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martedì 30 aprile 2013

QUALE DECRESCITA? LE DIMENTICANZE DI LATOUCHE





E’ uscito qualche mese fa l’ultimo libro di Latouche e altri intellettuali francesi “obiettori di crescita”, come si definiscono. Riporto una parte del  capitolo con l’intervento di Yves Cochet:


 LA CATASTROFE IMMINENTE  di Yves Cochet
L’ipotesi di discontinuità che io prospetto è che, prima del 2020, una catastrofe globale trasformerà profondamente il corso delle cose. Tenendo conto che la coesione sociale è molto diminuita e l’individualismo è molto aumentato a partire dagli anni sessanta, la mia ipotesi è che questa catastrofe avrà un effetto destrutturante su una società francese che reagirà come una massa poco coesa e non come la folla rivoluzionaria che diede l’assalto alla Pastiglia nel 1789, quando i pericoli incombenti rafforzarono la sua forza vitale. Ed è verosimile che anche le altre società europee reagiranno allo stesso modo.
Che tipo di catastrofe potra provocare il caos? Non necessariamente si tratterà di un avvenimento unico e spettacolare, ma più probabilmente di una sinergia di numerose rotture a livelli differenti, ma collegati dalla globalizzazione. Penso soprattutto al crollo del sistema finanziario mondiale, unito al declino della produzione petrolifera e a qualche cataclisma climatico, ecologico e geologico di grandi dimensioni. Anche se è impossibile calcolare la probabilità di questi disastri paralleli, il fatto che si verifichino contestualmente mi sembra abbastanza plausibile da obbligare a mettere questa prospettiva al centro di qualsiasi politica per il decennio a venire. Le politiche preventive che cercherò di delineare sono comunque valide, in quanto contribuiscono a “ridurre le disuguaglianze” o piuttosto a tentare di salvare la pace, la democrazia e la solidarietà. Il primo dovere di un responsabile politico è di proteggere le popolazioni di cui pretende di occuparsi. La catastrofe è inevitabile, tentiamo di ridurne le perdite umane.
La catastrofe non si può evitare? E perché? Per due ragioni principali. La prima è la lentezza con cui cambiano le idee e i comportamenti in ogni società, in tempi normali. La società è un sistema dinamico di percezioni incrociate tra individui: io mi rappresento come gli altri si rappresentano le cose e me stesso. Ciò che determina le credenze e i comportamenti di un individuo è l’interazione con l’altro, l’adattamento continuo alle idee e alle reazioni degli altri, l’imitazione e la rivalità, il coordinamento e la differenziazione al tempo stesso…Si capisce come mai l’evoluzione delle credenze e dei comportamenti all’interno della società sia lenta e di lungo periodo, tranne nei casi di avvenimenti dirompenti (guerra, catastrofe…). Questa inerzia sociale ormai è incompatibile con l’urgenza ecologica. La dinamica di degrado dell’ambiente naturale è più rapida dell’evoluzione delle credenze e dei comportamenti umani. La seconda ragione è in parte legata alla prima: se, malgrado l’inerzia sociale, un evento di grande dirompenza trasformasse rapidamente la nostra rappresentazione del mondo e dunque una società intera cambiasse profondamente alcune credenze,  è possibile che tale società riesca anche a cambiare rapidamente e profondamente i propri comportamenti negli ambiti che dipendono soltanto da un accordo tra umani, ma è escluso che possa farlo in quegli ambiti che dipendono dalle risorse naturali. Ad esempio, è possibile introdurre una nuova e rigorosa regolazione del sistema finanziario (chiusura delle Borse?), o una nuova fiscalità molto più onerosa per i ricchi (una fascia superiore dell’imposta sul reddito dell’ 80 %?). Ma è più difficile immaginare che la stessa società possa cambiare rapidamente e profondamente i propri comportamenti negli ambiti che dipendono dalle sue relazioni vitali con le risorse naturali. Ad esmpio, dimezzare l’uso dell’automobile, dei camion e degli aerei, convertire metà della PAC (Politica Agricola Comune) all’agricoltura biologica, ridurre i consumi energetici della maggioranza degli immobili a 50 kWh per metro quadro all’anno, e tutto ciò in cinque anni. In questi settori lo scontro non è tanto tra umani quanto con le risorse naturali, le quali sono mute, ma si degradano e diventano rare.
La natura non ha nessun rapporto di forza con gli umani, la natura non negozia. La forza e la debolezza del mondo non umano stanno in questo: è un mondo che evolve secondo dinamiche che gli sono proprie, insensibili alle opinioni, ma oggi è talmente sconvolto dalle attività umane che le sue dinamiche cambiano senza che sia possibile governarle. In due secoli l’umanità produttivista ha esercitato un’azione tellurica sulla natura, (tanto che gli scienziati propongono di chiamare l’epoca geologica attuale Antropocene) e le conseguenze di tale azione per un verso sfuggono al suo controllo e per un altro verso retroagiscono sul suo benessere, distruggendolo come per vendetta. In poche parole, il finanziario e l’istituzionale si possono regolare abbastanza facilmente: dipende soltanto dai rapporti di forza, dal dialogo, dalle rappresentazioni degli umani. Dipende interamente dalla nostra volontà/immaginazione/rappresentazione, dalla nostra disponibilità al compromesso, dalle trattative tra di noi. Mentre l’infrastrutturale e l’ecologico non dipendono soltanto da noi, dipendono anche dalla dinamica dell’ecosfera, che sfugge al nostro controllo e che abbiamo gravemente compromesso.
Il tempo è contato. Nella visione secessionista e discontinuista, l’imminenza della catastrofe porta a una riduzione drastica dei tempi necessari per introdurre le riforme che si propongono. In questo senso, il progetto di legge francese sulle pensioni, approvato nell’ottobre 2010, non è soltanto ingiusto dal punto di vista dei suoi principi socioeconomici, ma è soprattutto non realistico nella sua concezione stessa, fondata su un rapporto del COR (Conseil d’Orientation des Retraites) pubblicato nell’aprile 2010. Questo rapporto basava i suoi calcoli più pessimistici su una crescita media annua dell’ 1,5 % fino al 2050, cioè su un aumento del 100 % del PIL in questo orizzonte temporale. Oggi come si può avanzare seriamente un’ipotesi del genere? Evidentemente gli autori del rapporto sono persuasi che l’economia sia una scienza che presuppone che la crescita sia soggetta a diversi cicli corrispondenti a periodi più o meno brevi. Dunque, poiché le fasi di questi cicli possono essere più o meno negative o positive a seconda delle date che si scelgono, basta aspettare e adottare qualche misura appropriata per uscire dalla crisi. Quel che è certo è che nessuno degli autori del rapporto condivide il punto di vista ecologista che io sostengo, in particolare riguardo alla assoluta peculiarità della situazione attuale. Gli “obiettori di crescita”, ai quali appartengo, a volte ricorrono a questa citazione del grande Albert Einstein: “Non possiamo risolvere i nostri problemi con il pensiero che avevamo quando li abbiamo creati”. In altre parole, soltanto uno sguardo nuovo sugli affari del mondo può far comprendere, o risolvere, i problemi attuali. L’ambizione dell’ecologia politica è di far emergere lo sguardo che può salvarci, in particolare la visione di una urgenza che accorcia i tempi. Urgenza che, più precisamente,  si divide in due postulati: è troppo tardi per evitare la catastrofe, ma più in fretta agiremo, più riusciremo a ridurre la violenza dell’impatto.
E’ arrivato il momento di introdurre il termine “decrescita”, oggetto di tante interpretazioni e polemiche. La maggioranza degli “obiettori di crescita” presenta la parola “decrescita” come un’arma linguistica contro il conformismo intellettuale e politico. Si tratta di scuotere, provocare, spingere a riflettere all’interno di un altro quadro. Bisogna “decolonizzare l’immaginario”, dice serge Latouche.  In che senso? Perseguendo l’obiettivo di una società di sobrietà e di condivisione,nella quale l’impatto ecologico dei paesi industrializzati si ridurrebbe fortemente, mentre i paesi del Sud troverebbero una strada diversa da quella della crescita, del produttivismo e dell’industrialismo per soddisfare i loro bisogni e i loro desideri. Dato che le ricchezze  naturali sono in quantità finita – e alcune, non rinnovabili, prossime all’esaurimento -, l’unica soluzione per vivere in pace è la loro ripartizione equa tra tutti gli umani. Questo progetto ripropone le questioni della giustizia sociale e dei rapporti Nord-Sud su base ecologica, superando dunque la critica puramente economica della sinistra tradizionale, che auspica una giusta redistribuzione di una produzione di ricchezza sempre maggiore. E’ un progetto che rinnova anche la democrazia, attraverso una partecipazione attiva dei cittadini, nonché la Repubblica, puntando sui valori di autonomia, di solidarietà e di responsabilità globale. Come si vede, la decrescita è qualcosa di completamente diverso dall’opposto aritmetico della crescita, cioè la recessione. Tuttavia, sebbene a priori non vi sia un rapporto di casualità tra il progetto di civiltà promosso dalla decrescita e la recessione economica, ritengo che la seconda sia un passaggio inevitabile in direzione di  qualsiasi  società della decrescita. O meglio, come ho indicato in precedenza, è probabile che sarà la recessione incombente –o la depressione-  dell’economia liberal-produttivista a determinare la scossa decisiva per l’avvento della decrescita in quanto progetto accettato dalla maggioranza, piuttosto che il proselitismo dei militanti della decrescita liberamente scelta e della frugalità volontaria.  In effetti, come Marx, sono convinto che siano le circostanze materiali a determinare la coscienza e non l’inverso. La nostra esistenza sociale non è determinata dalla nostra coscienza, ma dipende piuttosto da una realtà che non controlliamo: i rapporti di produzione per Marx, la geologia per me.
(La catastrofe imminente,  Ives Cochet su: Dove va il Mondo?  Edizioni Bollati Boringhieri, 2013, pagg. 32-40).

