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venerdì 30 dicembre 2011

BUON ANNO CON HOPPER E JIMI HENDRIX

Chi meglio di Hopper ha dipinto l'iper-realtà crepuscolare di un mondo in cui, nonostante la crescita demografica esplosiva, domina sempre di più la solitudine dell'anima? Tutto è sospeso in una atmosfera di preludio, come se qualcosa di tragico dovesse avvenire. Quella dipinta da Hopper è una moderna Pompei. La musica, surreale, di Hendrix è un commento musicale perfetto.Prendere coscienza è capire. Se si comprende il problema, c'è speranza. Buon 2012.



giovedì 29 dicembre 2011

LIVI BACCI: E’ LA SOVRAPPOPOLAZIONE CHE DISTRUGGE IL PIANETA

(Nella Foto: Italia 1950, il Boom Demografico del Dopoguerra)

Prima timidamente, ma poi, piano piano, finalmentel’hanno capita anche loro ed ora anzi gridano forte i pericoli sempre più evidenti e mortali per il pianeta dell’esplosione demografica. Mi riferisco ai demografi, quelli ufficiali, che appartengono alle istituzioni. Mi riferisco ai Professori di Demografia. Riporto questo capitolo del libro “Storia minima della popolazione del mondo” di Massimo Livi Bacci, professore di Demografia all’Università di Firenze, in cui l’Autore parla esplicitamente dei danni sempre più rilevanti che la sovrappopolazione sta facendo al pianeta. Le parole di Livi Bacci sono tanto più importanti in quanto provengono da uno studioso del problema che parte da posizioni neutrali e senza preconcetti sul problema della crescita demografica. Si tratta di posizioni moderate, che analizzano i problemi in maniera distaccata, portando sempre documentazioni rigorose e studi statistici compiuti da istituzioni prestigiose. La denuncia del professor Livi Bacci sui rischi mortali che corre il pianeta è dunque seria , perché non parte da pregiudizi ma da dati oggettivi, e da prendere in considerazione per trovare le soluzioni urgenti prima che sia troppo tardi. Ormai solo i Verdi e i bigotti delle varie Chiese sono rimasti a negare il problema. Il libro di Livi Bacci (nuova edizione 2011) è una definitiva confutazione delle posizione dei Verdi che negano il problema demografico o lo relegano a problema minore, ritenendo prioritari i campi delle energie pulite e rinnovabili, e quello dei regolamenti sulle polluzioni o sulla decrescita economia e linterventi sulla produzione. Livi Bacci dimostra come tutti questi elementi , compresi l’economia, l’energia e la produzione, siano collegati all’esplosione demografica e al conseguente volume delle attività umane, e che, senza affrontare il problema demografico, nessuna politica economica e sul controllo delle energie, porterà alla salvezza del pianeta.

LIMITI EMERGENTI: SPAZIO E AMBIENTE.
Se la maggiore domanda di cibo implica, almeno in parte, un’intensificazione dell’agricoltura, allora i mutamenti nell’utilizzo dei suoli possono mettere in pericolo aree che già si trovano in fragile equilibrio. Le alterazioni dell’habitat non sono, naturalmente un fatto nuovo nella storia. Il volto dell’Europa è assai mutato dal Medioevo ad oggi, al passo con la graduale erosione del manto boscoso del continente. In generale, si è stimato che l’estensione della terra coltivata si sia moltiplicata per 6 dal 1700 al 1980, un aumento meno che proporzionale all’espansione della popolazione. Nel 1989-91 130,4 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre erano suddivisi come segue: 14,4 milioni di chilometri quadrati (11,0%) per coltivazioni agricole; 33,6 (25,8 %) per pascoli permanenti; 39 (29,9 %) per boschi e foreste; e 43,4 (33,3 %) venivano classificati come “altra superficie” (terre non coltivate, praterie non dedicate a pascolo, aree umide; aree costruite ecc.). Soffermiamoci sui mutamenti che investono l’estensione delle foreste –il cui valore per l’equilibrio bionaturale del mondo è fondamentale. La deforestazione del bacino amazzonico è forse il fenomeno che desta maggiore preoccupazione e dibattito. Si stima che la deforestazione abbia intaccato tra il 15 e il 20 % del manto, soprattutto a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, e per cause molto semplici: per acquisire estensioni da dedicare ad allevamento e coltivazioni agricole sotto la spinta della domanda di popolazioni in espansione; per la produzione di legname; per la prospezione mineraria e petrolifera; per opere infrastrutturali; per l’immigrazione.
Fenomeni simili sono avvenuti, o stanno avvenendo, in altre parti del mondo. Mutamenti di questa natura, se continuassero a lungo, provocherebbero una profonda modificazione della faccia della Terra. Se ci affidiamo alle stime della Fao le tendenze recenti hanno risultati misti: a livello mondiale, il tasso di deforestazione si sarebbe attenuato tra il 1990-2000 e il 2000-2010 (dimezzandosi da -0,2% all’anno a -0,1 %), ma i ritmi di deforestazione rimangono molto alti in Africa, in America Latina e nei Carabi; in altre regioni del mondo –Europa, Asia orientale,- si sono invece realizzati guadagni della superficie boscata.
L’incidenza della crescita della popolazione è evidente nel caso di ambienti fragili come le foreste tropicali. Benché vi sia controversia circa la velocità del processo di deforestazione, c’è concordanza sul fatto che la causa principale sia la preparazione del terreno per le coltivazioni- particolarmente in Africa e in America Latina- dove avvengono circa i due terzi della deforestazione. Il ritrarsi della superficie forestale è la diretta conseguenza della crescente domanda di cibo e di legname e, indirettamente, della crescita demografica. Indagini macro, nelle quali le unità sono i singoli paesi, riscontrano una relazione positiva tra tasso di crescita della popolazione e velocità di deforestazione, ma questa relazione è relativamente debole per l’opera di altri fattori: la possibilità di intensificazione, la densità demografica, la legislazione in essere, l’assetto istituzionale. Gli studi di casi individuali, invece, hanno chiaramente descritto situazioni nelle quali la deforestazione si è prodotta per effetto della pressione demografica in contesti tanto diversi come quello delle Filippine – dove la migrazione dalle terre basse, densamente insediate, verso l’interno montagnoso scarsamente popolato ha prodotto una rapida deforestazione- ai casi del Guatemala, Sudan e Thailandia. In genere, c’è un’interazione tra rapida crescita della popolazione, povertà e degrado ambientale. La povertà è associata all’alta fecondità poiché i figli – in assenza di sistemi pubblici sanitari e pensionistici – sono un’assicurazione contro la vulnerabilità della vecchiaia. La scarsità di capitale e di risorse di base – come acqua e legna per usi domestici – sostengono l’alta fecondità poiché i bambini forniscono lavoro e reddito. Infine l’alta fecondità determina alti tassi di crescita che danneggiano ulteriormente le risorse ambientali, particolarmente quando queste sono beni comuni.
La crescita delle aree costruite per uso abitativo, industriale, commerciale o ricreativo, per trasporti e comunicazioni e per altri scopi è un altro aspetto della trasformazione dell’uso dei suoli che non può continuare per sempre. Una forza trainante di questi processi è l’urbanizzazione. Secondo le stime e le proiezioni delle Nazioni Unite (vedi figura in alto), la popolazione urbana è cresciuta dal 28,8 % della popolazione del mondo nel 1950 al 50,5 % nel 2010; oltre tre quarti delle popolazioni sviluppate vivono oggi in aree urbane, e si prevede che una maggioranza delle popolazioni dei paesi meno sviluppati sarà urbanizzata a partire dal 2020. Una crescente proporzione della popolazione urbana vive poi nei grandi agglomerati e nelle megalopoli: in America, sia del Nord che del Sud, circa un abitante urbano su cinque vive in agglomerati che superano i 5 milioni di abitanti; uno su sei in Asia, uno su dodici in Africa.
Dati riguardanti un insieme di paesi europei mostrano – come del resto era da attendersi –una relazione diretta tra densità della popolazione e proporzione della superficie costruita: il minimo si trova in Lettonia ( 6% della superficie occupata per finalità residenziali, commerciali e industriali e una densità di 36 abitanti per chilometro quadrato) e il massimo in Olanda (37 % e una densità di 487). La concentrazione della crescita demografica nelle aree costiere è un altro problema potenziale; è stato stimato che alla fine del secolo scorso circa due terzi della popolazione mondiale vivesse entro 60 chilometri dalla costa: “ Conseguentemente la pressione ambientale sulle terre e le acque costiere diviene progressivamente più intensa con l’aumento delle superfici costruite, l’inquinamento, il depauperamento e l’esaurimento della fauna marina (…). La vulnerabilità ecologica delle aree costiere è stata resa evidente negli ultimi anni dai ricorrenti disastri naturali ( tifoni, inondazioni da alta marea) che hanno colpito le zone deltaiche dei paesi del Sud e del Sud-Est asiatico, particolarmente nel Bangladesh, e che hanno creato molti problemi di protezione ambientale” (B. Zaba e J.I. Clarke, Introduction: Current Directions in Population-Environment Research, Liège, 1994).
Infine, un cenno alle complesse relazioni tra popolazione, clima e i suoi mutamenti. Questo è un argomento assai intricato e tecnicamente complesso, che qui viene toccato solo di sfuggita. E’ oramai provato che l’aumento delle emissioni di gas serra dovuto alla crescita della popolazione e del volume delle attività umane sia alla radice del riscaldamento in atto da qualche decennio. Si calcola che il volume delle emissioni di gas serra (per i quattro quinti anidride carbonica) tra il 1970 e il 2004 sia cresciuto dell’ 80 % e a questo incremento abbiano concorso tutte le attività umane ( produzione di energia, le attività industriali, quelle agricole, residenziale e commerciali, i trasporti). Potremmo dire – adattando l’equazione di Ehrlich – che l’impatto ambientale dovuto ai gas serra (I) è il risultato dell’azione congiunta della popolazione, del livello economico e della tecnologia impiegata (cioè P, A e T). Scrivendo vent’anni addietro, Bongaarts aveva stimato che all’aumento della popolazione spettasse circa la metà dell’incremento delle emisioni tra il 1985 e il 2025 (J. Bongaarts, Population Growth and Global Warming, New York, The Population Council, 1992). Le ultime complesse simulazioni condotte dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) basate su ipotesi circa lo sviluppo della popolazione, la crescita economica, l’andamento delle emissioni, hanno confermato che la tendenza al riscaldamento proseguirà durante il secolo e che a fine secolo (il decennio 2090- 99) la temperatura media del globo sarà più alta, tra 1,8 e 4 gradi centigradi a seconda delle ipotesi, rispetto alla fine del ventesimo secolo (1980-99). In che misura, e in che modo, il riscaldamento globale influirà sui fenomeni demografici? Prima di avanzare qualche considerazione, va tenuta presente l’estrema adattabilità climatica della specie umana che fino dal paleolitico troviamo insediata alle latitudini più diverse e negli ambienti più estremi. E senza le protezioni che l’esperienza e le tecnologie hanno via via reso disponibili. Oggi, gli abitanti di Irkutsk, quasi un milione, vivono a una temperatura media annua di un grado sotto lo zero (e a gennaio il termometro segna mediamente -20 °C). Gli abitanti di Mascate, capitale dell’Oman, 29 gradi di latitudine più a sud della città siberiana, vivono a una temperatura media annua che sfiora i 30 °C. Verrebbe da dira che un aumento di qualche grado, spalmato su quasi un secolo, non dovrebbe avere conseguenze rilevanti. Ma questa conclusione sarebbe una semplificazione eccessiva, e nasconderebbe molti aspetti negativi che è bene citare. Primo, una notevole variabilità del mutamento climatico nelle varie aree del globo, con un impatto particolare in aree fragili o marginali. In particolare le aree costiere sarebbero assai più vulnerabili a inondazioni, con conseguenze negative rilevanti pervaste popolazioni. In secondo luogo l’inaridimento di vaste regioni a basse latitudini e una perdita di produttività delle coltivazioni cerealicole. In terzo luogo una redistribuzione geografica di agenti patogeni e nelle aree soggette a maggiore riscaldamento un aumento di alcune patologie infettive e della malnutrizione. In ultimo, un’accresciuta morbilità e mortalità conseguente a ondate di calore, alluvioni e siccità.
I quattro punti discussi nei due ultimi paragrafi rendono manifesta la complessità della relazione tra crescita demografica e ambiente. Questa relazione è influenzata per molte vie dal numero degli abitanti e dal volume e dalla natura delle attività umane. L’inevitabile crescita della popolazione nella prima metà del secolo, e l’aumento del benessere, determinerà una crescente domanda di materie prime, alimenti e spazio; depaupererà alcune risorse fisse e ne metterà sotto pressione altre che sono rinnovabili. Lo sviluppo tecnologico potrà neutralizzare parte degli effetti negativi, aumentando i processi di sostituzione e controllando l’inquinamento; l’azione istituzionale potrà raggiungere analoghi obiettivi, regolando l’uso dello spazio, l’accesso alle risorse e via dicendo; mentre mutamenti culturali potranno anch’essi contribuire a questo fine, determinando cambiamenti dei modelli di consumo e di comportamento. Tuttavia, tre punti debbono essere riaffermati: il primo è che la crescita demografica non è neutra nei confronti dell’ambiente; il secondo, che segue dal primo, è che un rallentamento della crescita può facilitare la soluzione dei vari problemi; il terzo è che mai nel passato l’impatto dell’attività umana che minaccia l’ecosistema planetario è stato così forte come oggi. E’ quindi prudente moderare i rischi , e il rallentamento della crescita demografica contribuisce a questo fine.

