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sabato 29 novembre 2014

1914




"C'è la sensazione che stia per succedere qualcosa; quello che non si riesce a prevedere è quando. Forse godremo di altri anni di pace, ma è altrettanto possibile che dalla sera alla mattina succeda una catastrofe" (Carl von Lang, inizio 1914)

Il libro dello storico Max Hastings è un grande affresco sull'Europa di cento anni fa e soprattutto sul primo anno della Grande Guerra. Vi sono descritte in maniera avvincente le condizioni che portarono allo scoppio del conflitto che mise fine alla Belle Epoque, e le grandi battaglie del primo anno di guerra, gli scontri in campo aperto e nelle città con gli spostamenti e le manovre dei corpi di armata, spesso con particolari di singoli episodi che ci fanno capire la portata e la drammaticità di quello scontro epocale. Fu un conflitto che nacque quasi in sordina, nella incredulità generale. Nessuno credeva che sarebbe scoppiata una guerra e le classi dirigenti dell'epoca erano come "sonnambuli" che ballavano sull'orlo del precipizio secondo la bella definizione del romanzo di Clark sullo stesso argomento. Dopo l'inizio della guerra, tutti pensavano che sarebbe durata solo qualche mese, e che la questione si sarebbe risolta in poche battaglie. Così, di sottovalutazione in sottovalutazione, si consumò la più grande carneficina della storia con un numero di vittime senza precedenti.

Mi sono spesso chiesto perché quella guerra fu tanto importante per le sorti dell'occidente, e perché in fondo il nostro declino come europei è cominciato da allora. In quei campi di battaglia si posero le condizioni per la successiva deriva autoritaria del ventesimo secolo, e il grande conflitto della seconda guerra mondiale. Fu lo storico Nolte che parlò di Conflitto civile europeo 1914-1945. Quale furono dunque le motivazioni recondite che portarono alla guerra tra gli Imperi Centrali e le potenze alleate, al di là delle motivazioni contingenti? Perché è ovvio che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando e lo scontro per il dominio sui balcani tra Austria e Russia furono solo il grilletto che fece confliggere motivazioni e interessi ben più profondi e sostanziali. Tra questi certamente la nuova potenza tedesca dopo la riunificazione e la cultura militarista prussiana giocarono un ruolo, insieme all'instabilità "multiculturale" e "multietnica" dell'antico Impero Austro-Ungarico. Ma ci furono anche altre condizioni che riguardano da un lato la composizione demografica con la gran massa di giovani nati tra la guerra Franco Prussiana del 1870 e il primo decennio del '900. Solo la Germania era passata da 40 milioni di fine ottocento ai 65 milioni del 1914.Tutti quei giovani erano intrisi dello spirito nazionalistico che aveva visto le grandi nazioni europee impegnate nelle conquiste coloniali e nello sviluppo industriale e tecnologico guidati da una cieca fede nel progresso e nella scienza. Dall'altro ci fu la spensieratezza sconfinante nell'incoscienza derivante da quel quarantennio che aveva preceduto la guerra: un quarantennio  di relativa pace e di crescita di una società borghese che aveva dimenticato i sacrifici delle guerre ottocentesche e i loro  costi umani.  Soprattutto vi fu una sottovalutazione culturale dell'enorme potenziale tecnologico delle nuove armi come le mitragliatrici e i cannoni a lunga gittata, gli aerei e i nuovi mezzi di telecomunicazione.