Il nuovo libro di Latouche si avvale della collaborazione di altri tre intellettuali francesi, tra cui l’ex ministro Yves Couchet, di cui riporto qui sopra una parte dell’ intervento. Gli intellettuali “obiettori di crescita” sono d’accordo nel denunciare l’irreversibilità della crisi del modello liberal-produttivista e ci avvertono che abbiamo di fronte un baratro a cui il pianeta è avviato. Cochet parla apertamente di catastrofe imminente, e giudica la crisi finanziaria in atto in Europa e nel mondo come una semplice avvisaglia di ciò che ci attende. Dobbiamo correre ai ripari con la decrescita ma le resistenze della maggioranza dei popoli potranno essere superate solo dopo che la catastrofe, di cui la recessione odierna è un sintomo iniziale, sarà avvenuta. Nessuna delle politiche neoliberali ci potrà salvare, dicono gli intellettuali, e ci invitano a cambiare mentalità verso la nuova ottica della decrescita. Cochet fa degli esempi concreti: dimezzare l’uso dell’automobile, dei camion e degli aerei, convertire l’agricoltura intensiva in agricoltura biologica, ridurre i consumi energetici. Ovviamente, anche in questo nuovo libro di Latouche e soci, non si parla della decrescita demografica. L’argomento, come ben sa chi conosce il pensiero di Latouche, è tabù e chi ci si avventura rischia l’accusa di nazismo. Si finisce così per girare intorno ai problemi senza arrivare alla sostanza. La crisi riguarderebbe il modello economico liberale e la soluzione è semplice: decrescere nei consumi e nel PIL e assumere comportamenti solidaristici e di socialismo reale, restituendo allo Stato il ruolo di grande regolatore di tutti gli aspetti dell’economia e della vita delle persone. La realtà costituita dalla spaventosa esplosione demografica che ha riguardato il pianeta negli ultimi cento anni portando il numero di umani da uno a sette miliardi viene così rimossa e nascosta. Per gli obiettori di crescita il problema non esiste. Si guarda solo all’economia, all’eccesso di consumi e alle diseguaglianze.
Tutto il processo della decrescita dovrebbe riguardare sia (in primo luogo) il mondo occidentale sviluppato, sia i paesi in via di sviluppo. L’idea, un poco giacobina e molto marxista, che sta alla base del pensiero della decrescita è che la politica e l’economia possono essere guidate verso gli obiettivi razionali della decrescita attraverso le opinioni e i suggerimenti illuminati degli intellettuali “obiettori di crescita” per lo più francesi ( con un retropensiero alla rivoluzione del 1789). Le soluzioni semplici affascinano le menti deboli, diceva Popper. Si da per scontato che i processi economici funzionino secondo modelli razionali semplici e che le decisioni burocratiche prese da organi dello stato possano guidare processi complessi verso obiettivi prestabiliti a priori. Prendiamo ad esempio il dimezzamento dell’uso dell’automobile e degli aerei proposto da Cochet. Ciò significa dimezzare il mercato dell’auto e dei viaggi aerei. Significa la fine (ottimisticamente: la riconversione…) di milioni di posti di lavoro, la perdita di investimenti, di ricerca tecnologica, la crisi economica di interi paesi – si pensi al turismo, all’indotto, ecc. Certo, potremmo mettere operai delle auto e lavoratori degli aeroporti a coltivare campi biologici…ma la cosa non è tanto semplice. Inoltre ci potrebbero essere resistenze di popolazioni, intere nazioni avviate da poco allo sviluppo potrebbero non accettare modelli di minori consumi. Perché i cinesi dovrebbero rinunciare all’auto e tornare, in gran parte, alle biciclette? La lezione della decrescita è indigesta per i popoli, ed infatti Cochet prevede che prima che si assumano comportamenti reali di decrescita, sarà purtroppo necessaria una catastrofe planetaria. Ma a quel tempo non sarà troppo tardi? Probabilmente, risponde Cochet, ma non ci sono alternative.
Personalmente ritengo che il problema dei decrescitari risieda in una diagnosi sbagliata. Alla base della corsa verso la distruzione planetaria non sta il capitalismo, né la disuguaglianza, né il produttivismo. Accusando l'organizzazione dell'economia rimaniamo ancora in superficie. Questi comportamenti economici hanno a fondamento un pensiero sbagliato: sono prodotti di un atteggiamento di fondo dell’uomo che vede nella natura una cosa, una pura risorsa inerte da utilizzare per soddisfare i propri bisogni. Questo pensiero antropocentrico non riguarda il capitalismo, ma è alla base anche del socialismo, è alla base della religione (dal cristianesimo all’islamismo), e di ogni società occidentale e, specialmente al giorno d’oggi, anche orientale:  è un pensiero realmente globalizzato. Il pensiero antropocentrico è basato sulla visione tecnico-scientifica del mondo ed è all’origine della potenza scatenata e senza limiti della trasformazione tecnica in atto su tutto il pianeta. L’aspetto principale di questa trasformazione tecnica è la sovrappopolazione, ossia l’esplosione devastante (per tutte le altre specie e per la natura ) della popolazione di Homo sapiens, esplosione implementata e sostenuta proprio dal progresso tecnico. Un progresso che avrebbe richiesto una assunzione di responsabilità da parte dell’uomo verso il resto della natura che non c’è mai stata. Gestiamo la tecnica come se fossimo poche centinaia di migliaia di umani come diecimila anni fa; agiamo come se ci fossimo dimenticati o mai accorti di essere 7 miliardi. Purtroppo di questo dato si continuano a dimenticare anche gli “obiettori di crescita” come Latouche e Cochet.



sabato 27 aprile 2013

I 70 anni che hanno cambiato l'Italia (e il mondo)



Dalla fine della guerra sono passati quasi 70 anni. In questo spazio di tempo è avvenuto il più sconvolgente cambiamento della storia dell'uomo, si è passati da una civiltà rurale ad una industriale e tecnologica. L'effetto più devastante è stata la spaventosa esplosione demografica che ha portato il mondo da due miliardi di abitanti nel 1945 ai sette milardi e mezzo di oggi. Alla base del rivoluzionario cambiamento che sta oggi minacciando la sopravvivenza del pianeta, sta l'affermazione globale dello strapotere della tecnica che ha portato alla fine del modello di vita contadino, alla urbanizzazione forzata, allo sfruttamento finale e totalizzante delle risorse naturali, all'inquinamento ambientale generalizzato fino al riscaldamento globale. L'effetto devastante sui luoghi di questo cambiamento è plasticamente rappresentato dalla cementificazione delle campagne e del paesaggio, con la sostituzione degli elementi naturali con una ininterrotta distesa grigia di cemento e di asfalto. Simbolicamente la perdita dell'anima dei luoghi accompagna così la perdita di senso della vita umana. Già alla fine del secolo XIX erano presenti gli elementi che avrebbero portato allo strapotere della tecnica, intesa come attività e produzione dell'uomo in funzione del proprio antropocentrismo, del ridurre cioè tutta la realtà naturale al suo dominio per la soddisfazione illimitata e totalitaria dei suoi bisogni, a danno dell'ambiente e di tutte le altre specie viventi. Nietzsche aveva parlato di "volontà di potenza" per indicare l'assenza di un fine e l'autodistruttività senza scopo dell'attività umana. Marx aveva tentato una operazione di "riduzionismo" filosofico riportando la questione ad uno squilibrio economico tra le classi, illudendosi che una società egualitaria e senza classi avrebbe risolto l'alienazione umana, un problema che aveva una causa ben più radicale. Alla base dell'alienazione sta infatti la perdita di un rapporto equilibrato e rispettoso tra uomo e natura, e la sua sostituzione da parte di una potenza tecnologica fine a se stessa che sta distruggendo la Terra e porterà all'annientamento dell'uomo stesso insieme a tutto il resto. Il frutto avvelenato che sta intossicando il pianeta non sta in un rapporto sbagliato tra uomo e uomo, tra ricco e povero, tra fedele e infedele, tra saggio e ignorante, ma sta nel pensiero stesso dell'uomo, per il modo in cui si è posto di fronte alla natura negli ultimi secoli, in un delirio antropocentrico di possesso e trsformazione di tutta la natura. Tutto è precipitato, in una folle accelerazione, negli ultimi decenni, a partire dal dopoguerra. Oggi il pianeta è minacciato direttamente dalle polluzioni dell'attività umana e il tempo rimasto è poco. In un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista Geophysical Research Letters viene riportata una stima del volume complessivo del ghiaccio dell'Artico usando, fra le altre fonti, i dati ricavati dal satellite Cryosat.   Si viene così a sapere che nel 1979 erano presenti al Polo Nord : 16.855 Km cubici di ghiaccio; nel 2012 la cifra si era ridotta a 3.261 Km cubici. Nello studio si parla del volume dei ghiacci, e non della superficie, quindi un dato ancor più preoccupante. I poli sono i sistemi che mantengono temperato il clima terrestre e fino ad oggi hanno tenuto sotto controllo il riscaldamento del pianeta e il livello dei mari.  Questi dati  sono campanelli di allarme, anzi sono sirene   a tutto volume che ci debbono svegliare dal torpore e indurci a correre immediatamente ai ripari. 

