere il nostro predominio come razza. Noi abbiamo la tendenza a compiacerci del fatto che ciò non potrà mai accadere, che in noi vi è qualcosa di speciale e che in un certo senso siamo al di sopra del controllo biologico. Però molte specie sensazionali si sono estinte in passato e noi non costituiamo un’eccezione alla regola. Prima o poi scompariremo per fare posto a qualcos’altro. Se vogliamo che ciò avvenga il più tardi possibile, dobbiamo considerarci in modo attento e spietato come esemplari biologici e renderci conto dei nostri limiti. Questo è il motivo per cui ho scritto questo libro e ho deliberatamente insultato la nostra specie, usando una espressione come “scimmione nudo” invece del nome corrente. Ciò è servito a mantenere il senso delle proporzioni e ci obbliga ad osservare quello che accade appena al di sotto della nostra superficie di esseri superiori. Forse ho esagerato un poco. Avrei potuto tessere molte lodi, descrivendo i nostri straordinari successi, mentre omettendoli, ho dato inevitabilmente una immagine unilaterale. Noi siamo una razza straordinaria ed io non desidero negarlo o minimizzarlo. Ma sono cose che sappiamo benissimo. Mi è sembrato invece più importante mostrare l’altra faccia della medaglia. Sfortunatamente, dato che siamo così potenti ed abbiamo avuto tanti successi rispetto agli altri animali, talvolta troviamo piuttosto sgradevole pensare alle nostre origini, cosicché non mi aspetto di essere ringraziato per ciò che ho fatto. La nostra ascesa verso la cima è stata una storia di arricchimento rapido e, come tutti i “nouveaux riches”, noi siamo molto suscettibili riguardo alla nostra provenienza. Alcuni ottimisti pensano che, poiché abbiamo sviluppato un alto livello di intelligenza ed un potente impulso all’invenzione, saremo in grado di rivolgere qualunque situazione a nostro vantaggio; che siamo tanto plasmabili da poter rimodellare il nostro modo di vivere in maniera che si adatti a tutte le nuove esigenze portate dal continuo aumento della nostra specie; che quando verrà il momento sapremo affrontare il sovraffollamento, lo stress, la perdita del’intimità e l’indipendenza di azione; che rimodelleremo il nostro modo di comportarci e vivremo come formiche giganti; che controlleremo i nostri sentimenti di aggressività e di territorialità, i nostri impulsi sessuali e le nostre tendenze paternalistiche; che se dovremo diventare scimmioni-polli di batteria, sapremo farlo; che la nostra intelligenza è in grado di dominare tutte le nostre fondamentali necessità biologiche.
Io penso che ciò non abbia alcun senso. La nostra primitiva natura animale non vi consentirà mai. E’ vero che siamo plasmabili e che abbiamo un comportamento opportunistico, ma le forme assunte da questo opportunismo sono contenute entro limiti rigidi. Mettendo in rilievo in questo libro i nostri aspetti biologici, ho cercato di presentare la natura di queste restrizioni. Riconoscendole apertamente e sottomettendoci ad esse, avremo maggiori possibilità di sopravvivere. Ciò non implica un ingenuo “ritorno alla natura”, ma vuol dire semplicemente che dovremo adattare i nostri progressi opportunistici intelligenti alle fonfamentali esigenze del nostro comportamento. Dobbiamo in qualche modo migliorare come qualità, invece che come semplice quantità. Potremo così continuare a progredire tecnologicamente in modo sensazionale e sbalorditivo senza negare la nostra eredità evolutiva. In caso contrario, i nostri compressi impulsi biologici si acumuleranno fino a far crollare la diga e tutta la nostra complessa esistenza sarà spazzata via dalla piena.

(Desmond Morris: La scimmia nuda-studio zoologico sull’animale uomo. Bompiani 1974 pag. 7-8, 258-262).

La tragedia di questo pianeta è che una specie di scimmia, sprovvista di peli, è diventata arrogante giungendo a riempire il pianeta dei suoi prodotti (in gran parte tossici per se e le altre specie) e di miliardi di suoi simili. Un cancro devastante che sta portando la terra all’annichilimento. Morris ci ricorda una verità di fondo, talmente di fondo che la dimentichiamo continuamente: l’uomo è una specie animale. Come le talpe che scavano gallerie, o le api che costruiscono nidi complessi, noi costruiamo strutture tecnologiche. La nostra tecnologia, vista da un pianeta alieno, infesta la terra come un formicaio infesta un giardino. Certo noi abbiamo la ragione, l’intelletto ecc.ecc. Ma Morris ci invita umilmente a tornare al nostro fondamento, alla nostra natura animale. Quando, intossicati dallo stress e dai fumi della città sentiamo dentro di noi la voglia di andarcene in campagna, in riva al mare o in alta montagna, è quella natura che ci richiama a noi stessi. Quando guardiamo un paesaggio incontaminato, o ci fermiamo estasiati a guardare il sole che sorge all’alba in un cielo rosa e su un mare azzurro, è la nostra natura interiore che ci chiama, anzi ci “ri-chiama” ad essere noi stessi, a rispettare la nostra natura di animali, a tornare a fonderci armoniosamente con il resto della natura e degli esseri viventi. E’un invito a smettere la nostra arroganza. Il libro di Morris fu scritto nel 1967, ma è attualissimo. La stupidità ancora domina la nostra specie. Gli stupidi sono al potere. Il pianeta è ancora in mano alle scimmie arroganti. agobit

mercoledì 23 novembre 2011

Secondo i climatologi dell'East Anglia i cambiamenti climatici sono gonfiati a fini politici

Un hacker ha pubblicato la corrispondenza tra climatologi dell'EA:

Jo Nova e Jeff ID stanno già pubblicando le mail, pur premettendo che potrebbero non essere autentiche, ma a questo punto dubito che possa essere così.

Sicché ci aspetta un altro giro di giostra, di cui direi valga la pena di acquistare il biglietto. Vi rimando quindi alle pagine di Jeff e di Jo, ma non prima di servire un appetizer:
<1939> Thorne/MetO: Le osservazioni non mostrano alcun aumento delle temperature lungo la troposfera tropicale [il problema dell'hot spot troposferico], a meno che non si prendano in considerazione un singolo studio e un singolo approccio, trascurandone un mucchio di altri. Questo è davvero pericoloso. Dobbiamo comunicare l’incertezza ed essere onesti. Phil [Jones?], magari potremmo trovare il tempo di discuterne ulteriormente se necessario [...]

<3066> Thorne: Penso anche che la scienza sia stata manipolata a fini politici, cosa che potrebbe rivelarsi non troppo intelligente a lungo andare.

Wils: Che si fa se il climate change si rivela essere essenzialmente una oscillazione multidecadale? Probabilmente ci uccideranno [...]

<1485> Mann: La cosa importante è essere sicuri che stiano perdendo la battaglia delle pubbliche relazioni. Questo è lo scopo del sito [Real Climate].

<5111> Pollack: Ma sarà molto difficile far scomparire il Periodo Caldo Medioevale dalla Groenlandia.

<1790> Lorenzoni: Concordo con l’importanza degli eventi estremi come focus per l’opinione pubblica e governativa [...] ‘il climate change’ deve essere presente nella vita di tutti i giorni della gente. Deve essere loro ricordato che è un fenomeno che accade e si evolve in continuazione.

<2428> Ashton/co2.org: Avendone stabilito l’urgenza, la sfida politica è ora di trasfromarla da un argomento che riguarda i costi dei tagli alle emissioni – cattiva politica – a uno concernente il valore di un clima stabile – politica molto migliore [...] la cosa migliore da fare è raccontare la storia delle brusche variazioni in modo più vivido possibile.

<2267> Wilson: Sebbene sia d’accordo che i gas serra siano stati importanti nel 19° e 20° secolo (specialmente dal 1970), se ilpeso del forcing solare fosse stato maggiore nei modelli, certamente avrebbe diminuito la significatività dei gas serra. [...] Mi sembra che assegnando un peso maggiore alla radiazione solare nei modelli, la maggior parte del riscaldamento del 19° e 20° secolo può essere spiegato dal Sole.
Buona lettura. Stay tuned.