C'è un episodio descritto nel libro di Hastings che rende in maniera plastica questa incomprensione del potere della tecnologia in un mondo che era in profondo cambiamento e in cui tutti i valori del passato venivano posti in questione. Si tratta dell'attacco che gli esotici cavalleggeri del generale  Jean Francois Sordet -appartenenti alla avanguardia della Quinta armata francese- portarono contro le truppe tedesche della Quarta armata germanica vicino Liegi. Erano dragoni e lancieri agghindati con elmi e corazze scintillanti, con pennacchi colorati di crine di cavallo,  e provvisti di un armamento antiquato e poco efficiente: sciabole e carabine modello 1890,a carica anteriore, poco più efficaci di una pistola. Cercarono di caricare le truppe nemiche come in una battaglia dell'ottocento e si ritrovarono invece sotto un micidiale fuoco tecnologico e letale della fanteria tedesca, armata con efficienti mitragliatrici Maxim , bombe a mano, cannoni, e ricognizione aerea. Le truppe tedesche avevano i nuovi moderni fucili a carica posteriore, più potenti e rapidi. Anche la cura dei cavalli dei francesi era di altri tempi: sovraccarichi con un peso di 120 chili ciascuno, denutriti, maleodoranti per le piaghe da sella non medicate, crollarono a terra a decine. Ma non fu il solo episodio. I tedeschi schierati in difesa dell'Alsazia guardarono meravigliati i primi soldati francesi che si trovarono davanti, vestiti con le stesse lunghe giubbe blu, i pantaloni rossi e i chepì degli uomini che i loro padri arruolati nell'esercito prussiano avevano incontrato e sconfitto nel 1870. Uno dei soldati del Kaiser scrisse in una lettera a casa: "Sembrano usciti da un libro illustrato". Joffre, il comandante in capo dell'esercito francese,  e i suoi ufficiali erano stati avvisati che utilizzare quelle uniformi sgargianti sarebbe stata una follia, ma erano convinti che in battaglia contasse ancora il coraggio e lo spirito di corpo. Purtroppo per loro tutto era cambiato con la tecnologia che aveva pressoché azzerato i vecchi valori in battaglia.  Solo in seguito, dopo gli evidenti massacri,  ordinarono le "divise da campo" grigie e comode per il movimento dei soldati. Ma anche i soldati tedeschi non se la passavano molto meglio. Le tattiche  che i generali del Kaiser usavano erano ancora legate alla avanzata in gruppi schierati e compatti della fanteria e all'appoggio della cavalleria; anche queste tattiche erano inefficienti e suicide in presenza di armi moderne come presto si sarebbe dimostrato nelle prime grandi battaglie del 1914. Il generale Moltke, capo di Stato maggiore, non credeva ancora molto alle nuove armi automatiche e si affidava ancora alle cariche con i fucili e all'arma bianca. Le conseguenze furono drammatiche anche per i tedeschi come presto impararono davanti alle micidiali mitragliatrici Vickers degli inglesi e Hotchkiss dei francesi. Inoltre la dirigenza militare sia germanica che austriaca era palesemente inadeguata e legata a vecchie idee del militarismo prussiano, con il rigido codice dell'onore e delle regole sul campo di battaglia. Nessuna delle classi dirigenti politiche europee in quel 1914  si rese conto dell'enorme potenziale della tecnica moderna e di quanto il mondo fosse cambiato dal 1870.


Dice Gadamer riferendo sul travaglio culturale di quegli anni: "La fede nel progresso propria di una società borghese rammollita da un lungo periodo di pace, una società il cui ottimismo culturale aveva dominato l'età liberale, crollò nelle temperie di una guerra che alla fine risultò essere completamente diversa da tutte le precedenti. Non furono infatti il valore dei singoli o il genio militare a decidere degli eventi bellici, ma la competizione fra le industrie pesanti delle singole nazioni belligeranti. Gli orrori delle "battaglie di materiali", nelle quali fu devastata la natura innocente, campi e foreste, villaggi e città, alla fine non lasciarono spazio, per l'uomo in trincea e nel rifugio, a nessun altro pensiero se non a quello cui allora diede voce Carl Zuckmayer: "Un giorno, quando tutto sarà finito". Le proporzioni di questo folle avvenimento superarono le capacità di comprensione della gioventù di allora. Sospinti nella battaglia con l'entusiasmo di un idealismo pronto al sacrificio, i giovani si accorsero ovunque che le antiche forme della rispettabilità cavalleresca, sebbene crudele e sanguinaria, non trovavano più alcuno spazio. Ciò che rimaneva era un evento insensato e irreale - e al tempo stesso fondato sull'irrealtà della sovraeccitazione nazionalistica, che era riuscita a sbaragliare anche l'Internazionale del movimento operaio. Non c'era quindi da meravigliarsi che in quegli anni le menti più significative si domandassero: cosa c'è di falso in questa fede nella scienza, in questa fede nell'umanizzazione e nell'incivilimento del mondo; cosa c'è di falso nella fede nel presunto sviluppo della società verso il progresso e la libertà?"
Come dirà Cioran, a proposito della Francia degli anni successivi ma in realtà di tutta la civiltà europea, si prefigurava un destino di paesi che ormai si sono spesi molto, troppo, e si avviano a una fine dove le emozioni si tempereranno fino a scomparire, verso un avvenire spirituale del continente composto da un miscuglio irrisolto di universalismo e scetticismo: "L'impero dissolve le ideologie. Al loro posto appariranno dubbi infinitamente raffinati". Mai profezia fu più esatta.