Questo cambiamento terribilmente veloce si è accelerato  in questi ultimi settant'anni. Il mondo è profondamente cambiato, non solo per l'avvento della televisione e poi del computer. E' cambiata tutta la mentalità, l'organizzazione della vita, i valori di riferimento. Come sottolineava Pasolini, si è trattato anche di un cambiamento antropologico, ci siamo trasformati noi come persone e oggi, una persona che viva al nostro tempo, è come un marziano rispetto ad una persona che fosse vissuta alla fine degli anni '30 del secolo scorso. Questo stravolgimento è molto evidente nel nostro paese, che è arrivato tardi alla modernità rimanendo fino a tutti gli anni '40 un paese prevalentemente rurale con una economia basata in maggior parte sull'agricoltura. Riporto di seguito alcune interviste ad alcuni anziani di alcune aree rurali del sud della Toscana, che hanno vissuto in prima persona quel cambiamento e, con i loro racconti, ci restituiscono l'entità della rivoluzione antropologica, economica e culturale che ci ha portato al mondo di oggi, per molti versi irriconoscibile e irriducibile a quello di allora. Questi racconti, raccolti da alcuni giornalisti locali per salvare la memoria di un certo modo di vivere, sono interessantissimi per darci la dimensione di ciò che è avvenuto e di come quel mondo di valori e di usanze sia stato completamente distrutto, peggio che dopo una guerra devastante. Ma a distruggerlo non sono stati i bombardieri americani o le cannonate tedesche, ma un ben più distruttivo potere tecnico che ha ridotto tutte le cose, compresi i paesaggi, le bellezze naturali, gli animali, le piante, e gli uomini stessi a cose da utilizzare e poi trasformare in rifiuti, in un circolo produttivo e consumistico privo di senso. Ma ciò che emerge da quei racconti è anche un altro dato, e cioè la natura irreversibile di quel cambiemento e il fatto che il futuro cui quella trasformazione ci sta avviando assume sempre più il significato di un "destino".  A coloro che, come in un nuovo  mito, ripetono salvificamente il mantra della decrescita, bisogna ricordare che quel mondo cui alludono i seguenti racconti appartiene al passato e non tornerà più. Il futuro è sconosciuto, ma non sarà quello dei nostri nonni e bisnonni. O forse dobbiamo ridefinire il concetto di decrescita, considerando che più che di decrescita economica si deve trattare di una decrescita della nostra posizione nel mondo, ridando spazio alla natura e alle altre specie viventi. La prima decrescita deve essere quella demografica, per ridare "spazio" al resto della natura, diminuire gli inquinanti, far rientrare la produzione a livelli inferiori  bastanti per un numero inferiore di persone. Poi dobbiamo cambiare il modo di pensare dell'uomo. far decrescere la nostra smisurata ambizione ed arroganza verso le altre specie viventi e far crescere  nuovi valori etici  di rispetto verso la natura e la bellezza del mondo.


RACCONTI DI ANZIANI CONTADINI

Un uomo: "Mi chiamo...e sono nato nel 1920 in una piccola frazione del comune di Città della Pieve. La mia famiglia proviene dal mondo agricolo: siamo sempre stati mezzadri. Mia madre aveva lavorato fin da piccola nei campi e non era mai andata a scuola. Anche gli zii non sapevano leggere e scrivere. Nel paesino  c'era solo la scuola rurale fino alla quarta elementare. Io già a sei anni avevo iniziato a lavorare nei campi. Allora c'erano pochi diritti e molti doveri. Mio nonno era il capoccia che guidava la nostra famiglia patriarcale, che prendeva tutte le decisioni. Per la verità, le prendeva insieme a mia nonna, che era davvero in gamba per quei tempi. Era l'unica donna della famiglia che aveva studiato: aveva frequentato addirittura la quinta elementare, che allora era davvero un privilegio di pochi...Mio nonno aveva cinque figli e nessuno era andato a scuola. Io - a parte mia nonna- sono stato il primo a saper leggere e scrivere, e mio nonno spesso mi chiamava quando andava dal padrone, per aiutarlo a capire...Allora il datore di lavoro si chiamava padrone. Oggi sembra assurdo, ma allora il proprietario della terra era in un certo senso anche il padrone della tua vita. Ricordo che mio nonno a volte ci nascondeva sotto il letto, perché il padrone diceva che, anche se eravamo ragazzi, dovevamo lavorare e non voleva vederci in giro nel podere...
Io da ragazzo non mi ricordo che mi sia divertito: a cinque, sei anni dovevo andare a guardare le pecore o i maiali, magari insieme alla mamma...Allora, quando ero giovane io, quasi tutti gli animali che venivano allevati nelle fattorie, nelle aziende, venivano mandati al pascolo: dai maiali ai tacchini, dalle mucche alle pecore, alle capre, alle oche...Allora i bambini piccoli cominciavano presto ad andare a pascolare questo bestiame; all'inizio andavano accompagnati dai genitori, da qualcuno più grande, poi dopo, a mano a mano che crescevano, andavano da soli. Questa è stata la nostra infanzia, senza nessun divertimento, nessun gioco...Poi c'era la consuetudine, durante soprattutto il periodo invernale con le giornate molto corte e le notti molto lunghe, di andare a veglia, cioè si andava una sera presso una famiglia, poi la sera dopo o dopo due sere a casa di Capoccia, poi a casa di un altro...Ci si riuniva diverse persone a parlare di tutti i problemi. Questo sistema di andare a veglia era un sistema per tramandarsi quelle che erano le esperienze di ogni uomo, di ogni donna, di ogni famiglia, di ogni zona. Un modo per raccontare il passato e il presente e pensare al futuro; per ricordare un po' ai giovani e ai meno giovani quella che è stata la vita, perché allora la maggior parte erano analfabeti, non è che qualcuno poteva leggere e informarsi in altri modi...Ricordo questo calore umano che c'era fra i contadini: era una cosa che si sentiva, si sente ancora.

Una donna: " Sono nata nel 1931, figlia di mezzadri. Nel podere eravamo in dodici, appartenenti a due famiglie. Ci si svegliava la mattina alle quattro e si andava a letto alle undici. Al podere non c'era acqua, non c'era strada, non c'era luce, non c'era niente di niente. L'acqua potabile noi andavamo a prenderla alla Massubilla, a orce, a brocche e dalla Massubilla al Gamberaio erano chilometri di strada. Si produceva un po' di vino, un po' di grano e pochissimo olio. Non si pativa tanto la fame prima del fronte (prima del passaggio del fronte durante l'ultima guerra, ndr), ma "nsomma un c'era da scialacquà...". Dai sette fino ad una quindicina d'anni si lavorava badando agli animali, poi si lavorava come i grandi. Si mangiava la mattina, poi si faceva la merenda (il pranzo si chiamava così), che consisteva in un piatto di minestra di fagioli, con quattro fagioli che ti davano uno dietro l'altro, una manciata di tagliatini e poi una fetta di pane; quando c'era l'uva matura, avevamo anche l'uva, o una piccola mela. Poi si mangiava alle 18 il cuculo, biscotto fatto con l'ammoniaca, latte e farina che per di più si usava al tempo della mietitura. Noi ragazze aiutavamo la massaia che si occupava della dispensa e del pollaio: si faceva il pane, il formaggio, e si rigovernava lavando i piatti a turno e se era avanzato da fare qualcosa si lavorava anche la notte. Il piatto tipico erano i pici, senza uova perché queste si dovevano vendere, o i frascarelli...I nostri divertimenti erano pochi: per Carnevale si andava a ballare nelle case dei contadini vicini, una volta da uno, una volta da un altro e la domenica ci radunavamo a ballare nell'aia o in una concimaia...L'inverno poi, quando era Natale, il migliore cappone bisognava portarlo in fattoria per il padrone e anche la ricotta una volta la settimana...A quei tempi le pecore la lana "la buttavano poca", non era come ora, perché l'inverno pativano la fame e si pelavano tutte: la lana gli cascava, andava a finire tutta a biocchi (batuffoli) nel bosco! Noi la filavamo gratis nei momenti di riposo dei mesi estivi all'ombra delle piante e metà andava a loro (i padroni) e poi, dopo che l'avevano fatta tessere e cucire, guardavamo i vestiti addosso a loro fatti con la nostra fatica. Prima che mi sposassi funzionava così: se oggi ci facevano le scarpe domani ci facevano il vestito; poi ci si passava il vestito dall'una all'altra...Io ho fatto la prima comunione con il vestito della comunione di mia sorella. Le scarpe ce le passavamo e quando arrivavano a noi più piccine erano sfondate e rotte. Gli zoccoli ce li facevano i nostri genitori con le tomaie delle scarpe a cui rifacevano il sotto di legno e, secondo me, ci si stava meglio che con le scarpe vere.