Aggiornamento 11/11/2011 22:55

Prime reazioni dalla East Anglia:
Tue, 22 Nov 2011

While we have had only a limited opportunity to look at this latest post of 5,000 emails, we have no evidence of a recent breach of our systems.

If genuine, (the sheer volume of material makes it impossible to confirm at present that they are all genuine) these emails have the appearance of having been held back after the theft of data and emails in 2009 to be released at a time designed to cause maximum disruption to the imminent international climate talks.

This appears to be a carefully-timed attempt to reignite controversy over the science behind climate change when that science has been vindicated by three separate independent inquiries and number of studies – including, most recently, the Berkeley Earth Surface Temperature group.

As in 2009, extracts from emails have been taken completely out of context. Following the previous release of emails scientists highlighted by the controversy have been vindicated by independent review, and claims that their science cannot or should not be trusted are entirely unsupported. They, the University and the wider research community have stood by the science throughout, and continue to do so.
Gli interessati hanno lo stesso sospetto espresso poche righe più su. C’è la volontà di incidere sui prossimi negoziati climatici. Non è chiaro di cosa si meraviglino, visto che da queste mail la loro volontà di incidere sui negoziati è chiara come il Sole. Chi di spada ferisce di spada perisce. Bello anche il tentativo di tirare il progetto BEST per la giacca assegnandogli un ruolo di parte civile nella disputa. Si attendono smentite da parte dei citati. Mi viene un dubbio: la mail del primo round erano vere, queste anche; ma se come si legge nelle ultime righe del comunicato sono così sicuri del fatto loro, che bisogno c’era di scriversi tutte quelle mail che dicono il contrario?
[22NOV2ClimatemonitorFacebookComments]

Commento di Agobit: sebbene io creda che sette miliardi di umani con le polluzioni provocate dalla loro attività incidano fortemente sull'atmosfera e quindi sui gas serra, non ho mai ritenuto "cruciale" questo argomento. Non so se queste email riportate dall'hacker siano vere e se le notizie sui cambiamenti climatici siano gonfiate per motivi politici. Quello che so è che il mondo si sta comunque perdendo per la sovrappopolazione umana, al di là di ogni reale o falso effetto serra. Il mondo si sta trasformando in una discarica piena di tossici, di fumi, di prodotti chimici, di gas, di rifiuti. La superficie terrestre è, vista dai satelliti, sempre più grigia. Una patina bianco-grigiastra si estende dai siti delle grandi città come un cancro inarrestabile. Le foto notturne del pianeta mostrano un inquinamento di luci che danno il senso della artificialità della presenza umana. Il pianeta sta perdendo la sua bellezza, e con essa il senso di una comunanza tra uomo e natura. Che i cambiamenti climatici ci siano, siano dovuti all'uomo o alla attività solare mi sembra un problema secondario. Le teorie sui cambiamenti climatici sono invece portate avanti con forza dai verdi-giardinieri, quelli che vogliono mettere i filtri un po' ovunque. Per i verdi-giardinieri non è importante il numero di umani, anzi se fosse per loro andrebbe bene pure un pianeta con dieci o venti miliardi di ominidi, in fondo si tratterebbe solo di filtrare tutti gli scarichi. Al contrario di quello che pensano i verdi-giardinieri il problema non sono gli scarichi, né i fumi, né la rinnovabilità delle fonti energetiche. Il problema vero rimangono i sette miliardi di umani, avviati a divenire dieci in pochi anni. Un disastro irreparabile per il mondo e per l'uomo.

martedì 22 novembre 2011

SOPRAVVIVERA' LA DEMOCRAZIA FINO AL 2050?


POPOLAZIONE E DEMOCRAZIA

"Sotto molti importanti aspetti, il mondo sta diventando più moderno e meno occidentale"
(Samuel P. Huntington: Lo Scontro di Civiltà)

Il sacrificio di Leonida alle Termopili è stato vano, e Carlo Martello a Poitiers ha solo ritardato la sconfitta. Nessuno dei due condottieri aveva previsto che tutto sarebbe andato perso per un nemico allora sconosciuto: il tasso di natalità. La cultura occidentale ha inventato la democrazia, ma quello che era possibile nella piccola Atene o ancora nelle democrazie rappresentative del secolo scorso, è sempre meno possibile in un mondo di sette miliardi di umani. La forma politica più splendida per dare l’uguaglianza di cittadini agli uomini può avere solo un ambito comunitario di reciproca, facile conoscenza. Quando l’individualità si perde nella massa dei numeri si diventa replicanti. La catalogazione di un computer non permetterà mai di dire; quello sono io. Una democrazia di milioni di persone è un affare di marketing. Anche le ideologie perdono di significato in bacini elettorali di centinaia di milioni di persone. Nei prossimi decenni nazioni come la Cina, l’India e la Russia passeranno alla guida del mondo e detteranno le regole politiche ed economiche, oltre a determinare la cultura del mondo futuro. Nessuna di esse è un campione di democrazia, e l’India con il suo miliardo e mezzo di cittadini non si può definire uno stato democratico come noi lo intendiamo. Quando le moderne democrazie sono nate il mondo intero aveva molto meno abitanti di quanti ne ha solo l’India oggi. Un paese sovrappopolato è un sistema dotato di forte entropia, e per assicurare il controllo e il funzionamento di procedure estremamente complesse, come richiesto da tanti milioni di abitanti, è necessario un gigantesco apparato burocratico, decisioni centralizzate, sistemi autoritari. Quanto può contare la libertà e la volontà di un cittadino in stati con una massa così grande di individui? Anche in occidente la democrazia sta sbiadendo nella insignificanza. Gli stati per contare debbono essere sempre più autoritari. Oppure cedono rapidamente la sovranità a gruppi di potere sovrastatali e sovranazionali. Oggi poteri più o meno occulti di tipo finanziario conducono i giochi al di sopra dei singoli governi nazionali. Su questa situazione del potere si innestano i grandi fenomeni strutturali innescati dalla sovrappopolazione e dalla tecnologia: l’inurbamento massiccio, le megalopoli, la globalizzazione dei commerci, la velocizzazione delle comunicazioni, internet. In Italia un magnate televisivo ha governato il paese per più di dieci anni. In America il presidente Obama è stato eletto tramite la rete. Quando le democrazie sono nate le scelte si facevano per conoscenza diretta o mediata da posizioni intellettuali e politiche. Ma in un mondo di sette miliardi di individui le ideologie e la politica contano sempre meno, e le scelte sono sempre più eterodirette. In questo quadro quale impatto avranno le tensioni sociali determinate dalla sovrappopolazione e dai conflitti per le risorse sulla democrazia del futuro? I grandi fenomeni migratori, il forte aumento delle tensioni tra stati e del terrorismo, la crisi finanziaria che attanaglia il pianeta, sono fenomeni che hanno molto a che vedere con l’entropia di un sistema con una massa di sette miliardi di umani.