(Dal libro di Massimo Livi Bacci: Storia minima della popolazione del mondo. Il Mulino 2011, pag. 312 e seg.)

martedì 27 dicembre 2011

CELINE: L’UOMO E LA NOTTE SENZA FINE




Le notti della guerra al fronte nel ’15-’18 scritte da Celine sono tra le pagine più belle della letteratura moderna. Come non andare con il ricordo ai versi stupendi dell’Iliade che descrive la notte sulle truppe degli Achei accampati sulle spiagge prospicienti la città di Troia, rischiarata dai fuochi notturni accesi negli accampamenti. Dice Omero che i fuochi degli uomini, in basso, somigliavano alle luci del cielo stellato in alto in una specie di corale melodia. E come non ricordare ancora la notte di Leopardi, nel “Canto notturno di un pastore…”. Ma queste notti della Grande Guerra vanno oltre la poesia. Celine ci mostra in questo brano del “Viaggio al Termine della Notte” come la bellezza della notte sia perduta per l’uomo moderno, incapace di fermarsi a guardare il cielo stellato. In quei primi anni del ‘900, che doveva essere il secolo del progresso, è troppo impegnato sui campi di battaglia in un’opera di distruzione, in un vero massacro senza senso, al servizio di una grande macchina tecnologica che divora tutto e che non si riesce più a controllare. Il contrasto tra il lirismo della notte e la concretezza terrena della guerra è il contrasto che regna tra l’uomo moderno e la natura, tra la tecnica bruta e il bisogno di un’alba che non viene.


“Ma il più delle volte non lo trovavamo mica il reggimento, e non facevamo altro che aspettare il giorno aggirandoci intorno ai villaggi per sentieri sconosciuti, ai margini dei borghi evacuati, e i subdoli boschi cedui, scansavamo tutto questo per quanto possibile a causa delle pattuglie tedesche. Bisognava comunque pur essere da qualche parte attendendo il mattino, da qualche parte nella notte. Potevamo mica evitare tutto. Da allora, so cosa devono provare i conigli selvatici.
Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pincon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare, seduta stante, dal capitano della gendarmeria, che non lo lasciava mai d’un passo e che, lui, pensava esattamente a quello. Era mica con i tedeschi che ce l’aveva, il capitano della gendarmeria.
Dovemmo dunque rischiare le imboscate per notti e notti imbecilli che si susseguivano, con la sola speranza sempre meno ragionevole di ritornare e quella soltanto e anche che se fossimo tornati non avremmo dimenticato mai , assolutamente mai, che avevamo scoperto sulla terra un uomo congegnato come voi e me,ma molto più carogna dei coccodrilli e degli squali che passano fra due acque a fauci spalancate attorno ai battelli d’immondizie e carni avariate che vanno a scaricare al largo, all’Avana.
La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera (…)
E tutte le sere poi verso quell’epoca, molti villaggi si sono messi ad ardere all’orizzonte, questo si ripeteva, ne eravamo circondati, come dal gran cerchio di una strana festa di tutti quei paesi là che bruciavano davanti a noi e ai due lati, con fiamme che montavano e leccavano le nuvole. Si vedeva passarci tutto nelle fiamme, le chiese, i fienili, le une dopo gli altri, i covoni di fieno che facevano le fiamme più animate, più alte del resto, e poi le travi che s’alzavano tutte diritte nella notte con barbe di faville prima di ricadere nella luce. Si vede bene com’è che brucia un villaggio, anche a venti chilometri. Era allegro. Un borgo da niente che non si notava nemmeno durante il giorno, in fondo a una campagnetta meschina, eh be’, si ha mica idea la notte, quando brucia, l’effetto che può fare! Potrebbe essere Notre-Dame! Ci mette anche tutta una notte a bruciare un villaggio, anche uno piccolo, alla fine si direbbe un enorme fiore, poi, nient’altro che un boccio, poi più niente. Fuma, allora è mattino.. I cavalli che lasciavamo sellati, nei campi intorno a noi, non si muovevano. Noi, andavamo a ronfare sull’erba, salvo uno, che faceva la guardia, a turno, per forza. Ma quando ci sono i fuochi da guardare, la notte passa molto meglio, è più niente da sopportare, non è più la solitudine.
Sfortuna che non han durato i villaggi…In capo a un mese, in quel cantone, non ce n’era già più. Le foreste anche, gli han tirato sopra, coi cannoni. Non han durato otto giorni le foreste. Fanno ancora bei fuochi le foreste, ma sta per finire.
Si faceva la coda per andare a crepare. Perfino il generale non trovava più accampamenti senza soldati. Abbiamo finito per dormire tutti in aperta campagna, generali o no. Quelli che avevano ancora un po’ di cuore l’hanno perso. E’ a partire da quei mesi lì che hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su il morale, a drappelli interi, e che il gendarme ha cominciato a essere citato all’ordine del giorno per il modo con cui conduceva la sua piccola guerra personale, quella profonda, vera tra le vere (…)
Ci ritagliavamo nella notte qua e là dei quarti d’ora che assomigliavano molto al tempo adorabile della pace, a quei tempi diventati incredibili, dove tutto era benevolo, dove niente in fondo arrivava mai al dunque, dove si realizzavano tante altre cose , tutte diventate adesso straordinariamente , meravigliosamente gradevoli. Un velluto vivente, quel tempo di pace…
Ma presto le notti, anche quelle, a loro volta, furono braccate senza pietà. Quasi sempre la notte bisognava far lavorare ancora la stanchezza, patire un piccolo supplemento, solo per mangiare, per trovare una piccola razione di sonno nel buio. Arrivava alle linee degli avamposti, il mangiare, vergognosamente strisciante e greve, in lunghi cortei zoppicanti di carriole precarie, gonfie di carni, di prigionieri, di feriti, d’avena, di riso, di gendarmi e anche di bibendum, il vino in barilotti, che ricordano così tanto la goduria, traballanti e panciuti.
A piedi, i ritardatari dietro i fornelli e il pane e i prigionieri, dei nostri, e anche dei loro, in manette, condannati a questo, a quello, mescolati, attaccati per i polsi alla staffa dei gendarmi, alcuni da fucilare domani, non più tristi degli altri. Mangiavano anche quelli la loro razione di questo tonno così difficile da digerire (non ne avrebbero avuto il tempo), aspettando che il convoglio riparta, sul ciglio della strada – e lo stesso ultimo pane con un civile incatenato con loro, che dicevano che era una spia, e lui non ne sapeva nulla. Noi nemmeno.
La tortura del reggimento continuava poi in versione notturna, a tentoni nelle stradine gibbose del villaggio senza luce e senza volto, piegati sotto sacchi più pesanti di uomini, da un fienile sconosciuto a un altro, strapazzati, minacciati, dall’uno all’altro, , stravolti, senza speranza, proprio di finire altrimenti che nella minaccia, il colaticcio e il disgusto di essere stati torturati, ingannati a sangue da un’orda di pazzi viziosi diventati improvvisamente incapaci d’altro, fin che c’erano, che non fosse uccidere e farsi sbudellare senza sapere perché.
Pancia a terra fra due letamai, a furia di bestemmie, a furia di calci in culo, ci si ritrovava ben presto rimessi in piedi dalle gradaglie e risbattuti ancora una volta verso altri incarichi del convoglio, ancora. Il villaggio trasudava mangiare e pattuglie quella notte gonfia di grasso, di patate, d’avena, di zucchero, che bisognava portare a spalle e buttar lì, a caso in mezzo alle squadre. Portava di tutto il convoglio, tranne la fuga.
Stremata, la corvé si buttava giù attorno alla carretta e allora arrivava il furiere col suo fanale sopra quelle larve. ‘Sta scimmia a doppio mento che doveva scovare gli abbeveratoi nel caos quale che fosse. Da bere ai cavalli! Ma se ne ho visti ,io, quattro uomini, sedere compreso, ronfarci dentro nell’acqua, morti di sonno, fino al collo. “
(Da “Viaggio al Termine della Notte” Editore Corbaccio, 1992, pag. 32 e seg.)