Un mugnaio, nato nel 1927: "Le condizioni delle case coloniche erano pessime perché mancava l'acqua, mancavano la luce, le strade, i servizi igienici; basta dire che era controllabile da sopra se la vacca stava partorendo: si toglieva un mattone e sotto si vedeva tutto (la stalla era tipicamente al piano terra, sotto la camera da letto, ndr). Le finestre c'erano solo per modo di dire, perché i vetri erano quasi sempre rotti ed erano rimpiazzati da lamiere o da cartoni inchiodati. Per quanto riguarda le porte, il gatto automaticamente passava sotto e girava e faceva quello che poteva fare nelle case. Quando pioveva, entrava acqua in abbondanza nelle case e tutti i secchi, i catini, le scodelle venivano utilizzati: in qualche modo si doveva correre ai ripari, ed erano messi anche sopra i letti per raccogliere l'acqua che enrava dal tetto. Si faceva luce con un piccolo lumino ad olio, a due metri già non si distingueva più chi era lì vicino, dal fumo che faceva; al mattino, quando ci si alzava, si dovevano pulire le narici che erano tutte nere. Però dopo qualche anno inventarono la citilene al carburo, questa fu una delle meraviglie del mondo. Se si deve raccontare quale fosse l'abbigliamento mi viene da piangere: le toppe dei pantaloni erano una sopra l'altra: a volte non si riconosceva la stoffa iniziale. Le scarpe erano gli zoccoli, quelli rotti si tenevano nei campi per lavorare; quelli un po' meglio per andare alla processione. I giovani contadini che intendevano fare una famiglia con le donne del paese portandole con loro in campagna, incontravano grandi difficoltà, perché gli abitanti del borgo sapevano le condizioni dei coloni e non lasciavano adito a speranze. E se qualche ragazza di paese aveva il fidanzato in campagna la sua famiglia gli cercava un lavoro diverso, anche se non era così facile perché una legge fascista vietava al colono di abbandonare la terra per lavorare altrove. Non poteva, infatti, avere il libretto di lavoro prima di tre anni dall'abbandono del podere. Le donne erano presenti tutta la giornata a fianco dell'uomo e si assentavano solo per qualche faccenda in casa e per preparare il mangiare. Il menù del giorno è presto detto: un pochino di caffé fatto con orzo raccolto e abbrustolito e per i più piccoli misto con un pochino di latte di vacca, se questa allattava. Verso le nove e mezza si mangiava la polenta con qualche ritaglio di suino. Poi, intorno alle quattordici, gli gnocchi di patate oppure pasta fatta in casa, poche uova e parecchia farina per riempire la pancia. La sera si apparecchiava secondo le persone, di consuetudine erano tre vassoi d'insalata mista, con pomodori se era stagione, a disposizione lungo la tavola. Ognuno prendeva la forchetta e cominciava col vassoio più vicino. Poi c'erano uova lesse, che erano contate. 

Un mezzadro nato nel 1926: "Passato il conflitto molte fattorie furono vendute, e con esse gli animali. Ai mezzadri non venne niente per la vendita. Così cominciarono le rivendicazioni contadine, prima per il 53, poi per il 60 % del prodotto. Nel dopoguerra ci fu il bestiame a conferimento, ossia, pagando la tua parte, ne diventavi proprietario. Durante e dopo le lotte contadine cominciò lo spopolamento delle campagne, che fu un danno per l'economia nazionale intera. Forse se invece di maltrattarci ci avessero dato qualcosa, può darsi che parecchi ancora erano nelle campagne; invece hanno risposto talmente male che la gente che s'era sacrificata una vita cercò di migliorare la situazione buttandosi nell'edilizia, nel commercio, in quello che sembrava più conveniente..."

Una donna di una famiglia di mezzadri, nata nel 1935: "...c'era tutto il grano da mietere e si mieteva a mano, non c'erano le macchine come ora. Dell'esperienza di ora, che c'è la radio, la televisione, c'è tante cose e si sente tutto, posso dire che allora della guerra non si sapeva niente. Il compito dei bambini era di guardare le bestie  e di andare a scuola. Normalmente si andava alla scuola elementare, ma per le famiglie di contadini era faticoso; per me erano dieci minuti dal paese, ma alcuni ci mettevano un'ora...dovevano avere tanta voglia di studiare, unita alla volontà delle famiglie...Quando si tornava a casa c'erano i maiali e le pecore da accudire. La domenica non si lasciava mai la messa delle undici e d'estate si portavano fuori la mattina presto le bestie, poi si rientrava, si faceva colazione, ci si vestiva e  andavamo alla messa. Finita la funzione passeggiavamo in piazza con le amiche: questo era l'unico svago. Altro compito era aiutare anche un po' in casa le donne a fare il mangiare, perché per esempio quando si mieteva eravamo tanti e allora si doveva cucinare e portare il mangiare nei campi. Quando era il momento della semina gli uomini facevano a turno uno per mattina ad alzarsi alle tre per far mangiare le bestie, perché ci voleva un paio d'ore, anche due ore e mezza per far mangiare una bestia vaccina, e poi, appena giorno, via a seminare! Fino al buio. Si mieteva con la falce fienaia, poi si rigirava il grano per farlo asciugare e si facevano i mucchi e poi nell'aia si faceva il pagliaio, che era difficile da fare: ci si passava la forca in tre o quattro su per la scala per accimarlo.  Si faceva anche di pula il pagliaio, col rastrello. Si facevano scambi tra le famiglie, a trebbiare più che altro: infatti la trebbiatura era tutta a scambi e, quando trebbiava un contadino, andavano tutti quelli delle famiglie vicine; poi, man mano, ci si scambiava, andando dagli altri. Nell'orto i lavori più pesanti li facevano gli uomini, i più leggeri le donne. Il formaggio di pecora lo facevano sempre le donne, fresco o stagionato. Dei prodotti della campagna non si buttava niente: quando si potavano gli ulivi, ad esempio, si sceglievano le fraschette per darle a mangiare alle vacche e lo stesso si faceva con le foglie del granturco. La mia mamma era una donna meravigliosa. Sapeva cucinare con poco; non abbiamo mai patito la fame anche se c'era poco. La mia mamma, oltre che andare sempre nei campi, cuciva per tutti: dai pantaloni degli uomini alle mutande, ai vestitini per me e mia sorella più piccola. Faceva il pane e la ciaccia con l'uva secca. Faceva il bucato con la cenere  e poi il giorno dopo lo sciacquava in una pozza e se c'era il ghiaccio si rompeva con un sasso e si lavava. Altro che lavatrice! Un altro particolare: quando partoriva una donna, in casa si intende, la levatrice veniva a piedi o altrimenti andava a prenderla un uomo della famiglia con il carro dei buoi. Il bambino, a volte era già nato quando arrivava la levatrice: meno male che allora nelle famiglie o nel vicinato c'era sempre una donna esperta che sapeva come comportarsi in tale occasione...il bambino veniva fasciato con pezzi di lenzuolo vecchio: altro che pannolini! Se la donna aveva abbastanza latte, o se c'era una vacca che dava latte al vitello, allora veniva preso a balia un bambino di ricchi. Quest'ultimo riceveva più latte del proprio figlio, perché i suoi genitori lo volevano vedere bello e paffuto, altrimenti non pagavano".