sabato 19 novembre 2011

ROGER SCRUTON: ECOLOGIA E APPARTENENZA




UN PUNTO DI VISTA ECOLOGISTA E CONSERVATORE


Credo che gli ambientalisti siano stati abituati a vedere il conservatorismo come l'ideologia della libera impresa e la libera impresa come un attacco alle risorse della Terra, senza alcun fine oltre al tornaconto a breve termine che anima il mercato... Considerato che in un'economia di mercato sono i grandi protagonisti ad arrecare i maggiori danni, gli ambientalisti rivolgono la loro ostilità alle grandi società e a quelle economie che ne sono origine. Imprese altrettanto grandi e devastatrici sono l'usuale risultato dell'abolizione dell'economia di mercato; ma queste, essendo nelle mani dello Stato, non devono -di norma- rispondere ad un potere sovrano che ne possa limitare i saccheggi. E' quindi plausibile che una risposta conservatrice non invochi una libera economia a qualunque costo, ma che riconosca i suoi prezzi e faccia tutti i passi possibili per ridurli. Abbiamo bisogno della libera impresa, ma anche del principio di legalità che la tenga a freno. Quando l'impresa è prerogativa dello Stato, l'entità che controlla la legge è la stessa che ha il motivo maggiore per evaderla: ecco, a mio parere, una spiegazione sufficiente della catastrofe ecologica prodotta dalle economie del socialismo.
Di norma, l'ottica conservatrice dell'azione politica è formulata più in termini di curatela che di impresa, di dialogo più che di ordine perentorio, di amicizia più che di solidarietà. Queste idee si prestano facilmente a un progetto ambientale, e mi sorprende sempre il fatto che ben pochi ambientalisti sembrano accorgersene. Agli occhi di un conservatore appare ovvio che la nostra sconsiderata caccia alla gratificazione individuale mette a repentaglio, nello stesso modo, l'ordine sociale e il nostro Globo. Le democrazie sembrano raggiungere un equilibrio solo in condizioni di crescita economica, mentre i periodi di stagnazione, rapida inflazione o depauperamento sono anche periodi di grande scontento, nei quali invidia sociale, rancore o rabbia conducono ad instabilità. Di qui la necessità che la preoccupazione precipua di un governo democratico sia incoraggiare la crescita economica senza considerare le sue ripercussioni sull'ambiente. (Lo si vede nella risposta Usa al protocollo di Kyoto: la vera pressione sulla Camera dei Rappresentanti al Congresso, affinché non ratifichi gli accordi, non è esercitata dalle grandi società, ma scaturisce dal desiderio dei suoi membri di essere rieletti). La democrazia, d'altro canto, non è il solo caso problematico. Non troppo diversamente, altre forme di equilibrio sociale possono costituire una minaccia all'ambiente, non perché dipendano dalla crisi economica, bensì da quella demografica o dallo sfruttamento di risorse non rinnovabili come le foreste pluviali. La risposta dei conservatori a questo tipo di problema è riconoscere che l'equilibrio ambientale è parte di qualunque ordine sociale durevole. La tesi che ci ha proposto a suo tempo Burke dovrebbe piacere agli ambientalisti. La sua risposta alla teoria del contratto sociale di Rousseau consisteva nel riconoscere che l'ordine politico può essere equiparato a un contratto, purché si aggiunga che non si tratta di un contratto solo tra viventi, ma tra chi è vivo, chi non è ancora nato e chi è già morto. In altre parole, non è affatto un contratto, piuttosto una relazione di curatela nella quale i benefici ereditati sono conservati e poi tramandati ad altri. I viventi possono avere un interesse nel consumare le risorse della Terra, ma non è stato per questo che i defunti hanno faticato e chi non è ancora nato dipenderà dai vincoli che ci poniamo. Ecco perché in un equilibrio sociale a lungo termine deve essere contemplato l'equilibrio ecologico.
Le società moderne sono società di estranei. Uno dei progetti conservatori basilari dei nostri tempi è stato volto a scoprire il tipo di relazione affettiva che è in grado di legare questo tipo di società per generazioni, senza rischiare di ricadere nella frammentazione di tipo familiare, tribale o perfino mafioso. Da qui scaturisce l'importanza che il pensiero conservatore attribuisce alla nazione e allo stato-nazione. I conservatori non tendono a conservare qualunque legge, istituzione o consuetudine: il loro intento è mantenere quelle istituzioni che rappresentino le soluzioni collettive a problemi ricorrenti e che tramandino una conoscenza generata dalla società. Secondo Burke (e secondo me), questo tipo di istituzioni è rappresentato, da un punto di vista legale, dal diritto comune (common law); da un punto di vista politico, da un governo rappresentativo, e , da un punto di vista sociale, dal matrimonio e dalla famiglia. Sono istituzioni che incoraggiano l'abitudine al sacrificio e così generano la forza motrice dalla quale dipende una buona e parsimoniosa gestione delle risorse...
C'è bisogno di una motivazione non egoistica che possa essere sollecitata nei membri comuni della società e sulla quale si possa fare affidamento per perseguire il fine ecologico a lungo termine. Burke proponeva il "principio ereditario"-proteggere le istituzioni importanti da devastazione o rovina- ed era convinto che la gente fosse per sua natura incline ad accettare i vincoli che quel principio impone ai loro desideri. Il modello proposto da Burke si rifaceva a quello della proprietà ereditaria inglese che toglieva il patrimonio dal mercato, lo proteggeva dal depauperamento e creava, al posto di un possesso assoluto, un tipo di curatela che aveva come beneficiario l'usufruttuario. Questa istituzione, protetta dalla legge, difendeva la terra e le risorse naturali dallo sfruttamento, e donava agli usufruttuari un tipo di sovranità per tutta la vita, ma a condizione che lasciassero ai loro eredi la proprietà non gravata da ipoteche. Nessun ambientalista può non vedere l'immenso vantaggio ecologico di una "terra gestita" (settled land) così concepita: era una risorsa che non poteva essere sfruttata in tutto il suo valore; doveva essere messa a profitto a beneficio dei "successori aventi diritto" o, in altre parole, gestita in modo sostenibile. E' probabile che gli ambientalisti di oggi siano ben consapevoli delle disuguaglianze sociali e delle strutture gerarchiche che si sono perpetuate grazie a questa forma di proprietà. Le leggi approvate ed emendate a varie riprese nel corso del XIX e XX secolo, concedevano agli usufruttuari il diritto di convertire le proprietà terriere in capitale liquido. In un batter d'occhio sono subentrate le società industriali e minerarie: per la Gran Bretagna ciò ha significato un grande aumento di ricchezza, i primi passi verso l'uguaglianza sociale...e un secolo di distruzione ambientale.
Burke vedeva il principio ereditario come un deterrente psicologico per chi avesse voluto allungare le mani sulle proprietà, i beni, gli edifici appartenenti alla Chiesa e alle istituzioni e le raccolte di tesori che avevano in precedenza salvaguardato il patrimonio della Francia, di generazione in generazione. Aveva anche previsto che, una volta che tale principio fosse stato abbandonato con la Rivoluzione, non ci sarebbe stata ragione di moderazione, e il patrimonio sarebbe passato di mano e sperperato. Non possiamo ritornare a quel tipo di motivazione sociale alla quale si appellava Burke: la gente ormai non la pensa più così. Tuttavia, dovremmo imparare la lezione impartitaci da Burke, Hegel e de Maistre, e riconoscere che la protezione dell'ambiente è una causa persa se non riusciamo a trovare la motivazione umana che dovrebbe condurre la gente in generale - e non solo i suoi autoplocamatisi rappresentanti- a portarla avanti. E qui, io penso, è dove gli ambientalisti e i conservatori potrebbero e dovrebbero fare causa comune. E tale causa comune è la lealtà locale o, più precisamente, nazionale. Se, da una parte molti ambientalisti di sinistra riconosceranno che la lealtà e le questioni locali devono avere un giusto posto nel processo decisionale affinché si sia in grado di contrastare gli effetti negativi dell'economia globale, dall'altra, saranno inclini a tirarsi indietro di fronte alla proposta che vedrebbe la lealtà locale in termini nazionali più che comunitari. La nazionalità è una forma di attaccamento al territorio, ma anche un'intesa protolegislativa, ed è attraverso lo sviluppo di questa idea -di un sentimento territoriale che ha in sé i semi della sovranità- che i conservatori possono contribuire in modo determinante al pensiero ecologico. A me sembra che l'approccio conservatore sia più razionale, anche se, al contempo, meno ambizioso. Invece di tentare di porre rimedio ai problemi sociali e ambientali a livello globale, i conservatori mirano a controlli locali e a una riasserzione della sovranità locale in ambienti conosciuti e regolati. Questo significa affermare il diritto di una nazione all'autogoverno e l'adozione di indirizzi politici che concordino con lealtà locali e sentimenti di orgoglio nazionale. L'attaccamento al territorio e il desiderio di proteggerlo da erosione e sperpero rimangono motivazioni forti, sempre addotte in tutte le richieste di sacrificio da parte dei politici. Infatti, c'è un'unica, semplice e formidabile motivazione: l'amore per la propria casa.
Io credo che sperare realisticamente in un miglioramento sia possibile solo a questo livello locale. Non c'è prova, infatti, che le istituzioni politiche globalistiche abbiano fatto alcunché per arginare l'entropia globale; al contrario: incoraggiando la comunicazione in tutto il mondo, intaccando la sovranità nazionale e le barriere legislative, hanno favorito quell'entropia e hanno indebolito le uniche vere risorse per opporle resistenza. I soli tentativi che siano riusciti a invertire la marea della distruzione ecologica sono stati il frutto di iniziative e progetti locali volti a proteggere un territorio che sia visto come "nostro" o, in altre parole, determinato da un diritto ereditario (v. le leggi svizzere di pianificazione urbanistica che hanno permesso alle comunità locali di conservare il controllo sul loro ambiente e di trattarlo come un bene comune). A me sembra che questo sia il fine a cui mirano l'ambientalismo e il conservatorismo più seri; cioè la casa, il luogo dove siamo, il posto che ci definisce, che noi teniamo in custodia per i nostri discendenti e che non vogliamo danneggiare. Questo è il motivo per cui è probabile che i conservatori si dissocino dalle forme di attivismo ambientale attualmente di moda. Gli ambientalisti radicali hanno ereditato la diffidenza della sinistra nei confronti della nazione e della condizione di nazione. Definiscono i loro obiettivi in termini globalistici e internazionali. I conservatori non amano questo approccio. La mia personale speranza è che gli ambientalisti si affranchino dalla mentalità della caccia alle streghe che ha loro alienato le simpatie dei conservatori e che questi ultimi smettano di stare sulle difensive. Mi piacerebbe vedere una rivista dal titolo Ecologist, che nella sua struttura dia spazio ai vecchi valori Tory di lealtà e fedeltà. Mi sembra, infatti, che il predominio di un processo decisionale internazionale di burocrazie irresponsabili, di irresponsabili ONG e società che rispondono solo ai loro azionisti, abbia reso più che necessario per noi seguire la via dei conservatori. Dobbiamo fare un passo indietro e dal globale tornare al locale, in modo da affrontare i problemi che possiamo identificare collettivamente come nostri, con i mezzi che possiamo controllare, per le motivazioni che sentiamo. Questo comporta che sia evidente chi noi siamo, perché siamo tutti uniti e impegnati nella causa della sopravvivenza comune. Io rispetto il tentativo di George Monbiot di identificare la prima persona plurale in termini planetari, proprio come rispetto la concezione illuministica dell'essere umano come agente razionale motivato da principi universali. Da conservatore quale sono, devo tuttavia inchinarmi alle evidenze fornite dalla storia, che mi dicono che gli esseri umani sono creature dagli affetti limitati e locali,il migliore dei quali è la lealtà territoriale, che le conduce a vivere in pace con gli estranei, a onorare i defunti e a provvedere ai bisogni di chi, un giorno, prenderà il loro posto come usufruttuario della terra.
(Roger Scruton: Manifesto dei conservatori, R. Cortina editore, 2007, pag.41 e seg.).
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Gli utilitaristi possono considerare i sentimenti di pietà come meri residui del pensiero morale; ma non lo sono affatto. La pietà (pietas dei romani) significa il riconoscimento profondo della nostra fragilità e della nostra dipendenza; ammettere cioè che il peso che ereditiamo non può essere sopportato senza un aiuto, senza la disposizione a ringraziare per la nostra esistenza e a rispettare il mondo da cui dipendiamo, e senza il senso di insondabile mistero che circonda la nostra nascita e la nostra morte. Tutti questi sentimenti confluiscono nell'umiltà che proviamo al cospetto dell'opera della natura, e questa umiltà è il terreno fertile su cui spargere i semi della moralità. Tuttavia , è vero che dall'Illuminismo il pensiero morale è stato separato dalla pietà e ha investito la sua maggiore energia in quelle idee legali astratte, associate al rispetto per le persone. Ma non è irragionevolecredere che lo sfruttamento, la sovrappopolazione e la distruzione dell'ambiente derivino tutti da un'unica fonte, che è la perdita della pietas. E' la pietà, e non la ragione, a impiantare in noi il rispetto per il mondo, per il suo passato e per il suo futuro, e che ci evita di saccheggiare tutto ciò che possiamo, prima che la luce della coscienza in noi venga meno.
(Roger Scruton: Guida filosofica per tipi intelligenti. Il sole 24 ore,2007, pag 113-114).