Forse nessun altro scrittore o poeta ci ha dato una descrizione così concreta, carnale, di quelle notti di guerra, dove uomini silenziosi vagavano tra villaggi surreali, in un buio innaturale rischiarato dai fuochi degli incendi, su strade fangose tra deiezioni umane e topi. Era uno spaesamento che non riguardava solo quei poveri soldati, era lo spaesamento di tutta una cultura, di un’intera generazione che era cresciuta nella fiducia nel potere della tecnica e nelle sorti magnifiche e progressive dell’uomo occidentale. In quel silenzio , rotto dal ritmico terribile tonfo delle granate da 55 sparate dai cannoni contrapposti dei popoli europei, finiva un’epoca. In quelle lunghe notti passate appiattiti nelle trincee o sgattaiolando nelle campagne e nei borghi deserti e spesso in fiamme della Grande Guerra, finiva malinconicamente la grande illusione illuminista del dominio incontrastato dell’uomo sulla natura. La notte, con la sua potenza di buio e di silenzio, riprendeva possesso della Terra e gli uomini si ritrovavano a spararsi addosso senza un perché. Si concludeva così la fiducia nel progresso senza limiti e, allo stesso tempo, l’epoca spensierata della Belle Epoque. Subentrava un sentimento claustrofobico in cui l’uomo si sentiva come un topo, rintanato nelle trincee, disperso nella notte, in quelle notti rischiarate solo dai villaggi che bruciano, chiuso nella gabbia di una civiltà che dopo la promessa della felicità sulla Terra, dava luogo al massacro spaventoso e inutile di una intera generazione di civili cittadini della civile Europa . La Scienza e la Tecnica che dovevano darci il paradiso in questo mondo, ci hanno portato invece le bombe, la morte violenta in una apocalisse mai vista. In quelle trincee nasceva, forse, il primo bagliore di una nuova sensibilità, meno arrogante e meno sicura di se, ma più rivolta ai problemi del pianeta e della natura. Gli sconfitti di quella guerra non erano gli imperi centrali, e nemmeno l’intera Europa: in quelle trincee era sconfitto l’uomo moderno che confidava solo in se stesso. L’esito della sicumera illuminista era quello illuminato dai bengala lanciati sui campi di battaglia: gli uomini ridotti a topi, a inutili animali replicanti, aggressivi e distruttivi di ogni cosa fino a distruggere se stessi. agobit

domenica 25 dicembre 2011

CHE FINE HANNO FATTO LE SORGENTI?



Ricordate le sorgenti? Quante volte da ragazzo m'ero inoltrato nei campi ricchi di arbusti verdi, o in un bosco e, in una piccola radura, ecco apparire una pozza d'acqua cristallina che zampillava d'acqua sorgiva. Qualche raggio di sole passato tra le foglie riluceva nell'acqua limpida. Da adulto sono spesso tornato a cercarle, spinto dai ricordi: ho trovato al posto dei campi o del bosco, orrende palazzine, o strade asfaltate. Oppure alte recinzioni, capannoni, cataste di bottiglie di plastica e fuori il solito cartello: Ditta di imbottigliamento Acque Minerali. Ricordo quando da bambino, mio padre mi portava -in bicicletta- a bere all'Acqua Acetosa, una sorgente abbellita da una scalinata e un frontone in marmo fatto da qualche papa nel '500. Era isolata e nel verde, alla periferia nord di Roma, vicino al Tevere. Ricordo ancora la sorpresa piacevole del sapore acidulo dell'acqua, ritenuta in passato terapeutica per molti malanni. Tempo fa, spinto dalla curiosità ci sono tornato. Intorno c'è stata, purtroppo, la spaventosa espansione edilizia degli anni sessanta-settanta; il sito è ormai solo degno di pietà e vergogna: il monumento abbandonato, sede di erbacce cresciute ovunque,e immondizia sparsa. Ho chiesto della sorgente: disseccata da decenni per i lavori di sbancamento circostanti. Poi, recentemente, ho letto che il monumento (non la sorgente ovviamente) è stato restaurato, ma da un circolo privato, il circolo Aniene, che pare se ne sia appropriato. Anche questa antica sorgente è morta e finita come un trofeo al circuito commerciale.
Stanno scomparendo le sorgenti, e con esse la meraviglia che ci suscitavano nel cuore. Forse sono stupidi ricordi infantili. O forse sono il segno che il mondo ha perso il rispetto per il sacro, parlo del sacro dei luoghi, della natura (noi compresi), non del sacro antropomorfo spacciato dalle varie religioni. Senza il senso del sacro che abita i luoghi magici, come quelli delle sorgenti, il mondo non può salvarsi. Gli antichi greci le ritenevano sede delle Ninfe e le personificavano a divinità. Noi le sbanchiamo e le distruggiamo per miseri interessi di bottega. Le sorgenti stanno sparendo, imbottigliate nella plastica o ricoperte da cemento.

mercoledì 21 dicembre 2011

HOBBES: LEVIATHAN




IL FILOSOFO CHE SEPPE PREVEDERE LA MOSTRUOSA MACCHINA ARTIFICIALE CREATA DALL’UOMO MODERNO

Hobbes è un filosofo che a molti non sta simpatico. E’ abbastanza sgradevole perché usa un linguaggio diretto, quasi geometrico, con giudizi netti. Ha il pregio della chiarezza ed un ragionamento stringente. L’uso che fa della ragione non è quello, ad esempio, di Kant che la riempie di contenuti etici. Quella di Hobbes è una ragione fredda, oggettivante, da perito settore. Infatti non si fa illusioni sull’uomo, lo descrive con obiettività empirica, basata sulla osservazione disincantata, antropologica, dell’animale uomo. Lo descrive per com’è effettivamente e non per come vorremmo che fosse. Per la prima volta l’uomo viene descritto senza ricorrere alle scritture della Bibbia, o alla tradizione classica e umanistica; l’uomo hobbesiano non è quello etereo dei dipinti medioevali, vero angelo terrestre, o quello dei dipinti rinascimentali e manieristi, più sicuro di sé, simbolo di virtù. Al contrario l’uomo descritto da Hobbes è un animale fornito di intelletto ma fortemente egoista, impegnato come singolo individuo o gruppo in una lotta per la sopravvivenza e la prevalenza per il bonum sibi , in una guerra –dunque- di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) che vale nello stato di natura e che viene limitata soltanto per un “contratto” tacitamente stipulato tra gli uomini per consentire una vita civile. Corollario di questa visione disincantata dell’uomo è la necessità di una organizzazione potente che controlli la massa di uomini che vivono insieme, che ne limiti le passioni violente, le arroganze e le pulsioni egoistiche. Questa organizzazione potente nasce come cessione del potere dei singoli ad un solo uomo come nelle monarchie assolute, ma sempre di più –nel mondo moderno- la organizzazione di potere riguarda le oligarchie. Hobbes si riferisce allo Stato moderno, ma il discorso si estende evidentemente ad ogni organizzazione finanziaria, sociale, del lavoro, e soprattutto tecnologica e scientifica che consente il controllo e la guida di numeri enormi di persone.


“Se la natura ha fatto gli uomini uguali, questa uguaglianza deve essere riconosciuta; oppure se li ha fatti disuguali, questa uguaglianza dev’essere parimenti riconosciuta, poiché gli uomini, ritenendosi uguali, non entreranno in uno stato di pace se non ad uguali condizioni…
Una moltitudine diviene una sola persona, quando gli uomini vengono rapresentati da un solo uomo o da una sola persona e ciò avviene col consenso di ogni singolo appartenente alla moltitudine.Se il rappresentante è costituito da molti uomini, bisogna considerare come voce di tutti quella del maggior numero…
La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri), nell’introdurre questa restrizione su se stessi sotto la quale li vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta; cioè a dire, di trarsi fuori da quella miserabile condizione di guerra che è un effetto necessario (come è stato mostrato) delle passioni naturali degli uomini, quando non ci sia alcun potere visibile che li tenga in soggezione e li vincoli con la paura di punizioni all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura…
I patti senza la spada sono solo parole…
Il maggior potere umano è quello costituito dai poteri del maggior numero di uomini, riuniti per loro consenso in una sola persona, naturale o civile, la quale può far uso di tutti i loro poteri secondo la sua volontà, e di questo genere è il potere dello Stato..
Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto - per parlare con più riverenza - di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa... »