Qual'è dunque il significato di quel che avvenne in quegli anni e perché le vicende del 1914-1918 ebbero enorme rilevanza per i destini dell'Europa e dell'Occidente? Che cosa era accaduto per portare verso questi esiti sanguinari e autodistruttivi la civiltà che aveva visto l'affermazione dell'illuminismo e della fede nel progresso?
La risposta è che oltre le vicende politiche contingenti, il motivo sottostante quelle vicende era il nuovo ruolo che la tecnica stava assumendo nel mondo e la capacità di regolare i profondi cambiamenti in atto nella società moderna. La gestione della potenza tecnologica richiedeva nuove idee e nuove responsabilità che l'umanità non era pronta ad affrontare  per la mancanza di una riflessione adeguata su quanto stava accadendo.  Le vecchie classi dirigenti non si rivelarono all'altezza della società della tecnica. E furono spazzate via insieme al Reich e all'Impero Austro-Ungarico. La borghesia non si sarebbe più ripresa da una crisi culturale che l'avrebbe corrosa dalle fondamenta. L'illusione di una scorciatoia politica secondo la visione della lotta di classe si sarebbe rivelata un vicolo cieco. Le nuove potenze dominanti si sarebbero spostate lontano dall'Europa, ma anche lì la politica avrebbe perso di significato verso un nichilistico strapotere della finanza e dei mercati basato su un consumismo vuoto di senso fino all'odierno collasso ambientale. 

sabato 15 novembre 2014

L'economia circolare: nuovo paradigma o vecchio bluff?