Scruton guarda il mondo da un punto di vista insolito per un ambientalista, quello conservatore. Ma le sue critiche vanno al centro del problema. L'uomo astratto creato dall'Illuminismo è cresciuto staccato dall'uomo reale. I diritti universali dell'uomo sono divenuti diritti di un ego metafisico capace solo di desiderare, sfruttare, appropriarsi, consumare, fare del mondo una discarica. L'uomo reale, quello che abita i luoghi con i suoi limiti e i suoi difetti, è la vittima di quest'uomo astratto super-egoico. Abitiamo in città avvelenate, respirando fumi tossici e mortali, prodotti da questa visione totalitaria del mondo. Contro l'ego antropocentrico e i suoi sconfinati desideri, Scruton ci richiama ai sentimenti tradizionali di appartenenza, di storia, di pietas verso il mondo che ci accoglie, la natura, gli avi defunti, i discendenti che dovranno nascere. Richiama la lealtà ai luoghi, che suona ridicola ai nostri orecchi di moderni occidentali che vediamo nei luoghi solo occasioni commerciali per impiantare, edificare, vendere, sfruttare. Ridare diritti all'uomo reale e non a quello astratto, ridare significato all'appartenenza, al radicamento, all'amore per i luoghi della propria storia, ai paesaggi che ci appartengono, al rispetto del passato e di chi ci seguirà su questo pianeta. Il dovere supremo di conservare il mondo nella sua bellezza, questo è l'unico senso che possiamo dare alla nostra vita, per sottrarla al tricacarne del macchina produzione-consumo, triste destino dell'uomo contemporaneo, globalizzato, sradicato, depositario di tutti i diritti assoluti sulla natura e sul mondo. E proprio per questo un uomo alienato, intossicato, perso nell'abisso della mancanza di senso di se stesso e del mondo.