(Da "Sguardi e memorie diverse nel tempo del cambiamento" con prefazione di Rosario Villari. Edizioni Emmecipi).

sabato 20 aprile 2013

LA NASA BREVETTA LA FUSIONE FREDDA





Non c’è solo Rossi ed il suo E-Cat, o i greci dell’Hyperion. E neanche i singoli ricercatori americani e giapponesi (e a quel che risulta, anche cinesi). Ormai anche le grandi organizzazioni ed imprese come la Boeing e National Instruments, la Mitshubishi e la Toyota,  si stanno occupando della Cold Fusion o LENR. La scienza ufficiale fa finta di nulla, per essa il fenomeno semplicemente non esiste. Ma la NASA, persino la NASA, che in America porta avanti la ricerca sulle nuove tecnologie –ricerca ufficiale finanziata e sponsorizzata dal governo federale-  si sta occupando dello sviluppo teorico delle LENR e della progettazione di reattori da immettere sul mercato. L’ente americano ha richiesto alcuni brevetti su dispositivi LENR.  Riporto, sull’argomento, il seguente articolo tratto dalla rivista On line “Cold Fusion Now”. Un articolo ben documentato, anche con documenti ufficiali della Nasa (di alcuni dei quali riporto il link in calce all’articolo). Traduzione personale.


Sulla rivista Spinoff della NASA viene  comunicato che l’ente di ricerca americano ha richiesto varie licenze di brevetto basate sulla tecnologia LENR. 

"Il Congresso degli Stati Uniti e l'Amministratore della NASA stanno mettendo grande enfasi sul trasferimento di tecnologia sviluppata dalla NASA e le competenze per l'industria degli Stati Uniti al fine di aumentare la competitività industriale degli Stati Uniti, creare posti di lavoro, e migliorare la bilancia commerciale. Inoltre, viene posto l'accento sul portare tecnologie e competenze in NASA che può facilitare il raggiungimento degli obiettivi dei programmi spaziali ".

La Nasa si sta occupando di tecnologie emergenti per risparmiare e ottimizzare il consumo energetico ed abbattere le emissioni nocive ed è orientata all’immissione sul mercato dei prodotti tecnologici per sviluppare l’industria e la qualità della vita. Tra le nuove tecnologie studiate, rientrano le LENR.

Dal sito della NASA risulta in particolare che si stanno sperimentando sistemi di idruri metallici con lo scopo di “valorizzare la plasmonica superficiale  di polaritoni (condensati di Bose-Einstein) per avviare e sostenere le reazioni nucleari a bassa energia nei sistemi di idruro di metallo, una nuova forma di energia nucleare pulita”.  Dal filmato sul sito della Nasa si vede che gli studi hanno l’intento di portare allo sviluppo di prodotti di ingegneria avanzata e applicata   da immettere sul mercato.

Nel documento “Low Energy Nuclear Reaction: il Realismo e l’Outlook” lo scienziato Tennis Bushnell del "NASA Langley Research Center", afferma che,  sebbene non manchino risultati importanti e la dimostrazione di innegabili eccessi di energia prodotta,  “siamo ancora lontani dai limiti teorici delle reazioni nucleari deboli e ci attende ancora molta ricerca per sviluppare l’ingegneria necessaria a produrre apparecchi utili, e allo stesso tempo chiarire i molti problemi di fisica teorica ancora insoluti riguardo ai fenomeni classificati come LENR”.
Nel contratto Nasa “Subsonic Ultra Verde Aircraft Research - Fase II" - N +4 concetto avanzato - NASA Contratto NNL08AA16B” è presente una relazione in cui si afferma: “Anche se non conosciamo il costo specifico di un reattore LENR pienamente sviluppato, abbiamo ipotizzato un costo del carburante di un velivolo con motore termico LENR rispetto ad un aereo convenzionale. Guardando i grafici, si può ipotizzare un costo previsto per miglio inferiore del 33% rispetto ad velivolo tradizionale”. (pag. 24). Nel documento sono presenti grafici che illustrano il vantaggio in termini energetici dei motori termici basati su sistemi LENR (pag. 25 fig. 3.2).
La relazione del gruppo di lavoro della NASA pubblica inoltre la seguente lista di organizzazioni e individui che lavorano allo sviluppo di un velivolo NASA equipaggiato con motore LENR: Bradley (Boeing) * Daggett (Boeing) * Droney (Boeing) * Hoisington (Boeing) * Kirby (GT) * Murrow (GE ) * Ran (GT) * Nam (GT) * Tai, (GT) * Hammel (GE) * Perullo (GT) * Guynn (NASA) * Olson (NASA) * Leavitt (NASA) * Allen (Boeing) * Cotes ( Boeing) * Guo (Boeing) * rifilare (Boeing) * Rawdon (Boeing) * Wakayama (Boeing) * Dallara (Boeing) * Kowalski (Boeing) * Wat (Boeing) * Robbana (Boeing) * Barmichev (Boeing) * Fink ( Boeing) * Sankrithi (Boeing) * Bianco (Boeing) * Gowda (GE) * Brown (NASA) * Wahls (NASA) * Wells (NASA) * Jeffries (FAA) * Felder (NASA) * Schetz (VT) * Burley ( NASA) * Sequiera (FAA) * Martin (NASA) * Kapania (VT)

IL BREVETTO NASA PER L’ENERGIA LENR
Sul sito della Nasa è visibile una presentazione di un brevetto di un dispositivo per la produzione di “elettroni pesanti” basato sulla teoria Widom Larson. La ricerca sul dispositivo è stata sponsorizzata dal governo federale. Viene specificato che l’invenzione è stata realizzata da un dipendente del governo degli Stati Uniti per scopi governativi senza il pagamento di nessuna royalty. Si legge nel brevetto: “Questa invenzione riguarda la produzione di elettroni pesanti. Più specificamente, il dispositivo utilizza un sistema per produrre elettroni pesanti tramite la propagazione di polaritoni (elettroni  che si muovono sincronicamente perché all'interno di un campo magnetico polarizzato)  su una plasmonica superficiale ad una frequenza selezionata. In fisica della materia, il plasmone è un'eccitazione collettiva associata alle oscillazioni del plasma di elettroni contenuti in un sistema (da Wikipedia). La struttura è formata da un materiale non elettricamente conduttivo che funge da matrice  e da materiale conduttivo che ha una frequenza di risonanza ad esso associata in un dato ambiente operativo. La geometria della struttura di supporto è micronizzata e determina la propagazione plasmonica superficiale dei polaritoni a una frequenza selezionata che è approssimativamente uguale alla frequenza di risonanza del sistema materiale. Come risultato gli elettroni pesanti sono all’interno di un materiale elettricamente conduttivo sotto forma di polaritoni che si propagano in un plasmone superficiale. La struttura descritta può esistere in particelle in geometrie bidimensionali, tridimensionali e anche geometrie frattali. Particelle sferiche (o quasi) vanno a risuonare ad una frequenza in cui la circonferenza della particella è uguale ad un multiplo della lunghezza d’onda. Analogamente particelle aghiformi, lunghe e sottili, possono risuonare in modi analoghi ad una piccola antenna quando la lunghezza  della particella è un multiplo intero di una metà della lunghezza d’onda. Le formazioni bidimensionali e tridimensionali sono composte da strutture periodiche o “array” che, in base alla progettazione, risuonano a frequenze specifiche. Esempi includono matrici triangolari, rettangolari, esagonali o cilindro-coni, dove la matrice, in presenza di energia immessa,  crea e rafforza una risonanza naturale alla frequenza desiderata sia nelle strutture solide che nelle microcavità superficiali delle strutture stesse. Il dispositivo partecipa alla produzione di elettroni pesanti e alla conseguente generazione di energia…La presente invenzione è adattabile ad una varietà di stati fisici e geometrie ed è scalabile in dimensioni diverse…L’energia prodotta può essere disponibile per un’ampia varietà di applicazioni (elettronica, automobili, aerei, navi, generazione elettrica, ecc.).
DA UN ARTICOLO DI    April 16, 2013 / Gregory Goble  SU   “COLD FUSION NOW”



Documento del ricercatore Nasa sulle LENR Dennis Bushnell: http://futureinnovation.larc.nasa.gov/view/articles/futurism/bushnell/low-energy-nuclear-reactions.html  http://futureinnovation.larc.nasa.gov/view/articles/futurism/bushnell/low-energy-nuclear-reactions.html

Marcia per la Terra - Forum Nazionale "Salviamo il paesaggio"

Il Forum nazionale “Salviamo il Paesaggio” propone – in concomitanza con l’Earth Day mondiale - una manifestazione generale pubblica a salvaguardia dei terreni liberi e fertili rimasti.
Si tratta di una grande Marcia per la Terra, che si terrà domenica 21 aprile, inPiemonteLiguriaVenetoLazioPuglia e Sicilia. In definizione anche il programma per la LombardiaLa marcia in Friuli Venezia Giulia è slittata al 27 aprile a causa del voto per le regionali. 
Il programma della Marcia per la Terra nelle varie regioni >