Riporto di seguito una sintesi di  articolo di Fabio Terragni e Gianluca Sala sul nuovo paradigma dell’economia circolare. Segue un  commento dell’autore del blog.
Nel suo rapporto “Toward a Circular Economy: economic and business rationale for an accelerate transition”, la Ellen Macarthur Foundation (2012) propone una riforma sostenibile dell’economia basata su una diversa produzione di beni e servizi. Da allora i verdi di tutto il mondo si sono identificati con il nuovo Pradigma economico della economia circolare. I fautori della economia circolare spiegano che nel corso del XX secolo il prodotto interno lordo è cresciuto di 20 volte nei paesi occidentali generando una ricchezza diffusa. Alla base di questo sviluppo c’è tuttavia un modello di produzione ad alta intensità di energia e consumo di risorse naturali che può essere definito “lineare”, dove i prodotti industriali derivano da uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali che – al termine del ciclo di vita dei beni- divengono rifiuti. I concetti di riuso e di rigenerazione, ancora presenti all'inizio del secondo dopoguerra e centrali in una economia di sussistenza, sono stati abbandonati a favore del modello lineare “compra-usa- getta”.  Oggi circa l’80 % dei materiali a fine vita finisce in discarica o in un inceneritore. Gli innegabili benefici, in termini di qualità della vita, del modello lineare hanno costi “esterni” particolarmente elevati, e finora sono stati tollerati. Negli ultimi anni questo quadro sta entrando in crisi a causa dei prezzi in aumento delle risorse naturali, oltre che per i costi dello smaltimento dei rifiuti. La tendenza al recupero dei materiali è ancora troppo contenuta, soprattutto a fronte della prevista espansione della platea mondiale di consumatori, dovuto all’aumento della classe media con capacità di spesa (basta considerare i 3 miliardi di abitanti dei BRICS- Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Mantenendo inalterato il modello lineare di produzione e consumo, la pressione ambientale crescerebbe a dismisura, con effetti ecologici devastanti. Dal 2000 i prezzi delle risorse naturali sono in costante ascesa e i segnali fanno prevedere che la scarsità di risorse e la volatilità dei prezzi sono destinate ad aggravarsi, mettendo definitivamente in crisi il modello lineare.
L’economia circolare, con il recupero e la rigenerazione dei prodotti e dei materiali richiede un re-design del sistema che rivisiti i prodotti, la loro progettazione e realizzazione, i processi produttivi, i modelli di business. I produttori e distributori invece di cedere la proprietà dei prodotti, agiscono come “service provider “ dando vita ad un nuovo contratto tra le imprese e i loro clienti basato non più sulla vendita di prodotti, ma sull’erogazione di servizi basati su beni durevoli, recuperabili, rigenerabili, che possano essere  ceduti, affittati, condivisi. Nel caso debba essere ceduta la proprietà, ne viene incentivato il recupero al termine del periodo di uso primario. Questa economia, ovviamente, dovrebbe essere alimentata con energia da fonti rinnovabili, al duplice scopo di ridurre la dipendenza da risorse naturali e aumentare la resilienza del sistema. La regola d’oro dell’economia circolare fa riferimento alle “potenzialità del circolo più stretto”: meno un prodotto deve essere cambiato per il suo ri-uso o rigenerazione, più velocemente torna in uso, più alto è il potenziale di risparmio. Un altro meccanismo fa riferimento alla massimizzazione del tempo in cui la risorsa rimane in circolo e alla massimizzazione del numero dei circoli consecutivi (sotto forma di ri-uso/rigenerazione dei prodotti o di semplice riciclaggio di materiali). Un terzo meccanismo si riferisce al potenziale degli “usi a cascata”. L’esempio classico è quello dei prodotti tessili in cotone, che possono essere dapprima riutilizzati per confezionare abiti, poi utilizzati nell’arredamento e più tardi nell’edilizia (per l’isolamento termico e acustico) per ritornare infine nella biosfera. Ultima potenzialità risiede nella capacità di progettare prodotti che permettano flussi di materiali puri, non tossici e facili da separare: ciò consente un significativo aumento dell’efficienza dei processi di recupero. Secondo le analisi svolte da McKinsey con l’economia circolare il sistema economico potrebbe beneficiare di un sostanziale risparmio di materiale netto con conseguente abbassamento del livello di volatilità dei prezzi; in Europa il potenziale di risparmi si aggira nell’ordine dei 700 miliardi di dollari l’anno e del 23 % dell’attuale spesa per le materie prime. Una economia centrata sull’utente (e non sulla produzione) vedrebbe –secondo questi economisti- aumentare i tassi di innovazione, occupazione e produttività del capitale promuovendo uno spostamento verso il settore terziario. Verrebbero ridotte le esternalità negative (meno materiali e rifiuti in circolo). Tale riduzione sarebbe maggiore di ogni possibile miglioramento incrementale di efficienza all’interno del sistema attuale. Infine aumenterebbe la resilienza del sistema: la capacità di reagire a shock di ogni tipo (fattori geo-politici, climatici, ecc.). Concludendo il suo rapporto la Ellen Macarthur Foundation dichiara che la sostenibilità e il risparmio possono rendere più competitive le aziende e le economie, sulla base di competenze, innovazione ed efficienza nell’uso delle risorse.
(Tratto dall’articolo di Fabio Terragni e Gianluca Sala: Il circolo dell’economia. Qualenergia settembre/ottobre 2013)