lunedì 14 novembre 2011

HANS JONAS: LA CRITICA DELL'UTOPIA ANTROPOCENTRICA






IL PRINCIPIO RESPONSABILITA', UN'ETICA PER LA CIVILTA' TECNOLOGICA.
"Soltanto un tempo libero attivo in tutti i settori dischiude una natura non più percepita unicamente in forma di azienda produttiva; la libertà umana e la natura come suo ambiente concreto (patria) si condizionano reciprocamente"(Ernst Bloch: Prinzip Hoffnung).
Sin dagli inizi fu una tesi marxista, coniata dallo stesso Marx, quella secondo cui l'uomo umanizza la natura mediante il suo lavoro. Così si dovrebbe designare l'attività finalizzata esercitata finora dall'umanità sulla natura, sia organica sia inorganica, in particolare naturalmente la coltivazione della terra. L'umanizzazione definitiva, quale sarà realizzata soltanto dal marxismo attuato, finirà con il liberare l'uomo proprio dal lavoro che avrà così trasformato la natura, e solo essa sarà in grado di umanizzare del tutto l'uomo stesso. Evidentemente qui umanizzare significa per il rispettivo oggetto due cose opposte: in riferimento all'uomo vuol dire che egli non è più servo della natura e può quindi essere completamente se stesso; in riferimento alla natura vuol dire che questa è diventata del tutto schiava dell'uomo e non è quindi più se stessa. Perciò la natura sarebbe umanizzata press'a poco nello stesso senso in cui il servo della gleba, succube della nobiltà feudale, fu nobilitato o come le razze inferiori sottomesse dalla razza superiore sarebbero state arianizzate, se le cose si fossero svolte secondo i suoi piani. Alla luce della sua brutale strumentalizzazione, l'umanizzazione della natura è perciò un eufemismo ipocrita per designare la totale sottomissione da parte dell'uomo in vista di uno sfruttamento totale per soddisfare i suoi bisogni. Poiché a tale scopo deve essere radicalmente trasformata, la natura umanizzata è la natura alienata a se stessa. Proprio questa trasformazione va sotto il nome di umanizzazione. Credo che Marx fosse sufficientemente privo di sentimentalismi per considerare le cose in questo modo. In ogni caso il radicale antropocentrismo del pensiero marxista (combinato con il materialismo delle scienze naturali del XIX secolo) era del tutto incline a tale concezione, riservando poco spazio alla visione romantica della natura.
Ma Bloch, pur non essendo meno antropocentrico né meno pragmatico, mostra qui una superiore sensibilità antropologica, facendo dipendere la felicità dell'uomo anche da un ambiente accettabile, anzi da una maggiore prossimità (rispetto a quella del moderno cittadino metropolitano) a una natura non esperita in modo aziendale. Così per lui la natura umanizzata non deve significare soltanto la natura sottomessa all'uomo, ma anche quella conforme a lui, la patria adeguata alla sua libertà e al suo tempo libero. Anzi, se intendiamo nel verso giusto le sue parole, la natura che sta in un rapporto di condizionamento reciproco (!) con la libertà umana, è quella più vera, la sola veramente "aperta" rispetto alla natura che l'uomo si è trovato dinanzi all'inizio del suo cammino. L'uno e l'altra saranno riscattati insieme e contemporaneamente ad opera dell'uomo dalla loro alienazione. Umanizzando se stesso, l'uomo naturalizza la natura! Chi non penserebbe qui ad Adamo, il giardiniere della creazione divina nell'Eden originario? Ma se la pensiamo come Bloch, noi non siamo al principio, ma al contrario alla fine, cioé al termine di una hybris e di un movimento anti-demetrico senza precedenti, di un'ipernaturalizzazione della natura data. E' quindi la natura ipernaturalizzata a garantire all'uomo utopico la prossimità alla patria? In ogni caso essa è una natura trasformata. Consideriamo tutto ciò più da vicino. Il programma della riorganizzazione della natura, che finora abbiamo discusso soltanto come premessa materiale dell'utopia, avanza qui fin nel contenuto dello stesso fine ideale.
Ora questa trasformazione è in corso già da alcuni millenni, anche se non sotto la guida della filosofia finalmente secolarizzata e interamente riportata sui suoi passi, e noi sappiamo qualcosa su come appare la natura umanizzata e su cosa perde in quanto natura. Non intendiamo riferirci alle permanenti conseguenze negative del miope saccheggio ambientale (carsificazione di intere catene montane in seguito al disboscamento e all'estensione dei pascoli, dispersione da parte del vento dello strato di humus di steppe coltivate a foraggi e così via). Limitiamoci a prendere in considerazione il quadro di colture attuate con costante successo e destinate ad essere proseguite e ulteriormente intensificate nel futuro utopico: un campo di grano ondeggiante offre sicuramente uno spettacolo più gradevole dell'asfalto, ma come "natura" esso costituisce già in se stesso un notevole impoverimento e come paesaggio comporta (se coltivato su vaste superfici) un'estrema monotonia. Non soltanto la monocultura riduce un habitat ecologico multiforme, caratterizzato da un equilibrio variamente dinamico delle specie, alla presenza artificiale di una sola specie, ma questa stessa risulta essere un prodotto artificiosamente omogeneo della coltivazione, che ormai si può conservare soltanto nelle condizioni artificiali della coltura...la monotonia degli oceani di cereali, ad esempio nell'America centro-occidentale, solcati da mietitrici solitarie, annaffiati di antiparassitari per mezzo di areoplani, offre come natura altrettanto poca ospitalità (e per di più con un grado significativamente minore di comunicabilità umana) di quanta ne offra come cultura una grande fabbrica. Qui l'ipernaturalizzazione è in pieno corso, rivelandosi come denaturalizzazione. Umanizzazione della natura? Al contrario, alienazione non soltanto di se stessa, ma anche dell'uomo. A maggior ragione questo è evidente, per passare dall'esempio vegetale a quello animale, nelle incubatrici e nelle fabbriche di uova che riforniscono oggi i supermercati, a confronto delle quali il pollaio contadino con il suo gallo pare quasi un parco per la protezione degli animali! L'estrema degradazione di esseri viventi dotati di sensibilità e capacità di movimento, trasformati in macchine da uova e carne, privati del loro ambiente vitale, imprigionati per tutta la vita, sottoposti ad illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, non ha quasi più nulla in comune con la natura, per cui non si può più affatto parlare di "accoglienza" e "prossimità" nei confronti dell'uomo. La stessa cosa vale per gli allevamenti-prigioni destinati alla produzione della carne di manzo e così via. Persino l'atto sessuale è sostituito dalla inseminazione artificiale. Così si configura nella realizzazione concreta il movimento anti-demetrico, la riorganizzazione della natura! Non vi è nulla che qui parli a sostegno dell'amore dell'uomo verso la natura né vi è qualcosa da imparare intorno alla ricchezza e alla raffinata complessità della vita.Stupore, riflessione e curiosità restano avviliti.
Il paradosso di cui Bloch non si rese conto è che proprio la natura non trasformata e sfruttata dall'uomo, la natura selvaggia, è quella umana, cioè quella che parla all'uomo, mentre quella che è completamente asservita a lui, è quella disumana. Soltanto la vita rispettata nella sua integrità rivela se stessa. Perciò l'interesse umanistico,professato dagli utopisti, trova rifugio proprio dove si arresta la trasformazione utopica del pianeta terra...La critica dell'utopia appena conclusa sarebbe stata eccessivamente dettagliata se l'utopismo marxista, nella sua stretta alleanza con la tecnica, non rappresentasse una versione radicalizzata in senso escatologico di ciò verso cui è avviata la dinamica tecnologica mondiale all'insegna del progresso; in altri termini, se la tecnologia, in quanto forza operante autonomamente, non implicasse una dinamica quasi-utopica. Pertanto la critica all'utopia è già stata implicitamente una critica della tecnologia nella previsione dei suoi estremi sviluppi. Molto di ciò che abbiamo cercato di descrivere, in rapporto all'utopia, come un concreto stato umano all'interno della realizzazione del sogno, sembra ora incombere, con o senza un sogno simile, anzi senza finalità cosciente e quasi come un destino. Perciò la critica dell'utopia...è servita a fondarne l'alternativa che ora tocca a noi elaborare: l'etica della responsabilità che oggi, dopo secoli di euforia post-baconiana, prometeica (di cui è figlio anche il marxismo), deve mettere le briglie a quella galoppante avanzata. Dato che in caso contrario, e soltanto con un po' di dilazione, sarebbe la stessa natura a farlo alla sua maniera implacabilmente più dura...
(Da "Il Principio Responsabilità, Einaudi 1993, pag. 269 e seg.)