VIDEO SUL CONSUMO DI TERRITORIO

mercoledì 17 aprile 2013

LE MEGALOPOLI: COME CI STIAMO TRASFORMANDO

Nella foto: Honk Kong


Siamo "fortunati" noi uomini del XXI secolo, perché stiamo assistendo al più grande e rivoluzionario cambiamento della storia di Homo Sapiens. Cento anni fa vivevamo ancora in un mondo rurale (in Europa, figurarsi nel mondo) in cui vigevano la cultura ed i valori della civiltà contadina. Erano valori  che si erano formati nel corso di molti secoli e assicuravano una  certa stabilità nella visione del mondo e nella cultura.   In cento anni vi è stata una vera esplosione, una trasformazione economica, tecnica, culturale, sociale e ambientale senza precedenti: in una parola, è cambiata l'antropologia della specie  umana. Quale è stata la forza motrice di questo cambiamento apocalittico? (sono suonate realmente le trombe dell'apocalisse per noi uomini!). Metaforicamente si potrebbe individuare il punto di svolta nell'esplosione il 6 agosto del 1945 della prima bomba atomica sulla città di Hiroshima, ma si tratterebbe di una semplificazione. Il cambiamento era già in atto nel XIX secolo, anche se a ritmi più lenti. Dopo la grande guerra 1914-'18 tutto si è accelerato freneticamente. Le cause che hanno portato a questo cambiamento radicale sono state essenzialmente due: 1) Lo strapotere incontrastato della tecnica e 2) l'esplosione demografica. Negli stessi anni in cui le capacità tecnologiche dell'umanità erano metaforicamente rappresentate dal distruttivo fungo atomico e dai viaggi nello spazio, avveniva una spaventosa impennata dei tassi di crescita della popolazione che riguardava tutto il pianeta. In un secolo la popolazione mondiale è passata da uno a sette miliardi, un fatto senza precedenti e inimmaginabile agli inizi del '900. Solo successivamente si assisteva ad un relativo abbassamento della natalità nelle aree più sviluppate (Europa e Nord America) ma con i tassi complessivi in continua crescita considerando il pianeta nelle sue varie aree. I fenomeni migratori cui assistiamo ormai da decenni e la crescita frenetica delle città con il conseguente consumo di territorio specie nel dopoguerra sono l'epifenomeno di quella esplosione demografica. Questi cambiamenti hanno portato ad una modificazione strutturale dell'abitare dell'uomo sulla Terra. Alla civiltà contadina si è così sostituita la civiltà delle città e poi -negli ultimi decenni-  quella delle megalopoli. Le megalopoli saranno la forma strutturale che assumerà la nostra civiltà nel futuro. I processi economici e sociali che ne sono alla base sono ormai irreversibili e impossibili da fermare se continuano gli attuali ritmi di crescita demografica. La popolazione mondiale, secondo tutti gli studi statistici e sociologici, si concentrerà sempre di più in futuro nei grandi agglomerati urbani, e già oggi la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città. Tutto è collegato allo sviluppo tecnologico: la crescita delle megalopoli ha alla base lo stesso processo che ha portato allo sviluppo del web. Alla varietà si sta sostituendo l'uniformità culturale e organizzativa; al localismo subentra la globalizzazione; agli stati nazionali si sostituiscono le aree finanziarie in cui dominano il mercato e il consumo. La campagna tende a scomparire e il territorio si organizza in megalopoli e strutture viarie e di comunicazione che interconnettono le nuove realtà. Il verde della natura non ha più spazio in questa dinamica sociologica e culturale, ha perso il suo senso, se non quello di residuo da conservare in vetrina come uno spazio museale. O di area produttiva di prodotti agricoli sempre più costruiti artificialmente e fatti crescere chimicamente.  Le grandi masse umane generate dal boom demografico trovano così negli alveari delle megalopoli una nuova forma di organizzazione della vita, secondo nuovi valori assai più virtuali e instabili rispetto a quelli di poche generazioni prima. Dal punto di vista economico e sociale -dicono gli intellettuali del settore-  le megalopoli offrono possibilità di vita e di sussistenza assai migliori rispetto alle aree rurali, e consentono inoltre economie di scala che portano ad un miglior utilizzo delle risorse con minor dispendio di energia. La qualità della vita degli individui sembra migliore e gli indici che misurano istruzione, sanità, relazioni sociali e creatività sembrano tutti a favore della popolazione delle megalopoli. Ma non tutto va così bene. I tassi complessivi di inquinamento ambientale, atmosferico e delle acque presso le grandi città sono disastrosi. L'alienazione e la ripetitività delle azioni della vita quotidiana sono rigide come in un grande meccanismo che crea esclusione, alienazione e depressione. La megalopoli crea opportunità ma ingabbia la vita in schemi rigidi da cui evadere è possibile soltanto con la virtualità e la tecnologia.   Per capire come la nuova realtà delle megalopoli abbia dato origine ad un dibattito tra gli intellettuali in cui i più si schierano a favore dei nuovi cambiamenti riporto alcuni brani di un articolo apparso alcuni giorni fa su "La Lettura", supplemento del Corriere della Sera, sotto la voce: "Il dibattito delle idee".


Se non state per leggere questo articolo in spiaggia o in campagna, alzate lo sguardo: siete nel tuorlo dell’uovo. Perché siete in città e — pare — la città oggi è il centro del tutto. Meglio ancora: la «metropoli globale» è l’oggetto di attenzione delmomento. Il fatto urbano e le sue conseguenze sono i campi di studio emergenti più affascinanti e rivoluzionari nelle università e nei centri di ricerca di mezzo mondo. E si capisce perché. È in città che l’economia cresce, che le persone raggiungono alti livelli di istruzione, che la creatività sboccia, che le relazioni sociali fioriscono, che il patrimonio di intelligenza collettiva si accumula. Ed è dalle nuove megalopoli, luoghi di diseguaglianza sociale estrema, che uscirà un mondo forse più giusto. E possibilmente anche uno dei sistemi politico-statuali del futuro: Nassim Nicholas Taleb — l’inventore della teoria del Cigno nero, l’analista delle conseguenze degli eventi imprevisti — sostiene che nel giro di 25 anni gli Stati Nazione saranno sostituiti da città-Stato. Per alcuni happy few, d’altra parte, è già così.
La cosiddetta «classe dirigente globale» vola di città in città senza curarsi di quale Paese queste facciano parte. Si tratta di top manager, banchieri, artisti, star dello sport e del cinema, imprenditori e rispettive famiglie che simuovono per business tra Londra e Shanghai, fanno shopping a New York e Parigi, volano a Milano per il Salone del Mobile, fanno tappa a Dubai per un party e l’inaugurazione di una galleria d’arte. Per loro, le metropoli sono centri off-shore, non più legate al Paese e al territorio che le circonda: sono entità urbane che hanno costruito pezzi di se stesse interamente dedicati a questa élite globale dai grandi mezzi finanziari che vive come se non avesse nazionalità. È una classe nuova — o relativamente nuova — che guarda il mondo dall’alto: che arriva in aereo e osserva i canyon urbani dalla cima dei suoi grattacieli...
A.T. Kearney dice che queste città globali non sono necessariamente belle. Anzi. «Ma — aggiunge — sono affollate da coloro che stanno creando il futuro, rumorose per lo scontro di affari e di idee, frenetiche nella gara per stare avanti. Hanno soldi e potere. Sanno dove il mondo sta andando perché loro sono già lì. Essere una città globale è, in questo senso, una cosa splendida». Taleb prevede che lo sviluppo di queste entità, assieme alla trasformazione parallela che si produrrà nell’hinterland che le circonda, svuoterà di senso lo Stato Nazione, che rimarrà un elemento cosmetico indebolito dai deficit e dalle inconsistenze dei politici e delle burocrazie; creerà Stati negli Stati, o città-Stato, gestiti in modo impeccabile dal punto di vista dei bilanci; addirittura potrà provocare la nascita di nuove valute più stabili, legate a valori reali.
Saranno metropoli in concorrenza l’una con l’altra, aperte, attente alla qualità della vita e hi-tech: per attrarre denaro, competenze, talenti, creatività. Fondate sul concetto lanciato a inizio secolo da Richard Florida (e aggiornato l’anno scorso) delle «tre T» che una città deve mettere in campo per vincere nell’era della globalizzazione: Tecnologia, Talento, Tolleranza. A.T. Kearney ha anche creato, assieme al Chicago Council of Global Affairs e alla rivista «Foreign Policy», una classifica delle 65 città che possono fregiarsi già oggi dello status di «globale». Ai primi cinque posti: New York, Londra, Tokyo, Parigi, Hong Kong. Le capitali storiche del mondo ricco e la loro colonia di maggiore successo. Ma in crescita ci sono metropoli del terzo mondo ormai entrate nel circuito delle Urban Elite: Singapore, Seul, Pechino, Shanghai, Buenos Aires, Mosca, Dubai. (Le italiane tra le 65 sono Roma e Milano). E nei prossimi decenni molte altre si aggiungeranno: la popolazione del pianeta è ormai per ben oltre la metà urbana e nel 2025 lo sarà per il 60 per cento. La differenza la farà la capacità di attrarre competenze, scienza, cultura, denaro.
Nelle grandi megalopoli tuttavia cresceranno anche le grandi periferie, spesso bidonville, mal collegate, senza servizi, spesso in preda alla violenza urbana e con scarsa qualità di vita...Ciò nonostante, anche per la parte di umanità che vivrà nelle bidonville si apriranno opportunità che nelle campagne povere e superstiziose non sarebbero mai sbocciate. Mettersi un tetto sulla testa a Mumbai, anche se di cartone, significa già oggi avere accesso a un mondo di opportunità di lavoro, di educazione, di conoscenze e di rapporti nemmeno immaginabile nell’India rurale. Per non dire dell’apertura culturale e della tolleranza che il passaggio dalla campagna alla città si porta dietro. Per quanto problematica, ineguale e probabilmente fonte di conflitti, anche la fascia underground della città, forse soprattutto quella, sarà il grande motore del mondo. È stato calcolato che il 40 per cento della crescita globale dei prossimi 15 anni verrà da 400 città di dimensioni medio-grandi al momento quasi sconosciute. Già oggi, le cinque città a maggiore crescita sono Beihai (Cina), Ghaziabad (India), Sana’a (Yemen), Surat (India) e Kabul in Afghanistan.
È Il trionfo della città, titolo di un libro dell’economista di Harvard Edward Glaeser. Sottotitolo: «Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi, più smart, più verdi, più sani e più felici». Il cuore del suo ragionamento è che «le città esaltano le forze dell’umanità»: moltiplicano le interazioni personali, attraggono talenti e creatività, incoraggiano gli spiriti imprenditoriali, favoriscono la mobilità sociale. La densità è miracolosa. E le interconnessioni sono fondamentali...
Paul Romer — economista alla New York University, imprenditore e attivista politico — ha lanciato e in parte messo in pratica un’idea per molti versi collegata alla teoria di Taleb sulle città-Stato. A suo parere, soprattutto nei Paesi emergenti e nel Terzo Mondo, è antieconomico spendere energie per combattere la burocrazia, debellare la corruzione, sperare di introdurre regole di convivenza di tipo occidentale. Meglio costruire dal nulla città extraterritoriali, non sottoposte alle leggi di quel Paese ma a una tavola di regole (charter) sottoscritte e rispettate da chi ci va ad abitare. Charter cities le ha chiamate: soluzione radicale accusata di essere neocolonialista (Romer risponde che si tratta di una scelta che un Paese può fare o meno, non una costrizione). Il suo tentativo di applicare la teoria a un grande progetto in Honduras ha fatto passi avanti fino a un anno fa, ma poi si è infranto su scogli politici. Ciò nonostante, l’idea di città nuove costruite grazie a progetti e denaro di Paesi avanzati e modellate sulle esigenze del mondo del business sta facendo strada, siano esse aerotropolis ocharter cities: Singapore e la Cina stanno sviluppando progetti del genere.