Lo Stato come “uomo artificiale” è una creatio ex nihilo, realizzata dall’uomo. Sul frontespizio della prima edizione del Leviatano vediamo rappresentato un gigante composto da moltissimi piccoli uomini, un uomo artificiale che nella mano destra tiene una spada, simbolo del potere temporale, e nella mano sinistra un pastorale, simbolo del potere spirituale (oggi potrebbe essere una antenna tv o un cellulare, simbolo del potere virtuale). E sotto questo uomo gigante vediamo città, paesi, campi dove in sicurezza gli uomini si occupano dei loro affari, perché tutto ciò che può causare la disgregazione ed il ritorno allo stato di guerra reciproca, si trova nella mano dell’uomo artificiale: sotto la spada gli strumenti del potere temporale, cioè il potere della collettività, la repressione, le armi; sotto il pastorale gli strumenti del potere spirituale, cioè una chiesa e –modernamente- la cultura, la scuola, i valori, i midia, le televisioni, la persuasione dovuta ai consumi, ai bisogni indotti ecc. Praticamente, afferma Hobbes, si erige il Leviatano trasferendo tutto il potere e tutta la forza a un solo uomo o ad una sola organizzazione di uomini che rappresenti le opinioni e le volontà della maggioranza, e questo è il solo modo per poter controllare la moltitudine di interessi egoistici degli uomini in perenne lotta e competizione tra loro. Modernamente possiamo vedere come questo trasferimento di potere dei singoli individui e delle collettività riguardi in particolare il potere economico, che va concentrandosi in una organizzazione finanziaria di poche elites che addirittura dispongono della sovranità sui singoli Stati.
Osservando l’uomo nella sua oggettività “scientifica” appare subito chiaro che egli non è l’essere assolutamente razionale ed etico che la filosofia di Cartesio faceva supporre. Al contrario, nel concreto sviluppo storico e nella sua oggettività antropologica, l’uomo contiene molti tratti irrazionali ed è provvisto di istinti e comportamenti tutt’altro che etici, anche se controllati e repressi nell’ambito della vita civile. Diversamente da Rousseau che vedeva nelle società primitive il regno dell’eguaglianza e della pace, poi corrotto dalla civiltà, Hobbes riteneva quelle società in preda alla guerra di tutti contro tutti per assicurarsi la vita e il potere sugli altri.

La modernità ha visto l’instaurarsi del dominio della scienza e della tecnica. Questo è il vero grande Leviathan dei tempi moderni. Un potere tecnocratico con molte facce: economica, finanziaria, tecnologica, militare, politica, burocratica, ma tutte dipinte su un unico Moloc uniformante che come un rullo compressore passa sul pianeta sotto l’ideologia antropocentrica del primato assoluto dell’uomo. Come nelle visioni nietzschiane dell’eterno ritorno nella vita delle megalopoli attuali l’uomo è tornato ad essere molto simile alle descrizioni hobbesiane dell’uomo prima dello Stato moderno.. Una delle definizioni delle megalopoli moderne è “giungla d’asfalto”. Qui di nuovo vige una sorta di bellum omnium contra omnes, in cui la guerra civile è stata sublimata, ma sempre di guerra si tratta. Negli spazi sovrappopolati delle città si vive in un equilibrio sociale instabile, dove gli individui hanno una sorta di aggressività reciproca permanente, e i sentimenti di amicizia e concordia vengono relegati ai diretti rapporti interpersonali tra persone che si conoscono. Il rapporto di conoscenza reciproca, che funziona da moderatore delle pulsioni aggressive, è ancora conservato nei piccoli centri, nelle città e nei paesi a “dimensione umana” . Ma nelle grandi megalopoli in continua espansione in un mondo sovrappopolato si vive in una specie di darwinismo sociale con una lotta continua per la supremazia economica o, a volte, per la stessa sopravvivenza fisica. Si può così assistere ai fenomeni di criminalità individuale o di gruppo, alle violenze dovute a motivazioni varie: economiche, sociali, etniche, politiche. Spesso si agitano i diritti come armi, in un conflitto perenne tra diritti contrapposti. Dilaga la droga tra i giovani, lo stress è continuo e corrisponde ad una aggressività repressa o volta contro se stessi. La depressione è la malattia delle megalopoli, e affligge milioni di persone che vi si rifugiano per sfuggire allo stress e alle responsabilità subentranti. La burocrazia è il potere diffuso di queste megalopoli in cui la legalità diviene una finzione dietro cui finiscono per dominare i poteri forti e le oligarchie, come nelle società barbariche. Le ideologie totalitarie hanno dato un volto becero al potere durante gran parte del novecento. Ma con l’esplodere della sovrappopolazione, le dittature antidemocratiche hanno ceduto il passo ad un totalitarismo diverso. Più subdolo ma più uniforme, quello proprio della superorganizzazione (termine caro a Aldous Huxlei) quale forma di governo delle megalopoli e del mondo sovrappopolato. Al patto originario che dava origine al Leviathan della monarchia e degli Stati, si è sostituito oggi un lento e inesorabile svuotamento del potere e della libertà degli uomini , del senso della loro vita, da parte della superorganizzazione tecnico-scientifica che ci domina tutti, ci fa moltiplicare come numero ma ci uniformizza senza più diversità e differenza, tutti funzionali alla grande macchina. Hobbes, il filosofo antipatico ha visto giusto: Leviathan è tra noi.

domenica 18 dicembre 2011

La conferenza Coherence 2011

Si e svolta a Roma il 14 dicembre scorso la conferenza Coherence 2011 moderata dal Prof. Vincenzo Valenzi, ed incentrata sulle nuove evidence in fisica delle reazioni LERN e delle tecnologie ad esse collegate. Ero presente alla conferenza, che mi e' parsa interessante e ben riuscita. In particolare ho apprezzato le relazioni di Degli Antoni, del Professor Celani e del Professor Srivastava. L'argomento ha un forte interesse anche per le implicazioni riguardo all'economia e alle strategie energetiche in un mondo sovrappopolato, che deve intraprendere un percorso di rientro (dolce) in un rapporto con la natura più equilibrato. Riporto qui di seguito la sintesi che della conferenza ha redatto il moderatore, che ringrazio.

INIZIA “LA CORSA  ALL’ORO” DELLA FUSIONE FREDDA
Un 14 dicembre da ricordare, come quello del 1999, quando Giuliano Preparata a qualche centinaio di metri presentò le sue tesi sul ruolo dell’Elettrodinamica quantistica in medicina e nella materia  condensata in quella che a quel tempo si preannunciava come Fusione Fredda a operante all’ENEA grazie  ad un finanziamento del Governo di allora sotto l’impulso parlamentare di Massimo Scalia.
A 12 anni di distanza molti fenomeni che sembravano frutto fantasioso del genio teorico del grande fisico italiano, vanno diventando realtà teoriche e sperimentali prossime all’utilizzo sul mercato come i vari test bolognesi  di Rossi&Focardi, e gli annunci dei greci di Deflakion lasciano intendere in una corsa all’industrializzazione del processo  come è emerso dal report di Francesco Celani  che ha riportato i dati sintetici sull’evoluzione dello sviluppo di eccessi calore da F&P agli ultimi esperimenti.
Sullo sviluppo teorico della ricerca nucleare cosiddetta fredda ha provveduto con una lettura illuminante per il pubblico che affollava la sala conferenze della Casa dell’Aviatore Yogendra Srivastava fisico teorico di Perugia e della North Eastern University di Boston  dimostrando come esistano tutte le condizioni teoriche e sperimentali per poter parlare senza dubbio di fenomeni nucleari nei reattori di Fleischamm e Pons e negli altre celle chimiche presi in considerazione.
Della rilevanza del contributo teorico di Srivastava e del suo collega Allan Widom aveva scritto Steve Krivit nella sua intervista ai servizi di informazione del Governo americano che stanno sondando coo sempre maggiore determinazione sui dati emergenti dalle ricerche nel campo della Fusione Fredda e delle LERN .
I lavori sono stati aperti dal Generale Mario Majorani che ha portato il saluto dell’Aereonautica che conferma la grande attenzione delle Forze Armate all’innovazione scientifica e tecnologica.
Un intervento ad ampio spettro sul ruolo della Chimica nello sviluppo sostenibile quello di Luigi Campanella del dipartimento di chimica di Roma 1 e già presidente della Società di chimica italiana che ha ricordato il ruolo decisivo della chimica nel boom economico italiano con le sue luci e ombre nell’impatto ambientale e il progetto di green chemistry che vede impegnata la chimica italiana a un nuovo modello di sviluppo, in i cui la fusione fredda può avere un ruolo decisivo.
Ubaldo Mastromatteo della multinazionale europea STM ha presentato in sintesi gli scenari energetici  prossimi venturi,  rilevando come per i prossimi decenni o si trovano fonti di energia alternative significative o si rischia il default energetico. La grande opportunità a suo avviso  pare venire dalla Fusione Fredda come i dati ultimi sembrano confermare decisamente.
Di questi temi ha scritto, non potendo intervenire di persona Lino Daddi, già capo del Gruppo di Fisica dell’Accademia Navale di Livorno, che negli anni bui delle polemiche contro la ricerca sulla fusione fredda aveva speso il suo prestigio per sostenere le evidenze sperimentali e i possibili sviluppi teorici emergenti dalle misure nei laboratori italiani e in particolare nelle celle di Piantelli e Focardi .
Gianni Degli Antoni  Presidente dell’Associazione Fisica di Frontiera giunto da Milano ha portato il suo contributo allo sviluppo compatibile delle applicazioni energetiche della Fusione Fredda, che potrebbero portare a soluzione molti dei nodi che rendono la vita  e le operazioni difficili in tutti quei luoghi dove il rifornimento energetico è  problematico , e nel contempo rendere  di più grande valore  il bene petrolifero in via di esaurimento.
Giuseppe Quartieri Fisico esperto di tecnologie  ha analizzato il doppio uso delle energie nucleari calde e fredde  in ambito civile e militare. Per la fusione fredda si intravedono usi militari logistici legati al supporto energetico che appare problematico e costoso nei teatri operativi, e un domani nella produzione di batterie superleggere di lunga durata che potrebbero rifornire di elettricità i sofisticati sistemi dei militari impegnati nei teatri  operativi.
Dell’aspetto biologico delle ricerche  avanzate hanno discusso Stefano Bellucci dei LNF-INFN di Frascati con un ricca relazione sulle applicazioni nano tecnologiche in biologia,  da Massimo Corbucci che ha segnalato i rischi di una eccessiva disattenzione alla verità e alla salute umana, da Piero Quercia che ha presentato il suo modello  sui Batteri  che sembrano capaci di metabolizzare materiale nucleare e da Sergio Bartalucci dell’INFN/LNFche ha fatto un’ampia rassegna sulle ricerche in questo settore  che vede  molti gruppi nel mondo  produrre risultati impressionanti che erano  cominciati con i lavori di Kevran (che furono replicati a Milano nel 2007 dal Gruppo Pirelli in collaborazione con il gruppo di Sparacino della facoltà di agraria).
Certamente si tratta di lavori che richiedono molti sviluppi teorici e sperimentali, ma troppi dati anche in questo settore  segnalano nuove possibilità di trattamento delle scorie nucleari.
Sul problema della sicurezza nucleare  in ambito caldo e freddo ha discusso  il biologo  Paolo Pasquinelli per lunghi anni direttore del laboratorio di radioprotezione del CISAM che ha fatto una panoramica dei rischi e  delle misure da prendere in ambito nucleare, anche freddo  che si presentano nel caso della fusione fredda indubbiamente con meno problemi ambientali ma che richiedono  opportune valutazioni di sicurezza .
I lavori moderati da Vincenzo Valenzi  coordinatore del Centro Studi di Biometorologia di Roma e prorettore della LIUM di Bellinzona www.lium.ch e dalla giornalista Raffaella Rosa , arricchiti da un intenso dibattito che è stato ripreso da alcune televisioni private che metteranno in rete  i lavori, si sono conclusi in tarda serata con la nuova determinazione emergente dai dati presentati nella giornata che ha reso palese come sia iniziata “la nuova corsa  all’oro” della fusione fredda . Corsa in cui l’Italia è in Pole Position e forse sarebbe bene  vincere  anche nella partita finale che è apertissima.
Vincenzo Valenzi