L'utopia di umanizzare la natura è pura ideologia antropocentrica. L'ideologia antropocentrica è a fondamento di ogni visione ideologica moderna, da quella marxista a quella dei verdi, da quella liberal a quella conservatrice, a quella delle varie destre. Per non parlare dell'antropocentrismo estremo della visione religiosa del mondo e della natura, specialmente per quanto riguarda le professioni di fede monoteistiche antropomorfe. Jonas contrappone a queste utopie antropocentriche, il principio di responsabilità, basato su considerazioni che riguardano la sopravvivenza fisica, ma anche la dignità dell'esistenza delle generazioni future. Entra in gioco, nel principio di responsabilità, il rapporto tra uomo e ambiente, uomo e natura. Questo rapporto richiede il rispetto di un equilibrio che è incompatibile con l'attuale metafisica dei diritti. I diritti dell'uomo sono sempre più reclamati fuori da ogni contesto di appartenenza. I diritti dell'uomo divengono assoluti, proprio mentre la tecnica consente di applicarli inesorabilmente (e violentemente) alla natura e a tutte le altre specie viventi. Ma ogni diritto assoluto dell'uomo è un diritto totalitario. Il totalitarismo dei diritti dell'uomo è all'origine della distruzione del pianeta cui stiamo assistendo. Il principio di responsabilità sottolinea una verità semplice: che senza doveri non esiste alcun diritto. Il primo dovere dell'uomo è il rispetto verso la natura e verso le altre specie viventi; ciò significa anche rispetto verso se stesso. Senza attuare questo primo dovere non può esserci, da parte dell'uomo, alcun diritto.

mercoledì 9 novembre 2011

CHARLES BUKOWSKI: LE CITTA' INVIVIBILI




Amo Bukowski. Bukowski non è uno che puoi leggere tutto messo per bene, in biblioteca e nemmeno su una poltrona delle nostre comode case iperriscaldate. Lo devi leggere quando ti senti incazzato, sei trasandato, magari con un bicchiere in mano di rosso o di grappa. Lo devi leggere quando sei pronto a "percepire" un livello di realtà più profondo o più alieno. Bukowski è un ermeneuta, uno che va giù al nocciolo della vita, ma non ci va da filosofo con i ragionamenti astratti. Ti porta davanti i fatti, spesso quelli più banali e volgari, spesso visti attraverso la lente di una psiche tormentata. Ma se intendi bene quel fatto, se sai leggerlo ti si apre l'orizzonte della mente, un'esplosione di galassie. Si tratta in fondo di fenomenologia, di interpretazione dei fenomeni per come essi sono portandosi dietro tutta una interpretazione del mondo. Bukowski non fa analisi psicologiche, non costruisce niente, lascia parlare la realtà. Va nel centro di tutto senza bussare alla porta, passando per quella di servizio, anzi per quella che porta alla toelette, ai cessi dell'esistenza. Però ci va dentro fino a tirarne fuori l'essenza. I versi di Bukowski hanno un po' di follia? Forse, ma è quella follia che nasce dalla lucida presa di atto che è il mondo ad essere impazzito: la società ci costringe ad un mostruoso conformismo, ad una esistenza programmata e incasellata da un meccanismo che stritola le nostre individualità e ci rende tutti replicanti. L'unica possibilità di salvezza è l'estraneità e la follia, la lucida follia visionaria che ci fa vedere quello che gli altri non vedono. Sono versi che ci toccano nell'animo come pochi poeti sanno scrivere.( Poeta? Se Bukowski sentisse questa definizione di se scoppierebbe a ridere con la sua risata rauca, tossigena). La poesia che riporto qui sotto è metafora del nostro mondo. E' interpretazione profonda, sentita, lucidissima del mondo al tempo della sovrappopolazione, del mondo delle megalopoli, delle periferie urbane intossicate dai fumi, dallo stress, dalla depressione, dalla inumanità che solo l'uomo, l'uomo moderno sa mostrare nella sua efferatezza. Onore a un grande poeta. agobit




john dillinger e le chasseur maudit

è un peccato e non è questo il modo, ma chi se ne frega:
le ragazze mi ricordano capelli nel lavandino, le ragazze mi
ricordano intestini,
e vesciche e movimenti escretori; è anche un peccato che
i campanelli dei gelati, i neonati, le valvole dei motori, i
plagiostomi, le palme,
i passi nel corridoio...mi eccitino tutti con la fredda calma
di una pietra tombale; da nessuna parte, forse, trovo rifugio
tranne
nel sentire che c'erano altri uomini disperati:
Dillinger, Rimbaud, Villon; Babyface Nelson, Seneca, Van Gogh,
o donne disperate: donne wrestler, infermiere, cameriere,
poetesse
puttane...sebbene,
immagino che la preparazione dei cubetti di ghiaccio sia
importante
o un topo che annusa una lattina di birra vuota -
due vuoti svuotati che si contemplano,
o il mare notturno bloccato da navi luride
che entrano nella cauta ragnatela del tuo cervello con le loro luci,
con le loro luci salate
che ti toccano e ti lasciano
per l'amore più solido di qualche India;
o guidare per lunghe distanze senza ragione
rimbambito dal sonnocon i finestrini aperti che
ti strappano e ti fanno sventolare la camicia come un uccello
impaurito,
e sempre i semafori, sempre rossi,
fuoco notturno e sconfitta, sconfitta...
scorpioni, brandelli, fardelli:
ex lavori, ex mogli, ex facce, ex vite,
Beethoven nella tomba morto quanto una barbabietola;
carriole rosse, sì, forse,
o una lettera dall'Inferno firmata dal diavolo
o due bravi ragazzi che si pestano a sangue
in uno stadio scalcinato colmo di fumo urlante,
ma più che altro non frega niente a me, che sto qui
con la bocca piena di denti marci,
che sto qui a leggere Herrick e Spencer e
Marvell e Hopkins e Bronte (Emily, oggi);
che ascolto Midday Witch di Dvorak
o Le Chasseur Maudit di Franck,
in realtà, non me ne frega niente, ed è un peccato:
ho ricevuto lettere da un giovane poeta
(molto giovane, sembra) che mi dice che un giorno
sarò certamente riconosciuto come
uno dei migliori poeti del mondo. Poeta!
una malversazione: oggi ho camminato nel sole e nelle strade
di questa città: senza vedere niente, senza imparare niente,
senza essere
niente, e tornando alla mia stanza
ho incrociato una vecchia che ha sorriso di un sorriso orribile;
era già morta, e dappertutto mi sono ricordato di cavi:
cavi telefonici, cavi elettrici, cavi per facce elettriche
intrappolate come pesci rossi nel vetro che sorridevano,
e gli uccelli erano spariti, nessuno degli uccelli voleva cavi
o il sorriso dei cavi
e ho chiuso la porta di casa (finalmente)
ma dalle finestre era la stessa cosa:
un clacson ha suonato, qualcuno ha riso, un water ha scaricato,
e stranamente in quel momento
ho pensato a tutti i cavalli con i numeri,
che sono passati tra le urla,
passati come Socrate, passati come Lorca,
come Chatterton...
preferirei immaginare che la nostra morte non sarà molto
importante
se non per un problema di smaltimento, un problema,
come gettare la spazzatura,
e anche se ho conservato le lettere del giovane poeta,
non credo in esse
ma così come guardo
le palme malate
e la fine del sole
a volte le guardo.

(Charles Bukowski, 1966: so benissimo quanto ho peccato. Guanda 2011. Pag.87-91)