Anche questa teoria dell’economia circolare ha il difetto di essere stata concepita a partire da premesse teoriche che poi è tutto da dimostrare che possano funzionare nella realtà. Una tale riconversione del sistema produttivo, ad esempio, come potrebbe funzionare all’interno di un sistema politico ed economico liberale basato sul libero mercato? Per quanto riguarda gli indirizzi del consumo verso  prodotti riciclabili sarebbe utile la leva fiscale mediante sgravi sui prodotti omogenei al nuovo sistema e aggravi per quelli ad impatto ambientale elevato. Ma l’economia attuale è basata sugli alti consumi. Già il semplice riuso di materiali e prodotti fa intravedere, in un sistema di mercato, il crollo dei prezzi di materie prime, la conseguenza di minor produzione di beni di largo consumo, maggior disoccupazione, recessione e stagnazione dell’economia. Crollo dei prodotti finanziari.
L’economista premio nobel Paul Krugman, in un articolo sul NYT, per conciliare il necessario rallentamento della velocità  e i limiti della Crescita con l’attuale sistema economico, ipotizza un modo di produzione che consentirebbe di mantenere una leggera crescita sostenibile del Prodotto Interno Lordo e allo stesso tempo ridurre l’impatto ambientale. Krugman  propone di ridurre l’immissione di energia nel processo produttivo, ricorrendo al contempo a forme di energia rinnovabile, e per compensare la minore velocità di produzione, allo stesso tempo ipotizza di ampliare la platea dei produttori e dei consumatori. Per spiegare il processo fa l’esempio di un gruppo di navi in crociera: egli sostiene che si può immettere meno energia diminuendo il consumo energetico delle navi e la loro velocità; il rapporto tra velocità e risultato (trasporto di merci o passeggeri)  verrebbe tuttavia mantenuto aumentando il numero delle navi: il prodotto tra i due termini non cambierebbe in quanto la diminuzione della velocità sarebbe compensata dai maggiori numeri di elementi trasportati . In pratica la proposta di Krugman prevede di ridurre il consumo mondiale di energia e modificare la sua qualità (rinnovabili) , mantenendo il Pil in leggera crescita attraverso l’aumento della popolazione attiva e la sua equa distribuzione su tutto il pianeta: l’economia viaggerebbe ad una velocità ridotta ma in  un mercato più grande. E’ corollario di questa teoria la necessità di mantenere alta l’espansione demografica (aumentare il numero delle navi).
Anche questa interpretazione di Krugman dell’economia circolare  si basa su modelli teorici che poi vanno ad impattare con la realtà dei fatti in modi del tutto imprevedibili e, forse, impossibili da realizzare. Gli individui che compongono il sistema non sono elementi deterministici che seguono schemi prevedibili. I consumi mondiali sono soggetti a variabili plurideterminate e influenze esterne ed interne non calcolabili a priori.  I produttori seguono le vie dei minor costi per assicurare la stessa quantità di prodotto e i consumatori seguono i propri gusti, a meno di imporre magazzini di stato e un monopolio centralizzato. In un sistema di libero mercato l’economia circolare può funzionare per brevi periodi in aree limitate. Sarebbe necessaria una autorità sopranazionale che imponesse parametri economici non liberali, autorità che allo stato attuale non esiste. Gli accordi internazionali possono porre dei limiti generici, ad esempio quello sull’energia e sulle emissioni di carbonio, che funzionano fino quando conviene ai singoli governi, poi vengono elusi alla prima occasione e quando non conviene più rispettare gli accordi ad uno o più dei soci del patto.  La proposta dell’economista premio Nobel dimostra ancora una volta che finché si tratta di fare analisi dei fenomeni in atto gli economisti ci possono azzeccare. Ma quando si passa alle proposte macroeconomiche su scala planetaria mostrano tutti i loro limiti. L’economia circolare tuttavia non è una proposta campata completamente in aria. In linea teorica potrebbe funzionare, non fosse altro perché in parte una economia basata sul riclico dei prodotti ha funzionato in alcuni periodi del passato non molto lontano, ad esempio si pensi all’economia autarchica durante il fascismo, o al riciclo  dei prodotti e il riuso dei materiali nella crisi economica tra le due guerre mondiali. Se si va a vedere le economie di molti paesi nella prima metà del 900, si può constatare come  erano basate in parte  sulla lunga durata dei prodotti e spesso sul loro riutilizzo o riciclo dei materiali. I nostri nonni ricordano l'uso di rigirare i vestiti e i cappotti per rinnovarli e riutilizzarli. Il corredo domestico si trasmetteva per generazioni. Le bottiglie di vetro venivano restituite, ancora negli anni 50, ai negozianti e i metalli raccolti da appositi cercatori per rivenderli alle fonderie. Qual è però la differenza che balza agli occhi a qualunque analista  del fenomeno?  La principale è che si trattava in quei casi di una economia che poteva permettersi un forte rallentamento della crescita perché questa avveniva in un mondo con molti meno abitanti del mondo attuale, prima ancora che la popolazione mondiale esplodesse ai livelli che hanno condotto il pianeta ad oltre sette miliardi di abitanti. L’economia  dei prodotti a lunga durata e del riuso dei materiali riguardava un pianeta con meno di 2 miliardi di consumatori (prima metà del novecento) .  Solo dopo la metà del '900 l’esplosione demografica ha quadruplicato il numero dei consumatori e produttori e, insieme alla globalizzazione dei mercati, ha imposto i grandi numeri della produzione di massa  e l’economia lineare dei consumi standardizzati su alti livelli di produzione e alto consumo di energia.   Il ciclo impazzito acquisto-consumo-rifiuto basato su una produzione sempre crescente ed una economia finanziaria di espansione a "bolla" di prodotti derivati  ha accompagnato la crescita demografica mondiale e la globalizzazione dei mercati. Una platea   di 7 o 8 miliardi  di consumatori, estesi a tutto il pianeta, richiede una tipologia di produzione e consumo molto diversa da una di 1,5 o due miliardi, in cui i mercati erano limitati ad alcune aree sviluppate e a classi economiche privilegiate.  
Queste riflessioni mostrano come, al di là delle teorie elaborate nelle torri d’avorio dei vari economisti equosolidali e politicamente corretti, la prospettiva di una economia circolare non può essere neanche concepita se non in un sistema di rientro demografico, in cui la diversa qualità e modalità di produzione e consumo possa inserirsi in un quadro di riduzione quantitativa progressiva e la platea di consumatori ridursi gradualmente senza generare conflitti e situazioni critiche e socialmente  insostenibili.
Ridicola è poi la pretesa di assicurare l’energia necessaria alla nuova economia circolare basandosi sulla semplice produzione da rinnovabili, in presenza di un mondo in esplosione demografica. Come far fronte alle crescenti richieste mondiali di energia per l'espansione stessa degli abitanti del pianeta? Qui tutte le aporie e le artificiosità della teoria vengono al pettine: oggi nonostante le sovvenzioni di stato alla sua produzione   e gli incentivi ai privati per il suo utilizzo, l’energia da rinnovabili non decolla ed anzi mostra tutti i suoi limiti. Figurarsi in una economia con bassa crescita (come quella prevista nell’ipotesi circolare) e mentre i numeri della popolazione continuano ad aumentare. Il progressivo esaurimento delle risorse, l'aumento dei prezzi dell'energia, i costi proibitivi delle merci e degli scambi porterebbero alla crisi economica mondiale e al collasso  sociale. Tornare al consumo massiccio di idrocarburi, anche quelli più inquinanti,  sarebbe l’unico sistema per cercare di uscire dal tracollo. 