 
 
 

mercoledì 14 dicembre 2011

PIOVENE, SVEVO, KAFKA: L'UOMO E' MALATO

PIOVENE, SVEVO, KAFKA: L’UOMO E’ MALATO




(…) La fine del mondo? Può darsi. Ma intuisco che anche il tuo modo di concepirla è stupido, che tu ci creda o non ci creda. Non finirà per uno scoppio, come credono gli imbecilli, né per malattie nuove inventate dalla natura, né per l’inquinamento delle acque e dell’aria. Per finire così, bisogna essere ben vitali! Nemmeno la sua fine può essere uno spettacolo, gli astri che cadono, la terra che si spacca in due, e fortunato chi si trova a teatro, tanto più perché sa che con lui finiscono tutti. No, non succede niente, e il mondo tanto più finisce quanto se ne accorge di meno.
Si svuota, si devitalizza, cessa di capirsi, entra in coma. Un corpaccio decerebrato. Muore senza dolore, in modo anemico, leucemico, senza averne coscienza. Muore senza visioni, finite le utopie. In un’ assoluta mancanza di visione, al margine della cecità mentale. Uno degli aspetti più da fine di questa fine è che forse non sarà intera, lascerà ancora indietro qualche piccola scoria. Purtroppo c’è sempre un Noè.

GUIDO PIOVENE, Verità e Menzogna, romanzo postumo (Mondadori, 1975).


(…) Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dall’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’ interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

ITALO SVEVO, La Coscienza di Zeno, Trieste 1923 –ultima pagina.


Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si reggeva a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale.
“Che cosa mi è accaduto?”, si domandò. Non stava affatto sognando. La sua stanza, una normale stanza per esseri umani, anche se un po’ troppo piccola, era sempre lì quieta fra le quattro ben note pareti. Al di sopra del tavolo, dove era piegato alla rinfusa un campionario di tele appena tolte di valigia (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che egli aveva ritagliato qualche giorno prima da una rivista illustrata e poi aveva messo in una graziosa cornice dorata. Raffigurava una signora con un cappellino e un boa di pelliccia che, seduta con le spalle ben dritte, tendeva ai presenti un pesante manicotto in cui il suo avambraccio era interamente scomparso.
Gregor volse lo sguardo verso la finestra, e la vista del brutto tempo (si udiva il ticchettio della pioggia sulla lamiera del davanzale) lo riempì di malinconia. “E se dormissi ancora un po’ e cercassi di dimenticare tutte queste sciocchezze?”, pensò; ma il suo proposito era assolutamente inattuabile: egli era infatti abituato a riposare sul fianco destro, ma nello stato attuale gli era impossibile assumere quella posizione. Per quanti sforzi facesse per girarsi sul fianco, ricadeva ogni volta indietro supino. Ci provò almeno un centinaio di volte, tenendo gli occhi chiusi per risparmiarsi la vista delle sue zampette sgambettanti, e smise soltanto allorché cominciò ad avvertire nel fianco una fitta leggera, sorda, mai provata in passato…sentì bussare cautamente alla porta. “Gregor!”, chiamò una voce (quella della mamma), “sono le sette meno un quarto! Non volevi partire?” Oh quella voce soave! Sentendo la propria risposta, Gregor fu preso dal terrore: era senza dubbio la sua voce di sempre, ma vi si mescolava un incontenibile e penoso pigolio che pareva salire dal basso e che lasciava uscir chiare le parole solo al primo momento, ma poi nella risonanza le distorceva talmente da lasciare l’impressione di non aver udito bene in chi le ascoltava…Per sbarazzarsi della coperta non ci volle alcuna fatica: gli bastò gonfiarsi un pochino, ed essa scivolò a terra da sola. Ma subito dopo cominciarono i guai, soprattutto perché egli aveva un corpo oltremodo largo. Gli sarebbero state necessarie braccia e mani per alzarsi; e invece non possedeva altro che tutte quelle gambette che si agitavano senza tregua nei modi più svariati e che per di più non riusciva a controllare. Tentò di uscire dal letto dapprima con la parte inferiore del corpo: ma quella parte, che egli non era ancora riuscito a vedere e di cui non poteva neppure farsi un’idea, si dimostrò troppo difficile da smuovere; la cosa richiedeva tempi lunghissimi; e quando alla fine, quasi fuori di sé, raccolte le forze, si slanciò in avanti alla cieca egli sbagliò direzione e andò a sbattere violentemente contro la spalliera al fondo del letto…Tentò quindi di scendere dal letto con la parte superiore e girò cautamente la testa verso la sponda. Il movimento gli riuscì agevolmente e, malgrado la lunghezza e il peso, alla fine anche l’intera massa del corpo riuscì a seguire la manovra della testa…quand’ecco si udì scampanellare alla porta di casa. “E’ qualcuno dell’ufficio”, si disse Gregor restando quasi immobile, mentre le sue zampette brulicavano più intensamente che mai.Per un attimo rimase quieto. “Non aprono”, si disse Gregor abbandonandosi a un’assurda speranza.Ma poi naturalmente, come sempre, la domestica andò con passo deciso alla porta e aprì. A Gregor bastò udire la prima parola di saluto del visitatore per capire di chi si trattasse: era il procuratore in persona. Perché mai Gregor era condannato a lavorare in una ditta dove alla minima omissione o assenza si formulavano subito i peggiori sospetti? Gli impiegati erano dunque tutti quanti, dal primo all’ultimo, dei pezzenti? Non c’era fra loro neppure un uomo fedele e devoto che, se per caso non impiegava per la ditta qualche ora lavorativa della prima mattinata, ammattiva dai rimborsi ed era letteralmente incapace di alzarsi dal letto?...E più per l’agitazione causatagli da simili riflessioni, che non per una risoluzione vera e propria, Gregor si gettò con tutta la sua forza fuori del letto. Fu un gran tonfo, ma non ne scaturì un vero e proprio fracasso. Il tonfo venne attutito un pochino dal tappeto, e la schiena si rivelò più elastica di quanto egli pensasse..”E’ caduto qualcosa, là dentro”, disse il procuratore nella stanza attigua di sinistra…Gregor si spinse lentamente con la sedia verso l’uscio; si gettò contro la porta mantenendosi ritto (i polpastrelli delle sue zampette avevano una sostanza appiccicaticcia) e per un istante vi si riposò dallo sforzo compiuto. Ma poi tentò di far girare con la bocca la chiave nella toppa. Purtroppo ebbe la sensazione nettissima di non avere veri e propri denti (con che cosa allora afferrare la chiave?);…Il suono nitido della serratura che alla fine scattò all’indietro riscosse letteralmente Gregor. Traendo un sospiro di sollievo egli disse: “Dunque non ho avuto bisogno del fabbro” e posò la testa sulla maniglia per aprire interamente la porta. Siccome fu costretto ad aprirla in quel modo, la porta era già bell’e spalancata, mentre nessuno aveva ancora scorto lui. Dovette girare pian pianino intorno ad un battente, con estrema prudenza, se non voleva cadere pesantemente a gambe all’aria prima di entrare nell’altra stanza.Era ancora impegnato in quella operazione complicata e non aveva tempo di preoccuparsi di altro, quando udì il procuratore sbottare in un sonoro “Oh!” che parve simile a un sibilo di vento; e subito dopo, dato che era il più vicino all’uscio, poté anche vederlo premersi la mano contro la bocca spalancata e retrocedere lentamente, come sospinto da una forza invisibile e uniforme. La mamma (stava lì, nonostante la presenza del procuratore, con i capelli ancora sciolti per la notte e tutti arruffati) guardò prima il padre giungendo le mani, poi fece due passi in direzione di Gregor e infine cadde fra le sue sottane che si allargavano tutt’intorno, con il viso sprofondato sul seno tanto che non si riusciva più a individuarlo. Il padre serrò il pugno con gesto ostile, come a voler ricacciare Gregor nella sua stanza, poi si guardò intorno incerto nella sala da pranzo, quindi si coprì gli occhi con le mani e scoppiò in singhiozzi che gli scuotevano il petto possente…
Franz Kafka: La metamorfosi, 1912 –Ed. italiana Rizzoli 1998