martedì 8 novembre 2011

RICONOSCERE IL PROBLEMA DEMOGRAFICO





Non c'è nessuna base ragionevole per affermare che il problema della fame sia "soltanto" un problema di distribuzione, anche se è vero che oggi una ridistribuzione delle risorse alimentari allevierebbe enormemente la fame. Purtroppo, una verità importante- che la maldistribuzione è attualmente una causa della fame- è stata usata per eludere una verità ancora più importante: che la sovrappopolazione è cruciale oggi e può mettere in discussione la questione della distribuzione domani.
Il problema alimentare, tuttavia, desta poca preoccupazione immediata per i ben nutriti americani, che non hanno nessuna ragione per essere consapevoli della sua gravità ed estensione. Ma altri fatti che potrebbero porre chiunque di fronte alla gravità del dilemma demografico sono attualmente intorno a noi, poiché i problemi alla cui gravità contribuiscono in misura notevole la sovrappopolazione e la crescita demografica stanno peggiorando molto rapidamente. Essi appaiono spesso nei telegiornali, anche se non sono quasi mai posti in relazione con il problema demografico. Prendiamo le immagini televisive di navi cariche di rifiuti che vagano per i mari...esse mostrano i risultati dell'interazione fra troppe persone che vivono nell'opulenza e le tecnologie ambientalmente distruttive che la rendono possibile. La crescente probabilità di nuotare in una miscela di spazzatura e rifiuti sanitari lungo le spiagge americane si può far risalire alle medesime cause. Le moltitudini che muoiono di fame nell'Africa subsahariana sono le vittime di siccità, di politiche agrarie fallimentari e di una sovrappopolazione, con la guerra che spesso da il colpo finale. Tutti questi sono sintomi del massiccio e crescente impatto negativo dell'umanità sui sistemi di sopravvivenza della Terra. L'uomo medio, persino lo scienziato medio, raramente coglie la connessione tra questi eventi apparentemente disparati e il problema demografico, e quindi non si preoccupa. In certa misur, questa incapacità di mettere assieme i vari pezzi è dovuta ad un tabù, che vige in molti settori, di discutere francamente della crisi demografica - un tabù in parte generato dalle pressioni della gerarchia cattolica, in parte da altri gruppi che temono che trattare dei problemi demografici produca dei risultati socialmente dannosi...Tutti noi tendiamo naturalmente a osservare il tabù di non occuparsi della crescita demografica. Le radici della nostra avversione a limitare la consistenza numerica della popolazione umana sono altrettanto profonde e diffuse delle radici del comportamento sessuale umano. Per miliardi di anni di evoluzione biologica, la regola del gioco è stata quella di riprodurre il maggior numero possibile di altri individui della specie. Questa è la base stessa della selezione naturale, la forza motrice del processo evolutivo. Ciononostante il tabù deve essere sradicato e respinto.
IL SUPERAMENTO DEL TABU'. Non c'è più tempo da perdere; in effetti non ce n'era nemmeno nel 1968, quando fu pubblicato The Population Bomb. L'inazione umana ha già condannato altre centinaia di milioni di individui a morire prematuramente di fame e di malattie. Bisogna che l'opinione pubblica si convinca della connessione demografica. L'azione per arrestare umanamente l'esplosione demografica e avviare un graduale declino demografico deve diventare una priorità assoluta; il tasso di natalità deve essere abbassato al più presto possibile un po' sotto il tasso di mortalità. Può darsi che ci sia ancora tempo per limitare la portata della catastrofe incombente, ma non molto tempo. Porre termine all'esplosione demografica controllando le nascite è necessariamente un processo lento. Solo il modo crudele della natura di risolvere il problema può essere rapido. Ovviamente se ci destiamo e riusciamo a controllare le dimensioni della nostra popolazione, ci rimarranno da risolvere tutti gli altri problemi spinosi. Limitare il numero degli esseri umani non porrà da solo fine alla guerra, al deterioramento ambientale, alla povertà, al razzismo, al pregiudizio religioso, o al sessismo: ci darà soltanto la possibilità di porvi fine. Come dice il vecchio adagio, qualunque sia la tua causa, senza controllo demografico è una causa persa.
L'America e gli altri paesi ricchi sono attualmente di fronte ad una scelta chiara. Possono continuare a ignorare il problema demografico, allora saranno intrappolati in una spirale discendente. Siccità più frequenti, cattivi raccolti, carestie, una maggiore deforestazione, più inquinamento, più conflitti internazionali, più epidemie, più ingorghi stradali, più droga, più criminalità, una massa crescente di rifiuti e altre cose spiacevoli segneranno il nostro cammino. Oppure possiamo mutare la nostra mentalità collettiva e prendere le misure necessarie per abbassare drasticamente il tasso di natalità mondiale. La gente può imparare a trattare la crescita come quella malattia cancerosa che è, e a muoversi nella direzione di una società sostenibile.
(P.R. Ehrlich: Un pianeta non basta, ed. Franco Muzzio, 1991 pag.15-18)

Nota del curatore del Blog: sono passati più di venti anni da quando Ehrlich scriveva queste parole. Il mondo ha continuato la sua folle corsa. Qualche giorno fa i midia hanno riportato la notizia del raggiungimento di sette miliardi di umani, spesso rallegrandosene. Quando Ehrlich scriveva ce n'erano 5,3 miliardi. La bomba non si è fermata. L'esplosione continua. I chiechi continuano a essere ciechi, i sordi a fare i sordi. La vita si avvia ad essere invivibile, il mondo a perdere la sua bellezza, l'uomo a perdere la sua umanità per divenire un numero, un pollo in batteria. Viviamo in mezzo ai tossici. Il richiamo di Ehrlich continua ad essere un grido nel deserto.

lunedì 7 novembre 2011

ELOGIO DELLA FRUGALITA'







L'eccesso è la cifra dell'uomo delle megalopoli. Insieme alla concentrazione demografica, alla ricerca continua di stimoli, di divertimenti, di relazioni, la vita dell'uomo delle megalopoli è centrata sul corpo e sul cibo. Il corpo viene allenato, stressato, curato, vestito, abbigliato, massaggiato, abbronzato, alimentato. Nelle megalopoli non c'è via di mezzo: o si sottopone il corpo ad una gratificazione a ripetizione e continua, oppure si cade nella depressione. Il tempo per fermarsi a riflettere o per stare con se stessi si è perso. In questa dualità tra l'ego inteso come corpo e il nulla della depressione, c'è in mezzo la metafisica del cibo. Il cibo è esaltato dovunque. In TV pullulano le trasmissioni culinarie. Salcicce, dolci e arrosti sono ormai nell'immaginario collettivo come le immagini sacre lo erano per i nostri antenati.Se non si mangia cibi elaborati, complessi, ricchi di grassi ed in quantità esagerata ci si sente infelici. Mac Donald e la Nestlè ci hanno fondato un impero. Ormai anche le altre culture, perfino antiche civiltà si stanno accodando alle nuove divinità: il corpo inteso materialmente come fruitore di consumi, e il cibo come manifestazione del proprio egocentrismo. Se non mangi al ristorante e non compri l'automobile vistosa non sei nessuno. L'anonimo non-consumatore non è previsto nel bestiario della megalopoli. E' sconvolgente come nel mondo sovrappopolato delle megalopoli si assista alla distruzione sistematica degli antichi valori, delle antiche credenze religiose, delle tradizioni sopravvissute per secoli. Le grandi migrazioni del XX-XXI secolo non sono che epifenomeno della civiltà delle megalopoli. Gli alti tassi di natalità sono funzionali ai grandi produttori di cibo e merci.Attratti dai richiami pubblicitari tutti abbandonano le famiglie, i luoghi, i rapporti, le culture tradizionali e si spostano alla ricerca di un miglior tenore di vita, cioè di una vita che curi il corpo, che dia le risorse per farlo star bene (automobile, casa accogliente, riscaldamento, vestiti, accessori,ecc.) e cibo per nutrirlo, cibo di ogni tipo, in quantità smisurata. La bibbia che esalta questo nuovo Eden è la TV, e più recentemente la rete. Il tempio della nuova trimurti è il supermercato, il nuovo luogo sacro delle megalopoli. Se l'uomo antico poteva avere ancora una porzione della mente per la spiritualità, l'uomo nuovo delle megalopoli l'ha eliminata del tutto. Persino il credente, l'osservante, ha relegato il sacro ai rimasugli di tempo, per poi dedicare tutto se stesso e tutta la vita a corpo e cibo. Attraverso i midia vengono gonfiati i desideri, le aspettative. Tutto questo genera insoddisfazione, e l'insoddisfazione viene curata con cibo, tanto cibo. L'ossessione per il cibo ha il suo rovescio nella mania per le diete. Le diete esistono per essere trasgredite. L'obesità è diffusa, e anche i bambini ne soffrono sempre di più. Gran parte delle malattie nella civiltà delle megalopoli sono da eccesso di alimentazione: obesità, diabete, aterosclerosi, malattie degenerative. Il circolo vizioso dello stress e del cibo è senza uscita: lo stress porta ad iperalimentarsi, ma il troppo cibo è a sua volta fonte di malessere e stress. I centri per dimagrire lavorano a pieno ritmo, come i ristoranti. La carne degli animali è l'apoteosi del cibo voluttuario. Abbiamo messo su veri e propri lager per animali, dove vengono fatti crescere in modo innaturale e tra i tormenti poveri animali che poi vengono uccisi per darci il piacere del cibo abbondante e colesterolico. Per procurare i mangimi alle vittime vengono affamate popolazioni e distrutti milioni di ettari di foresta ogni anno. Giusta punizione a questa crudeltà è l'infarto, il segno che un dio forse esiste. La bravura del Netter ci rende un drammatico quadretto ma veritiero dell'infarto nell'immagine riportata sotto il titolo. L'uomo, cicciottello, sta uscendo da un ristorante dove ha pasteggiato in abbondanza. Sta salendo le scale -un piccolo sforzo- e fa freddo. Ha una valigia e sta forse per prendere un treno: i ritmi frenetici della città lo stressano. Il dolore lo attanaglia all'improvviso e lo sguardo angosciato ci dice dell'abbisso che vede di fronte a se. Stress e iperalimentazione come prodotto della megalopoli e della sovrappopolazione.
Per combattere l'eccesso è utile la frugalità. La frugalità è un valore che può ridarci un equilibrio. Meno cibo può contribuire a ridarci una identità umana secondo natura. Mangiare meno, mangiare poco. Preferire i cereali, i legumi, le verdure, la frutta. Scegliere i cibi magri. Ridurre o meglio abolire la carne. Le proteine meglio se vegetali o di pesce. Coltivare il digiuno come esercizio di spiritualità. Bere l'acqua; riservare il vino, poco, alla festa. Dal cibo poi passare a curare gli altri eccessi: l'auto inutilmente grande, le spese inutili, i vestiti costosi, le case troppo grandi troppo scaldate d'inverno, troppo condizionate d'estate. I troppi viaggi. I troppi aerei. I troppi consumi. E' un piccolo passo verso un mondo migliore.