(Da "La Lettura" -Corriere della Sera del 14 aprile 2013. Articolo di Danilo Taino).



Ps: ma siamo sicuri che nelle megalopoli la qualità della vita, compresa quella intellettuale sia migliore? Non rischiamo qui di ricreare, da parte degli intellettuali, una mitologia che è poi una ideologia che vede nel pensiero massificato e mercificato una forma più alta di pensiero? Siamo sicuri che la creatività degli abitanti delle megalopoli sia più ricca e varia rispetto a quella del passato, come affermano gli intellettuali favorevoli ad esse? Non sono molti, oggi tra gli abitatori delle grandi megalopoli, quelli in grado di scrivere, o solo pensare, un testo così profondo e così acuto come -ad esempio- il Teeteto  di Platone. Eppure fu scritto 2500 anni fa, in un mondo spopolato rispetto ad oggi, in una città di circa ventimila abitanti com'era l'Atene di allora. La produzione intellettuale degli abitanti colti delle megalopoli mi sembra, al confronto, assai misera cosa. Ma il discorso principale, che il Danilo Taino non affronta adeguatamente nel suo pur molto interessante articolo è un altro: Le megalopoli sono la forma che la civiltà occidentale -ormai diventata totalitaria nel pianeta- sta assumendo al tempo della sovrappopolazione. Il processo è inarrestabile e porterà ad una devastazione ambientale irreversibile. Lo stanno a dimostrare le immense nubi di gas e smog tossico che sovrastano le zone delle megalopoli in Asia, visibili dalle foto satellitari. Lo stanno a dimostrare le immagini di acque dei fiumi e laghi con colori che vanno dall'arancione al rosso vivo per la massiccia presenza di tossici chimici in Cina e India, e le morie di animali con migliaia di carcasse rinvenute nel corso dei fiumi o nelle foci. Lo stanno a dimostrare i milioni di malati e di morti per malattie respiratorie e vascolari, i tumori in costante aumento nei cittadini delle megalopoli. Lo sta a dimostrare il surriscaldamento del pianeta dovuto alle emissioni di CO2 delle città,  questi mostri di cemento che stanno ingoiando il suolo e continuano ad aumentare le richieste di energia bruciando gas, carbone e petrolio ogni anno di più. La nostra speranza di salvezza è una sola: fermare la crescita demografica il più presto possibile, o sarà la fine per la Terra.

lunedì 15 aprile 2013

LA MANIFESTAZIONE DI ORVIETO: L'ITALIA MINACCIATA DALLE PALE



Buona riuscita della manifestazione contro l'eolico ad Orvieto del 13 aprile scorso. Erano presenti molte associazioni ambientaliste contrarie agli impianti eolici e fotovoltaici in aree agricole, pastorali e  di alto valore paesaggistico. Riferisco brevemente sui principali interventi:
- Ha preso la parola il rappresentante dei comitati contro l'Eolico il quale ci ha riferito quali sono gli interessi in gioco: 12 miliardi di euro ogni anno, che noi paghiamo con la bolletta come contributi al finanziamento delle cosiddette rinnovabili. Una cifra gigantesca se paragonata ad esempio a quella dell'Imu sulla prima casa, pari a 4 miliardi. E pensare che tutti questi soldi pagati dai cittadini prendono in gran parte la via dell'estero, visto che la maggior parte del fotovoltaico e dell'eolico viene prodotto in Cina e Germania. Oppure vanno, specie per l'eolico, a interessi che orbitano intorno a organizzazioni mafiose.
- Interviene il rappresentante della Lipu per la Puglia che riferisce ciò che è accaduto con la Montagna di Morcone, nel massiccio del Matese, dove gli impianti eolici con torri alte 150 metri mettono a rischio l'attività agricola e la sopravvivenza di più di cinquanta aziende con 500.000 capi di bestiame e tutte le imprese dell'indotto (lavorazione dei prodotti agricoli, ecc.). Ugualmente grave è la situazione in Basilicata, per non parlare del Molise dove la devastazione riguarda luoghi di interesse archeologico come Sepinum. Con il territorio stanno distruggendo anche la nostra dignità ed identità, oltre il danno al paesaggio che è la risorsa di tanta nostra terra. Una legge recente permette purtroppo gli ampiamenti degli impianti esistenti e lo spacchettamento delle torri in altri territori limitrofi. E' urgente togliere gli incentivi a queste bande di speculatori e fare nuove leggi che proteggano il territorio come Bene pubblico inalienabile.
-E' la volta di Rosa Filippini che riferisce come questi mega-impianti eolici (e fotovoltaici) siano per lo più inutili ai fini energetici, in quanto producono energia elettrica in maniera discontinua, risentono delle condizioni atmosferiche del momento, non consentono l'accumulazione e l'uso di energia elettrica quando ce ne è più bisogno, sono costosi e necessitano di infrastrutture di grande impatto ambientale. Sottolinea che non tutte le associazioni ambientaliste sono a favore di eolico e fotovoltaico, sebbene la grande maggioranza degli ambientalisti siano acriticamente a favore del mito delle rinnovabili. Molti sono in buona fede, molti sbagliano, molti sono pagati per dire quello che dicono. Riferisce del sequestro da parte della magistratura di un milardo e seicento milioni a carico del produttore eolico Nicastri, che sta a dimostrare gli enormi beni economici di denaro pubblico in gioco, e come la corruzione e le speculazioni la facciano da padrone in molte zone d'Italia nel settore delle rinnovabili. La cifra sequestrata da un'idea di quanta ricchezza è possibile accumulare dietro il paravento delle sovvenzioni pubbliche.
- Interviene infine Ripa di Meana che riferisce delle speculazioni nel campo delle rinnovabili e dell'eolico di Baselice, del Sannio, e di quello che sta avvenendo (ed è avvenuto)  in Umbria. Vogliono distruggere il paesaggio, l'arte, il gotico. Vogliono distruggere l'Umbria etrusca e medioevale, una bellezza invidiataci da tutto il mondo che non può comporsi con 18 giganti di 160 metri, le pale rotanti, le infrastrutture, strade, contrafforti in cemento, centraline, elettrodotti ecc. previsti sul Peglia e i territori circostanti. Ci appelliamo a Concina, sindaco di Orvieto. "Già nel 2003-2004 si tentò di compiere l'orrendo misfatto a Perugia, sul monte Tezio, dove da parte del sindaco di allora e dell'assessore Rometti si tentò di alzare 22 torri di più di cento metri...ma allora Perugia si rivoltò. I cittadini assediarono il comune. Ora, sempre con la partecipazione di Rometti, si tenta di rifare il colpo a Orvieto. Ma se ciò accade, se ci riprovano inizierà il Vietnam e anche se sono ormai vecchio, parteciperò alla lotta insieme ai cittadini e a tanti giovani. Purtroppo il pericolo non è solo qui: è in pericolo la Toscana, è in pericolo il Lazio. Vogliono distruggere il nostro petrolio: il paesaggio Italiano, la bellezza della nostra terra. Vogliono mettere a rischio il reddito che viene dal Turismo, la vera ricchezza del nostro territorio. Ma li denunceremo per danno erariale, non ci fermeremo, non ci fermeranno".
-Intervengono altri rappresentanti dei comitati per la tutela del paesaggio delle varie regioni, tra cui quello della Campania e quello della Tuscia e dell'alto Lazio.