venerdì 7 novembre 2014

La sconfitta di Obama






Nel 2009 in piena crisi economica, la più grave da quella del ’29, e che ancora oggi blocca l’economia occidentale, il presidente Obama decideva di rimuovere il veto posto dall’amministrazione Bush al finanziamento da parte Usa di programmi e piani sulla pianificazione familiare in patria e  all’estero, anche col ricorso alla contraccezione e all’aborto.
In una intervista alla Abc la allora speaker della camera Usa Nancy Pelosi spiegava la decisione del presidente con la convinzione che il finanziamento di nuovi programmi per il controllo delle nascite avrebbe reso più efficace il pacchetto di “stimoli” all’economia. Questa politica di controllo demografico poteva essere utile non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche negli Usa dove la popolazione ha ripreso a crescere dagli anni ’90.   “La contraccezione –affermava Pelosi nel 2009- consentirà di ridurre le spese e i costi sia per i singoli stati che per il governo federale”. Madre di cinque figli, con sei nipoti, la democratica Pelosi ha idee chiarissime in materia: “Una buona pianificazione familiare permetterà di ridurre i costi. Gli stati attraversano una gravissima crisi fiscale dovuta in gran parte anche ai servizi per la salute e l’educazione dei bambini. Sono necessarie misure su questo fronte. E tra queste anche un piano per la contraccezione potrebbe essere importante”.

Il presidente Obama aveva introdotto nella sua legge sull’Obamacare (assistenza sanitaria gratuita ai poveri) l’obbligo per le aziende private di pagare ai propri dipendenti la copertura assicurativa per la contraccezione. La misura ha trovato subito molti ostacoli, tra cui il ricorso alla Corte Suprema di molte associazioni religiose che contestavano la legge per quanto riguarda la contraccezione e soprattutto l’obbligo per le aziende di rimborsare il costo della “pillola del giorno dopo”. Nel giugno di quest’anno (2014) la Corte Suprema ha deciso in favore della associazione religiose e contro l’Obamacare  e ha bocciato la volontà della Casa Bianca di imporre ai datori di lavoro, che la rifiutino per credenze religiose, l'inclusione degli strumenti per il controllo delle nascite nei piani di assistenza sanitaria riservati ai dipendenti.
Per quanto riguarda i finanziamenti alla contraccezione all’estero i programmi del Presidente non sono mai partiti sia per mancanza di fondi (la crisi economica è stata assai più pesante del previsto) sia per il precipitare degli equilibri politici nelle aree del pianeta in cui quel programma avrebbe potuto sviluppare i suoi effetti. In Africa ed in Asia del resto l’influenza americana si è andata affievolendo negli ultimi anni, in favore della Cina che sta estendendo la sua influenza e i suoi interessi economici verso le risorse di quei territori senza  preoccupazioni per l’ambiente e la salute delle popolazioni, secondo le tradizioni prima seguite dal colonialismo occidentale.