sabato 5 novembre 2011

UN LIBRO STORICO: LA DENUNCIA DI PAUL R. EHRLICH






Uscì in Italia nel 1991, l'edizione americana (The Population Explosion) era del 1990. E' un libro storico e fondamentale, il primo che denuncia l'esplosione demografica come il problema ambientale numero 1, quello da cui tutti gli altri derivano. Il primo che mette in connessione in maniera esplicita il pauroso boom demografico della seconda metà del novecento con la grave situazione in cui si trova l'umanità, l'inquinamento massiccio, il mutamento climatico, l'esaurimento delle risorse non rinnovabili, le crescenti tensioni internazionali, e le nuove epidemie. Il primo libro che affronta con rigore scientifico gli effetti drammatici della bomba demografica che stava interessando in quegli anni e che, purtroppo ancora oggi, interessa il pianeta. P. Ehrlich è uno dei maggiori ecologi del nostro tempo e già nel 1971 sulla rivista Science aveva elaborato la famosa equazione I= P x A x T in cui I sta per l'impatto della specie umana sulla biosfera, P è il numero di esseri umani sul pianeta, A la quantità di beni materiali utilizzati da ciascun individuo, T la quantità di agenti inquinanti sviluppati dalla tecnologia. Come si evince dall'equazione, P è il primo fattore che funge da moltiplicatore di tutti gli altri. Se si vede la foto della copertina dell'edizione italiana, riportata sopra, si nota un fatto straordinario: il libro era sponsorizzato allora dal WWF. Poi la triste parabola degli ecologisti italiani, perdutisi dietro ideologie marxiste e terzomondiste, li hanno portati a rifiutare ogni discorso sulla sovrappopolazione, a divenire ciechi e sordi. Oggi criticano la società liberale e si dedicano agli specchietti solari e ai mulini a vento, illudendosi che il fattore P non esista. Di fatto si sono condannati all'impotenza e al giardinaggio. Alcuni fondamentali brani del libro, mi riprometto di riproporli brevemente sul blog in prossimi interventi.

venerdì 4 novembre 2011

IL MONDO E' UN RECIPIENTE SACRO

Vorresti afferrare il mondo e cambiarlo?
Io vedo che ciò non è possibile.
Il mondo è un recipiente sacro:
non si può cambiare.
Coloro che lo cambiano lo rovinano,
coloro che lo afferrano lo perdono.

In verità gli esseri
a volte precedono, a volte seguono,
a volte sono lamentosi, a volte sono arroganti,
a volte sono forti, a volte sono deboli,
a volte sono distrutti, a volte distruggono.

Per questo il saggio evita l'eccesso,
evita lo spreco, evita l'estremo.

Lao Tzu: Tao Te Ching; VI secolo a.C.

(Feltrinelli 2011, traduzione di Augusto Shantena Sabbadini).

mercoledì 2 novembre 2011

LA SPIANATA DEGLI ULIVI



I Verdi possono gioire, avranno un bell'impianto di pannelli fotovoltaici stesi belli belli su una spianata di ulivi vicino Martano, in Puglia. Anzi di ex ulivi, visto che sono stati espiantati. Ma come, i pannelli fotovoltaici non erano ecologicamente corretti, ambientalmente sostenibili? C'è un piccolo problema: dove li monti si crea il deserto perché la luce che era destinata al terreno e alle piante va a finire sui pannelli di silicio, condannando alla desertificazione il terreno sottostante. Inoltre se ci sono alberi, secolari o meno, come gli ulivi del filmato, fanno una brutta fine. Il tutto poi per produrre una potenza da un Megawatt, che è come dire poco o niente. Ricordiamo che l'energia più pulita dal punto di vista ambientale, quella nucleare, non distrugge ettari di terreni alberati, e produce una potenza di milioni di Megawatt. Ma si sa, i Verdi ragionano con l'ideologia, il modo migliore per produrre disastri ambientali.

Secondo Benedetto XVI prima viene l'uomo, poi il creato...

(Mumbai-India)



Papa Ratzinger stigmatizza l'ecologismo e l'ambientalismo a oltranza e ricorda qual è il posto nella prospettiva cristiana che la natura deve avere, senza ideologismi. Lo fa in uno dei passaggi centrali del messaggio per la Giornata mondiale della pace - che si celebra il primo gennaio - diffuso ieri dal Vaticano. Il testo, intitolato "Famiglia umana comunità di pace", affronta le grandi e urgenti questioni, come quella ambientale, con uno sguardo attento rivolto al problema del divario fra Paesi ricchi e sottosviluppati, al tema delle risorse energetiche, al rischio che il tema ecologico cada, appunto, nell'ideolo gia...
Ma la novità più consistente è la trattazione della questione ambientale. «La famiglia», si legge nel messaggio, «ha bisogno di una casa. Per la famiglia umana questa casa è la terra, l'ambien te che Dio ci ha dato perché lo abitassimo con creatività e responsabilità. Dobbiamo aver cura dell'ambiente: esso è stato affidato all'uomo perché lo custodisca e lo coltivi con libertà responsabile, avendo sempre come criterio orientatore il bene di tutti. L'essere umano, ovviamente, ha un primato di valore su tutto il creato». (Roma 2007, da un articolo di giornale).

Commento del curatore del Blog: è la solita visione della Chiesa. La Terra è un magazzino a disposizione dell'uomo, quello attuale in particolare. Ma l'uomo non deve esagerare però...la rapina dei beni della natura non deve essere totale, altrimenti le generazioni future rimarranno senza bottino, e pure loro sono figli di dio! Poi ci sono i poveri e derelitti, che ora sono impossibilitati a rapinare alla grande ma in futuro, una volta sviluppatasi la condizione economica, potranno partecipare al banchetto, per cui anche per loro qualcosa va lasciato. Quanto alla Natura e al Pianeta...ecchissenefotte, in fondo si tratta del creato che è stato...creato appunto per soddisfare gli appetiti dell'uomo, figlio di dio fatto a sua immagine e somiglianza. All'anima dell'antropocentrismo!