La riuscita della manifestazione è solo una tappa della battaglia che sarà ancora lunga. Purtroppo i poteri forti e l'informazione è in maggioranza a sostegno dello scempio rinnovabile. Gli interessi economici sono ancora troppo forti e le mafie ormai sono entrate nel giro di affari. Gli ambientalisti pro-rinnovabili fanno parte ormai di una ortodossia ideologica che rifiuta le critiche in maniera aprioristica, facendo il gioco degli speculatori. In mezzo c'è, come sempre, il povero territorio italiano massacrato da decenni di crescita demografica,  di demagogia politica e di rapina delle risorse pubbliche.

mercoledì 10 aprile 2013

IL MALE DELL'OCCIDENTE



Nel suo libro "Eichmann a Gerusalemme", Hannah Arendt ci descrive la figura di un uomo mediocre, si potrebbe dire un omuncolo, seduto sul banco degli imputati al tribunale di quella città, in qualità di unico imputato per aver deciso e diretto l'operazione con cui decine o centinaia di migliaia di persone furono avviate alle camere a gas durante l'olocausto. Si trattava di un uomo "normale". Era il funzionario nazista Otto Adolf Eichmann, a capo dell'organizzazione che eseguiva le deportazioni nei campi di sterminio. Ecco come la Arendt ne descrive la normalità:

"Mezza dozzina di psichiatri lo ha certificato come "normale" - "più normale, in ogni caso, di quanto non lo sia io stesso dopo averlo esaminato", esclamò uno degli esaminatori, mentre un altro aveva rilevato che il suo profilo psicologico globale, il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, il padre e la madre, le sorelle e gli amici fosse "non solo normale ma il più desiderabile".
Il problema, occupandoci di Eichmann, era esattamente che così tanti altri che si erano macchiati di questi crimini fossero come lui e che non risultassero più perversi o sadici dei loro essaminatori poiché erano terribilmente, spaventosamente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e del nostro criterio morale di giudizio, questa normalità era molto più inquietante di tutte quelle atrocità messe assieme."
(Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo).

Eichmann si giustificò nel processo, dicendo che egli era solo una minuscola rotella di un grande ingranaggio (lo stato nazista) e che egli doveva rispondere agli ordini dei superiori. Anzi, si giustificava  Eichmann, che nell'organizzazione generale egli non poteva avere coscienza di ciò che avveniva ai vari livelli. Così si annullava ogni responsabilità individuale, ma anche collettiva, nell'ottica di un grande disegno ideale, in cui le idee -totalitarie o no che fossero- erano più importanti degli uomini. L'uomo era ridotto ad ingranaggio e a res nullius. Carnefice e vittime erano reificati, resi cose tra le cose e come tali manipolati e distrutti come fossero materiali immessi e consumati nel grande macchinario dell'organizzazione moderna della società.
Può essere che quell'omuncolo, piccolo burocrate insignificante che risolveva le pratiche ordinando la morte di migliaia di persone, fosse l'epigono di un tipo di uomo nuovo, quello nato nelle contingenze della rivoluzione francese illuminista?
C'è uno straordinario film di Rohmer, La Nobildonna e il Duca, in cui è descritto in maniera magistrale la nascita del totalitarirmo giacobino durante la rivoluzione francese, e l'uomo nuovo rivoluzionario che con il Terrore diede inizio alla eliminazione fisica sistematica del nemico politico. L'uomo nuovo e le nuove idee, libere da credenze religiose e da strutture sociali superate dalla modernità, è ben descritto da Rohmer sia nel capo illuminato depositario della verità assoluta (Robespierre) che nel giovane funzionario giacobino a capo del comitato di salute pubblica, figura archetipica dell'estremista politico. Il conservatore britannico Edmund Burke, nelle sue "Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia", esprimeva la previsione di una deriva totalitaria e catastrofica cui avrebbero portato le idee rivoluzionarie francesi, se avessero imboccato -come stava accadendo- la via dell'abbandono totale delle tradizioni e dei valori che avevano retto il mondo fino ad allora,  consegnando il destino dell'uomo ad una ragione del tutto teorica e distaccata dagli eventi reali. Purtroppo tutte le vicende storiche del XX secolo sono state una triste conferma delle riflessioni di Burke.
Non dobbiamo illuderci che ciò che è accaduto nel XX secolo sia dovuto alle personalità patologiche di pochi individui come Hitler o Stalin. Purtroppo il male che ha infiltrato e stravolto la società occidentale ha radici ben più profonde e non ha riguardato solo i totalitarismi. Nel suo ultimo libro "Le Sorgenti del Male", il filosofo Zygmunt Bauman analizza l'evoluzione della società occidentale nell'ultimo secolo, cercando di ricostruire quello che è il fondamento della violenza e del male di cui l'Occidente ha dato prova e soprattutto verso cui sta avviando il destino del pianeta. Non si tratta solo del totalitarsimo nazista e comunista, avverte Bauman, ma di tutta la nostra civiltà. Basti pensare ai vincitori del conflitto mondiale e di ciò che hanno fatto a Hiroshima:

"Come avevano affermato i critici della versione ufficiale, i governanti del Giappone erano pronti ad arrendersi circa un mese prima che piovesse la prima bomba...Truman, però, temporeggiava. Attendeva i risultati del test che stava per essere effettuato ad Alamogordo, nel Nuovo Messico, dove erano in corso gli ultimi ritocchi per poi far esplodere le prime bombe atomiche. La notizia dei risultati arrivò a Potsdam il 17 luglio: non solo il test aveva avuto successo, ma l'impatto dell'esplosione aveva eclissato la più ardita delle aspettative. Così, riluttante a sprecare una tecnologia che aveva avuto costi esorbitanti, Truman cominciò a prendere tempo. La vera posta in gioco della sua procastinazione può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima ( 6 agosto 1945): "Abbiamo fato la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari - e abbiamo vinto!" ...
 Il 16 marzo 1945, quando la Germania nazista era già in ginocchio e una rapida conclusione del conflitto non era più in dubbio, Arthur "bomber" Harris inviò 225 bombardieri Lancaster e 11 aerei Mosquito con l'ordine di lanciare 289 tonnellate di esplosivo e 573 tonnellate di sostanze incendiarie su Wurzburg, una città di media grandezza con 107 mila abitanti, ricca di storia e di tesori artistici e carente invece di industrie...
Nella sua seconda lettera aperta a Klaus Eichmann, Anders parla della relazione tra lo Stato criminale nazista e il nostro regime globale contemporaneo: "L'affinità fra l'impero tecnico-totalitario che ci minaccia e il mostruoso impero nazista è evidente".
(Zygmunt Bauman: Le Sorgenti del Male" Erickson, 2013)

Purtroppo il male dell'Occidente non è dovuto all'impazzimento di pochi gerarchi e non corrisponde al vero  il fatto che il Terzo Reich sia stato un fenomeno isolato. Nelle nostre società occidentali contemporanee c'è un raccapricciante, macabro potenziale da cui non possiamo stornare lo sguardo. Basta vedere quello che stiamo facendo al pianeta nel momento in cui la globalizzazione occidentale si sta diffondendo ovunque. L'impianto tecnico e la massificazione dell'uomo e delle merci ha creato un mostruoso meccanismo sociale, politico, economico e tecnocratico che sta divorando tutta la Terra.  Non ci limitiamo più a distruggere gli uomini ( e la sovrappopolazione non è che l'altra faccia della stessa svalorizzazione e reificazione della vita umana), ma ci rivolgiamo al resto della natura distruggendo specie viventi animali e vegetali, alterando gli equilibri ambientali, intossicando l'aria, le acque, i terreni. Basta vedere come i campi di concentramento e di eliminazione siano ora rivolti agli animali con la stessa crudeltà con cui si procedeva alla morte tecnologicizzata delle persone in quelli degli anni 40 del XX secolo. Il male è profondamente radicato, si potrebbe dire "costitutivo", della nostra società contemporanea e richiede di essere combattuto con una nuova rivoluzione - prima di tutto etica- che rimetta tutta la natura al centro e ridia all'uomo la sua appartenenza.