Tre grandi scrittori, tre sensibilità diverse, eppure tutti e tre concordi su una conclusione: l’uomo è preda di una spaventosa crisi, una malattia che lo riguarda fino all’essenza, fino a stravolgere tutto ciò che è stato fino ai nostri tempi, fino a trasformarlo profondamente o a distruggerlo. Per Piovene la crisi dell’uomo non è esterna, non gli viene da una catastrofe che gli piomba addosso. La crisi gli viene da dentro, come un cancro che lo divora e lo svuota di senso, fino a togliergli ogni energia vitale. L’uomo quasi non se ne accorge ma non è più lui, l’uomo di oggi è qualcos’altro di diverso dal solito uomo, qualcosa di peggio perché privo di anima, di significato. Svevo, in una pagina indimenticabile, ci descrive quel senso di tragedia che ci sovrasta, di fine imminente. E’ una fine che egli vede strettamente connessa con la deriva tecnologica e matematica della nostra società. Parla apertamente di malattia e di malati. Riconosce nella tecnica (l’”ordigno”) ciò che ci da un potere immenso, ma quello stesso potere che ci farà impazzire fino a portarci alla distruzione del pianeta e dell’uomo con esso.
Infine, nelle pagine straordinarie di Kafka, è descritto l’incubo in cui vive l’uomo moderno, trasformato interiormente, claustrofobicamente chiuso in situazioni come la famiglia, il potere, la burocrazia, la città-megalopoli, la società massificata, che gli tolgono ogni libertà e ogni significato, senza prospettive di uscirne fuori se non con la morte individuale o il disastro collettivo. Siamo nel 1912, il positivismo tecnologico e scientifico impera, allo stesso tempo che si prepara una catastrofe gigantesca per l’europa e il mondo di lì a qualche anno. Significativi sono alcuni punti centrali del racconto: la trasformazione del corpo (e dell’anima) dell’uomo normale, trasformazione che solo alcuni riescono a percepire nei momenti di lucidità, come al risveglio mattutino. L’irruzione del procuratore nella sua stessa casa come l’estrema violazione del nostro intimo essere da parte di una macchina economica e sociale ( ma anche di una collettività numericamente preponderante) che non lascia scampo. Si, Gregor ottiene un amaro successo: la fuga del gerente della ditta; ma solo grazie al suo mostruoso apparire di enorme insetto. Poi il romanzo prosegue e la serva getta via “quel coso là” quello che una volta era un uomo. La famiglia si rasserena, la normalità trionfa. La massa umana continua nella sua vita senza senso…
Con grande sensibilità Kafka individua i segni premonitori di quella malattia dell’uomo e del pianeta, malattia che oggi è completamente esplosa in un mondo ormai apertamente malato.
agobit

domenica 11 dicembre 2011

DURBAN: EVVIVA, SI E' FATTO L'ACCORDO SUL NULLA

Conferenza di Durban: le poltrone, l'unica cosa che conta in queste conferenze




DAL QUOTIDIANO "LA REPUBBLICA"
DURBAN – C’è un accordo globale per frenare la moltiplicazione di uragani, alluvioni e siccità. Dopo due notti e un giorno di discussione ininterrotta, tra continui colpi di scena, spaccature e appelli disperati, l'assemblea delle Nazioni Unite ha trovato l'intesa sulla road map per difendere la stabilità del clima. Il piano, che impegnerà tutti i paesi, sarà definito entro il 2015 e le misure previste dovranno diventare esecutive a partire dal 2020.

La decisione è stata salutata da un lungo applauso dei delegati, ormai visibilmente provati: tutti senza cravatta, alcuni con lo slogan "Climate deal now" che campeggiava sulla maglietta. E' stata un'ovazione liberatoria che ha segnato la fine dell'incubo del fallimento. Per un’intera notte la conferenza delle Nazioni Unite, dopo due settimane di negoziati e due giorni di trattative ininterrotte, è stata sul punto di chiudere alzando bandiera bianca di fronte alla crescente minaccia del caos climatico che rischia di rendere inabitabili larghe aree del pianeta.

Poi, all’improvviso, la tensione si è sciolta. “Abbiamo preso una decisione storica”, ha commentato la presidente della conferenza, la sudafricana Maite Nkoana-Mashabane. “Un grande successo per la diplomazia europea”, ha aggiunto il ministro dell’Energia inglese Chris Huhne. “Una speranza concreta per la stabilità del clima e per la nostra economia: si apre una piattaforma di intese sulle tecnologie pulite con i paesi di nuova industrializzazione”, ha dichiarato il ministro dell’Ambiente italiano Corrado Clini.

Il gruppo delle piccole isole che minacciano di essere inghiottite dall’oceano avrebbero voluto anticipare i tempi della nascita di un’economia non dipendente dal petrolio e dal carbone. E gli ambientalisti sottolineano che l’accelerazione del cambiamento climatico imporrebbe tempi più rapidi. Ma Durban rappresenta comunque una svolta epocale che si rifletterà sulla nostra vita quotidiana rilanciando le tecnologie green.

All'intesa si è arrivati dopo un crescendo di scontri che aveva portato a una spaccatura verticale dell'assemblea che ha rischiato di sprofondare nel caos. Da una parte una larga maggioranza numerica che sosteneva la linea di rigore e di impegno dettata dall'Europa, dalle piccole isole e da buona parte dei governi africani e dell'America latina, cioè dai paesi più esposti alla minaccia diretta provocata dalle emissioni serra prodotte bruciando petrolio e carbone. Dall'altra il cartello dei maggiori inquinatori (Cina, Stati Uniti, Brasile, India, Filippine) che rifiutavano un rapido impegno vincolante.

"Il protocollo di Kyoto funziona, noi europei lo possiamo testimoniare", aveva dichiarato Connie Hedegaard, il commissario europeo al clima. "Ma ci vuole anche uno strumento legalmente vincolante che impegni tutti, un nuovo protocollo". "Non si può prescindere dall'applicazione del principio di equità, non mi si può chiedere di firmare un assegno in bianco", aveva risposto il ministro dell'Ambiente indiano, la signora Jayanthi Natarajan.

Alla fine è stata trovata la formula che ha messo tutti d’accordo: si arriverà entro il 2015 a definire "un protocollo, uno strumento legale o una soluzione concertata avente forza di legge". Dal 2013 partirà inoltre la seconda fase degli impegni di Kyoto a cui aderiranno l’Europa e una parte dei paesi industrializzati. Infine si renderà operativo un Fondo Verde da 100 miliardi di dollari l'anno per aiutare i paesi più poveri a sostenere il salto tecnologico necessario ad abbattere le emissioni serra.
(11 dicembre 2011)

In cosa consiste l'accordo? Nel rimandare...l'accordo -appunto- al 2015! In cosa consiste effettivamente il (falso) accordo sul controllo delle emissioni? Semplice: nell'ennesimo finanziamento a fondo perduto di 100 miliardi l'anno ai "paesi più poveri". Traduco la locuzione "paesi più poveri" per gli ingenui: quei paesi che hanno un tasso di natalità superiore a due cifre. In pratica l'Europa -perché solo di Europa si tratta!- continuerà a finanziare la crescita demografica africana e indiana, con l'unica finzione da parte di questi paesi di impiantare un po' di pannelli solari per far finta (scusate la ripetitività ma di gioco di finzioni si tratta...) di ridurre le emissioni. Il finanziamento, ovviamente, parte da subito, mentre il montaggio dei pannelli è rimandato al 2020! Bell'accordo, complimenti ai negoziatori europei.
Di una cosa sola non si è parlato a Durban, e sapete quale? Dell'unica vera causa delle emissioni di gas serra e del ritardato sviluppo economico di tante zone del pianeta: la crescita demografica esplosiva che affligge l'Africa e il continente indiano. La crescita eccessiva toglie risorse da investire nella innovazione tecnologica e costringe i paesi interessati a produrre energia con tecnologie arretrate e a basso costo. La Cina, la Corea e altri paesi asiatici che hanno, con successo anche se con ritardo, ridotto i tassi di natalità si sono avviati a un poderoso sviluppo economico che, in parte e non nella maniera auspicabile (e qui ci sarebbe terreno per intervenire da parte di organizzazioni serie e non da queste ridicole conferenze Onu), hanno comunque permesso le prime timide riconversioni industriali con minori emissioni di gas serra e inquinanti. Andare a proporre i pannelli solari ad economie arretrate che hanno il problema di sfamare ogni anno milioni di nuove bocche è solo insulsa irresponsabilità e presa in giro del mondo. Ma, ovviamente, di controllo demografico non si può parlare, è argomento tabù. Non fa comodo a nessuno, né alle politiche di potenza, né alle congregazioni integraliste religiose, né ai dittatori, né alla corruzione al potere, né infine alle multinazionali in cerca di compratori nel mercato globale. Eppure c'era un mezzo semplice semplice per fare un primo intervento: collegare la somministrazione dei cento miliardi di dollari annuali a reali politiche di denatalità e contenimento demografico. Ma la stupidità impera, specie nelle burocrazie dell'Onu e dell'UE. Intanto tutto è rimandato al 2020, noi occidentali continuiamo a gettare soldi nella pattumiera, e il pianeta continua nel suo triste destino di devastazione da parte della specie Homo.
agobit

venerdì 9 dicembre 2011

IL DISASTRO DEL PIANETA E' KANTIANO?




Le prime pepatissime critiche all'Illuminismo le avevano fatte, subito dopo la Rivoluzione Francese, due big del conservatorismo come De Maistre e Burke. Ma dopo la catastrofe delle due guerre mondiali anche la Sinistra, quella con la S maiuscola, aveva cominciato ad esprimere dubbi sull'Illuminismo. I due massimi rappresentanti della scuola di Francoforte, il guppo di filosofi del marxismo critico, Horkheimer e Adorno pubblicarono nel 1947 un libro destinato a fare epoca: "Dialettica dell'Illuminismo". In questo libro i due analizzano gli sviluppi storici dell'Illuminismo, le sue basi teoriche, e la piega non tanto positiva presa dal mondo dopo la sua affermazione in Europa e in America. Senza tante remore, l'accusato principale era Kant. Quali erano i mali dell'Illuminismo evidenziati dalla scuola di Francoforte? Ecco un breve elenco: la razionalità eletta a totem, il delirio misurante del razionalismo scientifico, la trascendenza del soggetto che ne faceva l'ennesimo idolo mentre il resto della realtà veniva reificato a semplice oggetto.Infine una uniformizzazione del mondo, appiattito sotto il dominio assoluto del pensiero tecnico. Oggi diremmo un pensiero antropocentrico portato all'estremo. Lo stesso termine "trascendentale" usato da Kant ad indicare le condizioni "a priori" della conoscenza proprie solo dell'uomo, è possibile leggerlo come termine di un antropocentrismo assoluto. E' nota la tesi di Kant sull'uomo come unico fine, mentre la natura sarebbe un semplice mezzo per realizzare i desideri dell'uomo.