Un’altra occasione di influire sui tassi di natalità in maniera efficace è andata così sprecata. La sconfitta dei democratici di questi giorni negli Usa non fa prevedere una ripresa delle posizioni antinataliste. I repubblicani sono ancora in gran parte fermi alla condanna della contraccezione e dell’aborto, in linea con le organizzazioni religiose americane. La sconfitta dei programmi di controllo demografico non può che influenzare pesantemente in senso negativo tutte le posizioni dei vari ideologi della decrescita come via di uscita dalla crisi ambientale planetaria e in particolare il riscaldamento globale per la cappa di carbonio. Nonostante quel che credono i cosiddetti “verdi”, i quali si ostinano a negare ogni rilevanza al controllo della natalità umana per la salvezza del pianeta, la riduzione demografica rimane la base di partenza su cui è possibile impostare programmi realistici di decrescita economica, mantenendo allo stesso tempo adeguati investimenti sulla ricerca e sul livello tecnologico. 

mercoledì 5 novembre 2014

La sovrappopolazione e il nostro futuro evolutivo.




Le popolazioni umane continuano ad evolvere anche oggi, dice in un articolo su Le Scienze (novembre 2014), l'antropologo John Hawks. Questa evoluzione, che generalmente avviene su periodi molto lunghi, oggi nell'uomo sta accelerando come possiamo osservare studiando le tendenze di salute e riproduzione. Con la scoperta di nuove tecnologie mediche, l'igiene e i vaccini si è notevolmente ampliata la speranza di vita e si poteva supporre che questo potesse influire sui tassi di natalità. In molte popolazioni tuttavia i tassi di natalità oscillano, e mentre in occidente ad esempio essi sono scesi con l'allungarsi della vita media e il miglioramento della qualità di vita, in altre si assiste ad un persistere di tassi di natalità alti o intermedi. E' probabile che questo fenomeno influisca sui processi evolutivi.
Nell'Africa subsahariana, le donne che hanno una certa variante del gene FLT1 e sono incinte nella stagione malarica, hanno un piccolo aumento della probabilità di partorire rispetto a quelle che non hanno la variante, perché questa implica un minore rischio di infezione malarica della placenta e questo effetto alla lunga si manterrà come variante evolutiva favorevole. Stephen Stearns della Yale University e i suoi collaboratori hanno esaminato decenni di dati ottenuti con studi a lungo termine della sanità pubblica per vedere quali tratti potrebbero essere correlati con gli attuali tassi di riproduzione. La vita all'interno di città sempre più grandi ad esempio può influire sul processo evolutivo a seconda della resistenza allo stress per quanto riguarda l'attitudine delle donne alla natalità. Lo sviluppo economico sembra agire da stabilizzatore, ma non sempre è così. Contano le culture, le aree di appartenenza ed anche il periodo dello sviluppo. All'inizio e per tratti più o meno lunghi,lo sviluppo può aumentare i tassi di natalità in quanto migliora le aspettative, come accadde in Europa nel dopoguerra e come accade oggi in certe aree dell'Africa e dell'Asia. All'interno delle popolazioni di uno stesso paese ci possono essere caratteristiche diverse nei tassi di natalità. Negli ultimi sessant'anni, negli Stati Uniti le donne relativamente più basse e di peso più grande, con bassi livelli di colesterolo, si sono riprodotte leggermente di più rispetto alle donne con caratteristiche opposte. Tuttavia ancora non è chiaro perché questi tratti siano collegati alla dimensione della famiglia. Anche in questi casi possono giocare un ruolo sia fattori biologici che culturali ( tipo di alimentazione, idee sulla famiglia, sedentarietà, resistenza allo stress ecc.)
Nuovi studi di sanità pubblica, come il britannico Biobank, tracceranno genotipo e stato di salute di centinaia di migliaia di persone che vivono nelle città e in presenza di alta densità demografica. Queste ricerche sono effettuate perché le interazioni tra geni sono complicate e abbiamo bisogno di esaminare migliaia di casi per capire quali cambiamenti genetici influiscono sulla salute umana e verso quali cambiamenti stabili del genoma ci stiamo avviando. I geni che codificano per la tolleranza al lattosio è un esempio di come la stanzialità e lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento abbiano modificato l'iniziale intolleranza delle popolazioni umane di cacciatori-raccoglitori che non possedevano gli enzimi per digerire il latte per quanto riguarda in particolare gli adulti. Rintracciare la genealogia delle mutazioni umane è di enorme aiuto per osservare l'evoluzione lungo centinaia di generazioni, ma può oscurare le complesse interazioni tra ambiente, sopravvivenza e fecondità che si sono sviluppate nel passato. Vediamo solo i vincitori sul lungo termine, come la lattasi, ma potremmo perderci le dinamiche di breve periodo.
Come sarà il futuro della nostra evoluzione? Negli ultimi millenni, l'evoluzione della nostra specie ha preso strade differenti nelle diverse popolazioni umane, pur mantenendo sorprendenti somiglianze. Nuove mutazioni adattative presentatesi nelle popolazioni non hanno però espulso le versioni più vecchie dei geni. Viceversa, le varietà più vecchie, ancestrali, per la maggior parte sono rimaste con noi. Nel frattempo, milioni di persone si spostano ogni anno da una nazione all'altra, portando il tasso di scambio e rimescolamento genetico a un livello mai visto prima. Con un tasso di rimescolamento genetico così elevato, sembra ragionevole aspettarsi che i tratti additivi, per esempio la pigmentazione, per la quale sono molti geni diversi ad avere un effetto indipendente sul colore della pelle, saranno progressivamente attenuati nelle popolazioni future. Ci si prospetta un futuro in cui saremo una massa omogenea anziché un colorato arcobaleno di variabilità?
Niente affatto. Molti dei tratti diversi tra le popolazioni non sono additivi.  Anche la pigmentazione è raramente così semplice, come si osserva facilmente nelle popolazioni meticce in Stati Uniti, Messico e Brasile. Invece di una massa indistinta di cloni  color caffè e latte, stiamo già iniziando a vedere un trionfo di variazioni: individui biondi con lentiggini e pelle scura, e combinazioni di pelle olivastra e occhi verdi.
(Quanto riportato sopra è tratto dall'articolo di John Hawks: Evoluzione continua, Le Scienze Novembre 2014 pag.109).

Ma insieme a questi fatti biologici agiscono i condizionamenti culturali. Questo generale rimescolamento determina alterazioni irreversibili nel senso di territorialità innato nelle popolazioni umane, con sentimenti variabili di sradicamento. I ritmi frenetici di vita nelle megalopoli sono all'origine dei sentimenti di alienazione e spesso causa di patologie non solo psichiche ma anche fisiche, come quelle legate all'inquinamento. I conflitti culturali, lungi dallo scomparire con la coesistenza di diverse culture nello stesso territorio, sembrano accentuarsi. Le credenze religiose e le appartenenze culturali che in passato svolgevano un ruolo di coesione e di mantenimento di stili di vita sobri, vengono progressivamente a perdere questa funzione. Gli effetti finali possono variare dallo sfrenato consumismo, come avviene in Occidente, alla estremizzazione del processo identitario che può sfociare nella violenza come si vede negli integralismi contemporanei.
La sovrappopolazione stessa può essere un elemento che influenzerà l'evoluzione della specie umana? Certamente, visto che essa stessa è un riflesso dello sviluppo tecnologico e della medicina , dell'influenza delle culture e delle tradizioni, e sta alla base della nuova forma di vita collettiva che sono le megalopoli. Del resto le varie mutazioni sono amplificate in presenza di numeri elevati di popolazione, di alta densità demografica, e di aumentata mobilità.  Probabilmente il processo evolutivo verrà accelerato dagli alti numeri della popolazione, e allo stesso tempo non viene più controllato e mitigato dalla lunghezza dei tempi in cui i cambiamenti si confrontavano in precedenza con l'ambiente circostante. Ci sono queste accelerazioni e questi tempi ridotti alla base dei conflitti tra uomo e ambiente che stanno creando situazioni ecologiche sempre più critiche. Entrano in gioco i fattori ambientali che possono a loro volta influire pesantemente con i processi evolutivi sia biologici che culturali. Solo una minore fertilità, geneticamente o culturalmente indotta, potrà consentire un rientro nei limiti naturali del pianeta. una sovrappopolazione che mantenga alta la densità demografica, alti i consumi, e alti i tassi di natalità andrà fatalmente ad impattare con tali limiti fino a rivelarsi incompatibile con la sopravvivenza della specie.