"L'omogeneità dell'universale e del particolare è garantita, secondo Kant, dallo schematismo dell'intelletto puro. L'intelletto imprime alla cosa, come qualità oggettiva, prima ancora che essa entri nell'Io, quell'intelligibilità che il giudizio soggettivo riscontrerà in essa. Instaurare questa unità è il compito consapevole della scienza. Tutte le leggi empiriche -dice Kant- sono solo determinazioni particolari delle pure leggi dell'intelletto. Questa concordanza della natura con la nostra facoltà conoscitiva è presupposta a priori dal giudizio. Le difficoltà nel concetto di ragione nella Critica della Ragion Pura vengono alla luce nell'ambiguo rapporto tra l'io trascendentale ed io empirico e nelle altre contraddizioni irrisolte. La ragione, come io trascendentale superindividuale, implica l'idea di una libera convivenza degli gli uomini, in cui essi si costituiscano a soggetto universale, che è poi l'idea della vera universalità, l'utopia. Ma insieme la ragione rappresenta l' istanza del pensiero calcolante, che organizza il mondo ai fini della autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell'oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento...L'illuminismo identifica il pensiero con la matematica. Nella matematizzazione galileiana della natura, la natura stessa viene idealizzata. Il procedimento matematico trasforma il pensiero in cosa, strumento. Ma con questa mimesi, in cui il pensiero si livella al mondo..il dominio della natura traccia il cerchio in cui la critica della ragion pura ha relegato il pensiero". (da Max Horhkheimer, Theodor W. Adorno: "Dialettica dell'Illuminismo" Einaudi 1997, pag. 88 e seg.).

Queste tesi di Kant hanno portato ad un Illuminismo fondato su un rapporto di dominio dell'uomo sulla natura, che produce il capovolgimento della ragione in mito e della civiltà in barbarie. La ragione finisce con l'assumere una pura valenza strumentale con cui l'uomo uniformizza il mondo e riduce tutto, natura e cose, a prodotto. In Minima Moralia, Adorno riprende la critica, e mostra come la società di massa generata dalla razionalità strumentale non possa che fondarsi su ideologie, anche in maniera inconsapevole, e che tutte le visioni moderne del mondo sono basate sul dominio e sulla finale sopraffazione dell' uomo sulla natura. Karl Otto Apel porta ancora oltre la critica a Kant individuando nella assolutizzazione della relazione soggetto-oggetto il paradigma della filosofia moderna cui le posizioni prima di Descartes, poi di Kant stesso hanno dato luogo, portando ad uno squilibrio tra uomo, depositario di tutti i diritti, e natura vista solo come oggetto strumentale, compresi gli animali superiori privi di qualunque diritto.
La spaventosa riduzione del mondo a officina del soggetto assoluto (uomo) ha condotto all'attuale catastrofe antropocentrica di un pianeta sovrappopolato dalla specie Homo e una natura ridotta a magazzino e discarica dei suoi prodotti.

giovedì 8 dicembre 2011

E' uscito il quarto numero della rivista Overshoot

E' uscito il quarto numero della rivista Overshoot sulla sovrappopolazione. E' possibile scaricarlo a questo indirizzo:http://issuu.com/andrico/docs/overshoot_4

sabato 3 dicembre 2011

MARTIN HEIDEGGER: DARE UN SENSO AL MONDO





L’essenza della tecnica risiede nella im-posizione. Il suo dominio fa parte del destino. Poiché questo mette di volta in volta l’uomo su una certa via del disvelamento, l’uomo, in questo cammino, procede continuamente sull’orlo della possibilità di perseguire e coltivare soltanto ciò che si disvela nell’impiegare, prendendo da questo tutte le sue misure. In tal modo si preclude all’uomo l’altra possibilità, quella di orientarsi piuttosto, in misura maggiore e in modo sempre più originario, verso l’esenza del disvelato e della sua disvelatezza, esperendo la adoperata-salvaguardata ( gebrauchte) appartenenza al disvelamento come la propria essenza.
Posto fra queste possibilità, l’uomo è esposto a un pericolo da parte del destino. Il destino del disvelamento è, in quanto tale, in ognuno dei suoi modi e perciò necessariamente, pericolo. In qualunque modo si dispieghi e domini il destino del disvelamento, la disvelatezza, in cui tutto ciò che è di volta in volta si mostra, nasconde il pericolo che l’uomo si sbagli a proposito del disvelato e lo interpreti erroneamente…La disvelatezza conformemente alla quale la natura si rappresenta come una calcolabile concatenazione causale di forze, può bensì permettere constatazioni esatte, ma proprio a causa di questi successi può rimanere il pericolo che in tutta questa esattezza il vero si sottragga. Il destino del disvelamento è in se stesso non un pericolo qualunque, ma il pericolo. Se però il destino domina nel modo dell’im-posizione, questa è il pericolo supremo. Questo pericolo ci si mostra sotto due punti di vista. Quando il disvelato non si presenta all’uomo neanche più come oggetto, ma lo concerne esclusivamente come “fondo”, e l’uomo, nell’assenza di oggetti, è solo colui che impiega il “fondo” – allora l’uomo cammina sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come “fondo”. E tuttavia proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ulteriore ingannevole illusione. E’ l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso. Con piena ragione Heisenberg ha fatto notare che all’uomo di oggi il reale non può che presentarsi in questo modo. In realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza. L’uomo si conforma in modo così decisivo alla pro-vocazione che non la percepisce come un appello, non si accorge di essere lui stesso l’appellato e quindi si lascia sfuggire tutti i modi secondo i quali egli e-siste nell’ambito di un appellare, per cui non può mai incontrare soltanto se stesso.
L’im-posizione, tuttavia, non mette in pericolo l’uomo solo nel suo rapporto con se stesso e con tutto ciò che è. In quanto destino, essa rimanda al disvelamento nella forma dell’impiegare. Dove quest’ultimo regna, scaccia via ogni altra possibilità del disvelare. Soprattutto, l’im-posizione nasconde quel disvelamento che, nel senso della “poièsis”, fa av-venire nell’apparire ciò che è presente. In confronto a questo, l’impiego pro-vocante spinge nel rapporto inverso e opposto verso ciò che è. Là dove si dispiega e domina l’im-posizione, ogni disvelamento è improntato nel segno della direzione e della assicurazione di “fondo”.
Così, dunque, l’im-posizione pro-vocante non si limita a nascondere un modo precedente del disvelamento, cioè la pro-duzione, ma nasconde il disvelare come tale e con esso ciò in cui la disvelatezza, cioè la verità, accade. L’im-posizione maschera il risplendere e il vigere della verità. Il destino che ci invia nel modo del Bestellen, dell’impiego, è così il pericolo estremo. Il pericolo non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza. L’essenza della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo. La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono avere anche effetti mortali.La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale… Ciò che concede, quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo, è come tale ciò che salva. Questo infatti fa sì che l’uomo guardi alla dignità suprema della sua essenza e vi ritorni. Questa dignità consiste nel custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l’esser-nascosto (Verborgenheit) di ogni essenza su questa terra. Proprio nell’im-posizione, che minaccia di travolgere l’uomo nell’attività dell’impiegare (in das Bestellen) spacciata come l’unico modo del disvelamento e che quindi spinge l’uomo nel pericolo di rinunciare alla propria libera essenza, proprio in questo pericolo estremo si manifesta l’intima, indistruttibile appartenenza dell’uomo a ciò che concede; tutto questo a patto che da parte nostra cominciamo a prestare attenzione all’essenza della tecnica. Ciò che costituisce l’essere della tecnica minaccia il disvelamento, fa sovrastare la possibilità che ogni disvelamento si risolva nell’impiegare e che tutto si presenti nella disvelatezza del “fondo”. L’attività dell’uomo non può mai immediatamente ovviare a questo pericolo…
(Martin Heidegger: saggi e discorsi, pag. 19-26, Mursia , 1976).

Il decisivo non è che l’uomo si è emancipato dai ceppi precedenti, ma che l’essenza stessa dell’uomo subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto. Dobbiamo senz’altro vedere in questa parola subjectum la traduzione del greco hypokèimenon. La parola indica ciò che sta-prima, ciò che raccoglie tutto in sé come fondamento. Questo significato metafisico del concetto di soggetto non ha originariamente alcun particolare riferimento all’uomo, e meno ancora all’io. Il costituirsi dell’uomo a primo e autentico subjectum porta con se quanto segue: l’uomo diviene quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale... Nell’imperialismo planetario dell’uomo organizzato tecnicamente il soggettivismo dell’uomo raggiunge il suo culmine più elevato. Da qui egli però si abbasserà sul piano della uniformità organizzata, per trovarvi la propria sistemazione.
(M. Heidegger, Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, 1968, pag. 85 e pag. 97).

Martin Heidegger è un filosofo che usa un linguaggio particolare, fatto di neologismi e paralogismi. Molti per questo lo hanno considerato oscuro. Eppure è chiarissimo, in queste pagine è chiarissimo: sono la più lucida definizione della scienza e della tecnica moderna, la più essenziale e obiettiva descrizione della realtà del mondo contemporaneo, di quello che sta avvenendo all’uomo e al suo pianeta. Non c’è bisogno di interpretare i termini, tutti coloro che hanno orecchi per intendere possono intendere. C’è la visione di un mondo illimitatamente disponibile di beni da produrre e da consumare. C’è il compimento del destino della metafisica nel dominio dispiegato della scienza e della tecnica, è la messa a punto speculativa di un mondo di oggetti, nel quale l’uomo si ritrova come soggetto, nella misura in cui può incontrare la natura come deposito di oggetti da utilizzare, fino a ritrovarsi lui stesso come oggetto tra gli oggetti. Infatti il rovescio impensato di questa elevazione dell’uomo al rango del soggetto (antropocentrismo) è la conversione del soggetto stesso nell’oggetto della produzione illimitata, la quale non trova altra ragione che la propria infinita assicurazione. L’uomo diviene produttore, ma anche prodotto. La produzione risponde solo illusoriamente ai bisogni dell’uomo, in realtà li modella, reprimendo ogni altro bisogno la cui soddisfazione non rientri nell’ordine stabilito dal controllo produttivo. L’orizzonte dei suoi pensieri non è più la terra che egli abita tra nascita e morte, perché la terra è stata inghioittita dalla logica della produzione e del consumo e ridotta, come l’uomo stresso, a materiale di impiego immediato, qui ed ora. Questa è la più chiaroveggente e limpida denuncia della malattia dell’uomo moderno. Da qui, e non da mere considerazioni matematiche o scientifiche, dovrebbe partire ogni denuncia veramente ambientalista e preoccupata delle sorti del pianeta. Molti, anche tra gli ambientalisti, affermano che l'eccesso demografico è un falso problema, perché la Terra può contenere molti più abitanti. Ad esempio con una energia più disponibile e a basso costo, con l'evoluzione tecnologica che potrebbe permettere di estrarre acqua dolce dal mare e purificare l'aria, l'uomo potrebbe crescere ancora in numero di abitanti. La Terra potrebbe contenere fino a dieci volte il numero attuale di umani, ed anche di più. Molti ripetono questa affermazione, non solo le varie Chiese purtroppo, come un mantra. Certo, si tratterebbe di edificare a tappeto le terre emerse, abbattendo tutte le foreste del pianeta e cementificando e asfaltando gran parte delle aree verdi. Sparirebbero gran parte delle specie viventi, le grandi monocolture sostituirebbero le varietà vegetali. L'inquinamento chimico sarebbe gigantesco, ma -chissà- attraverso nuove invenzioni potrebbe essere controllato. Non contesto tutte queste affermazioni, anzi concordo sul fatto che tutto ciò sia possibile. Ma quello che colpisce è che non si colga la follia di questo discorso. E' una vera e propria "Hybris" antropica che, nel concepire tutto in funzione dell'uomo, porta l'uomo a perdersi e a perdere di significato. Il troppo umano acceca, fino a non vedere l'estrema violenza che si fa alla natura. La questione della sovrappopolazione non è solo questione di numeri e di spazio disponibile, come non mi stanco mai di ricordare in questo blog. Il problema di fondo è che un mondo così non avrebbe senso. Non si può ridurre il pianeta ad una macchina per replicare umani. Quale inferno, anzi quale incubo sarebbe un pianeta di decine di miliardi di umani? Non è, allora, importante fare un passo indietro dal nostro forsennato antropocentrismo? Quello che è necessario è una comprensione della questione che vada alla radice, e quindi un meditare più approfondito, un pensiero più adeguato per avvicinarci ad una concezione del mondo che smetta di considerarlo come puro sfondo alla nostra insaziabile voglia di produzione e consumo, e che restituisca ad esso un senso che non sia il mero desiderio dell’uomo. Vorrei sottolineare che il secondo brano di Heidegger riportato sopra, quello che riguarda il soggetto e la sua metafisica, è la definizione più esatta, meditata e profonda dell'antropocentrismo, che io conosca. agobit

venerdì 2 dicembre 2011

BASTA AL CONSUMO DI TERRITORIO E PAESAGGIO


L'Italia, come mai forse prima d'ora, è a un punto di non ritorno. E' ancora uno dei luoghi più belli del mondo. Ma il legame con questa terra non deve farci tacere la realtà, anzi, ci impone di denunciarla: la colata di cemento che sta per riversarsi sul paese rischia di rovinarlo per sempre. Se tacessimo di fronte allo scempio ne saremmo complici, come popolo e come singoli individui.
E' il momento di dire no, adesso o mai più, perché presto, nel giro di una manciata di anni, sarà davvero troppo tardi. Il danno sarà definitivo, irreversibile. E non riguarderà soltanto il patrimonio naturale. Perché, lo abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio, il degrado ambientale si accompagna sempre a quello umano. Difficile dire quale sia la causa e quale la conseguenza. Il cemento non devasta soltanto le città, non si mangia soltanto coste incontaminate e boschi secolari. E' il catalizzatore di tante passioni e desideri, proprio come scriveva Italo Calvino ne La speculazione edilizia. Non siamo più di fronta alla fame di case che diede impulso alla devastazione del dopoguerra. Oggi il cemento ingrossa le tasche di pochi e impoverisce tutti noi. Ci illude con il miraggio dell'occupazione, tacendo però che si tratta di posti di lavoro poco qualificati e di breve durata. Ci inganna con la promessa dello sviluppo turistico, fingendo di ignorare che un' Italia guastata dal cemento non potrà reggere il confronto con altri paesi ben più attenti a conservare il loro patrimonio. Ma il cementoè anche il perno intorno a cui ruota l'alleanza malsana tra imprenditori spregiudicati e politici pronti a tradire la loro fondamentale missione di rappresentanti dei cittadini. Troppi, davvero troppi governanti e amministratori di centrosinistra e centrodestra si dimostrano disponibili a svendere la nostra Italia, ignorando le conseguenze -parliamo di vite umane- che il degrado del territorio porta con sé. (Da l'introduzione a "La Colata" -Chiarelettere- 2010).

Dobbiamo fermare, il più presto possibile, dobbiamo fermare la devastante colata di cemento che investe sempre di più il nostro paese facendolo assomigliare ad una immensa megalopoli, mal edificata, inquinata, fatta di edifici degradati, fuori da ogni criterio di risparmio energetico, brutti, simbolo di un paese e del suo popolo. Il territorio, il prezioso patrimonio paesaggistico dell'Italia è indifeso, nudo nelle mani di arraffatori d'ogni risma, speculatori, faccendieri, mafiosi. La mafia gestisce ormai gran parte dell'edilizia del paese, le strade e autostrade della padania sono costruite su sostrati fatti di rifiuti tossici fatti sparire illegalmente in Campania e altre regioni meridionali. Interi quartieri sono edificati nella illegalità, nell'abusivismo. Nessuno controlla, nessuno sanziona, tutti intascano le mazzette della corruzione. Nassun politico parla di ambiente, di difesa del paesaggio, del territorio. Tutti parlano con linguaggio antropocentrico: costruire case, far crescere le famiglie, accogliere gli immigrati, costruire strade, autostrade, ponti, tunnell, viadotti, sottopassi. Uomo, uomo, uomo, esiste solo l'uomo, costruire, edificare, fare colate, cementificare, trasporti, mobilità. Tutto uomo, solo uomo. Il resto, il paesaggio, la natura, la bellezza...ecchissenefrega! Tutti vogliono i soldi subito, investire subito, guadagno, usare il territorio, il prezioso poco territorio italiano rimasto, come sfondo, base, discarica per la propria ingordigia di soldi, guadagno. E' vergognosa l'indifferenza dei politici. Indicibile la loro stupidità: rovinando il territorio, rovinano il loro futuro, quello dei loro figli, dei nostri figli. Ma la loro scatola cranica è più o meno ampia quanto il loro portafoglio: bada solo alla moneta e all'oggi, al guadagno immediato. Ogni prospettiva, ogni calcolo sul futuro è troppo per menti tanto anguste. La stupidità della classe dirigente e della gente di oggi è spaventosamente grande rispetto ai nostri predecessori dei tempi passati su questo pianeta. Un abisso di sensibilità ci separa da loro. Ecco un esempio. Ciò che ha reso celebre la Toscana attraverso le foto ed i mass-media -i suoi bei paesaggi, le dolci colline, le piccole città a misura d'uomo- non è stato il frutto della casualità naturale, ma di una scelta economica e produttiva compiuta in Toscana fra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo dalla borghesia agraria di allora. Il punto di vista di questa classe dirigente era espresso in materia dall'Accademia dei Georgofili (amici dell'agricoltura) nella quale si raccoglievano studiosi ed esponenti del settore agrario toscano per dibattere i problemi dell'agricoltura e cercare le soluzioni più idonee allo sviluppo e all'ambiente (quelli si che erano ambientalisti!). La borghesia toscana ottocentesca rifiutò, come noto, la scelta "industriale", orientandosi verso lo sfruttamento agricolo della terra, fu estesa la conduzione mezzadrile andando contro ai modelli classici del capitalismo agrario. Questa scelta "conservatrice" compiuta dai proprietari terrieri dell'epoca fu, in un certo senso, la fortuna del paesaggio, che poté mantenersi con certe caratteristiche fino alla seconda guerra mondiale.La suddivisione del territorio agricolo in fattorie e in unità poderali contribuiva a mantenere un rapporto tra presenza umana e paesaggio, a mantenere la campagna ben alberata, ben coltivata, senza tuttavia alterare gli elementi tradizionali del territorio. L'Accademia dei Gerogofili, sostenuta dal Granduca e da lui ascoltata, era in pratica una specie di Authority del territorio ante-litteram. Oggi è grazie a quell'Accademia se ci possiamo permettere -ancora per poco- di ammirare i paesaggi toscani rimasti dopo la recente edificazione, godendone la bellezza. Molti altri territori italiani non hanno avuto quella fortuna e sono diventati distese di cemento. Oggi servirebbe in Italia una Authority per la salvaguardia del territorio, con ampi poteri, che possa intervenire e fermare lo scempio subito, ora. Un'Authority che possa autorizzare in deroga, quando strettamente necessario, l'edificazione qualificata e sostenibile, fatta secondo criteri di rispetto del territorio e del paesaggio. Le costruzioni su territorio vergine dovrebbero essere vietate sempre, salvo quelle autorizzate dall'Agenzia del territorio per motivi di estrema necessità. Ma nel paese delle mafie e degli speculatori, nel paese dei politici corrotti, dei potenti costruttori, dei finanzieri che usano il pubblico per i loro interessi, tutto ciò è possibile? Potrebbe sopravvivere un'Authority del territorio che agisse solo per l'interesse dell'Italia, del paesaggio italiano, di noi e dei nostri figli? agobit