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sabato 27 aprile 2013

I 70 anni che hanno cambiato l'Italia (e il mondo)



Dalla fine della guerra sono passati quasi 70 anni. In questo spazio di tempo è avvenuto il più sconvolgente cambiamento della storia dell'uomo, si è passati da una civiltà rurale ad una industriale e tecnologica. L'effetto più devastante è stata la spaventosa esplosione demografica che ha portato il mondo da due miliardi di abitanti nel 1945 ai sette milardi e mezzo di oggi. Alla base del rivoluzionario cambiamento che sta oggi minacciando la sopravvivenza del pianeta, sta l'affermazione globale dello strapotere della tecnica che ha portato alla fine del modello di vita contadino, alla urbanizzazione forzata, allo sfruttamento finale e totalizzante delle risorse naturali, all'inquinamento ambientale generalizzato fino al riscaldamento globale. L'effetto devastante sui luoghi di questo cambiamento è plasticamente rappresentato dalla cementificazione delle campagne e del paesaggio, con la sostituzione degli elementi naturali con una ininterrotta distesa grigia di cemento e di asfalto. Simbolicamente la perdita dell'anima dei luoghi accompagna così la perdita di senso della vita umana. Già alla fine del secolo XIX erano presenti gli elementi che avrebbero portato allo strapotere della tecnica, intesa come attività e produzione dell'uomo in funzione del proprio antropocentrismo, del ridurre cioè tutta la realtà naturale al suo dominio per la soddisfazione illimitata e totalitaria dei suoi bisogni, a danno dell'ambiente e di tutte le altre specie viventi. Nietzsche aveva parlato di "volontà di potenza" per indicare l'assenza di un fine e l'autodistruttività senza scopo dell'attività umana. Marx aveva tentato una operazione di "riduzionismo" filosofico riportando la questione ad uno squilibrio economico tra le classi, illudendosi che una società egualitaria e senza classi avrebbe risolto l'alienazione umana, un problema che aveva una causa ben più radicale. Alla base dell'alienazione sta infatti la perdita di un rapporto equilibrato e rispettoso tra uomo e natura, e la sua sostituzione da parte di una potenza tecnologica fine a se stessa che sta distruggendo la Terra e porterà all'annientamento dell'uomo stesso insieme a tutto il resto. Il frutto avvelenato che sta intossicando il pianeta non sta in un rapporto sbagliato tra uomo e uomo, tra ricco e povero, tra fedele e infedele, tra saggio e ignorante, ma sta nel pensiero stesso dell'uomo, per il modo in cui si è posto di fronte alla natura negli ultimi secoli, in un delirio antropocentrico di possesso e trsformazione di tutta la natura. Tutto è precipitato, in una folle accelerazione, negli ultimi decenni, a partire dal dopoguerra. Oggi il pianeta è minacciato direttamente dalle polluzioni dell'attività umana e il tempo rimasto è poco. In un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista Geophysical Research Letters viene riportata una stima del volume complessivo del ghiaccio dell'Artico usando, fra le altre fonti, i dati ricavati dal satellite Cryosat.   Si viene così a sapere che nel 1979 erano presenti al Polo Nord : 16.855 Km cubici di ghiaccio; nel 2012 la cifra si era ridotta a 3.261 Km cubici. Nello studio si parla del volume dei ghiacci, e non della superficie, quindi un dato ancor più preoccupante. I poli sono i sistemi che mantengono temperato il clima terrestre e fino ad oggi hanno tenuto sotto controllo il riscaldamento del pianeta e il livello dei mari.  Questi dati  sono campanelli di allarme, anzi sono sirene   a tutto volume che ci debbono svegliare dal torpore e indurci a correre immediatamente ai ripari. 

Questo cambiamento terribilmente veloce si è accelerato  in questi ultimi settant'anni. Il mondo è profondamente cambiato, non solo per l'avvento della televisione e poi del computer. E' cambiata tutta la mentalità, l'organizzazione della vita, i valori di riferimento. Come sottolineava Pasolini, si è trattato anche di un cambiamento antropologico, ci siamo trasformati noi come persone e oggi, una persona che viva al nostro tempo, è come un marziano rispetto ad una persona che fosse vissuta alla fine degli anni '30 del secolo scorso. Questo stravolgimento è molto evidente nel nostro paese, che è arrivato tardi alla modernità rimanendo fino a tutti gli anni '40 un paese prevalentemente rurale con una economia basata in maggior parte sull'agricoltura. Riporto di seguito alcune interviste ad alcuni anziani di alcune aree rurali del sud della Toscana, che hanno vissuto in prima persona quel cambiamento e, con i loro racconti, ci restituiscono l'entità della rivoluzione antropologica, economica e culturale che ci ha portato al mondo di oggi, per molti versi irriconoscibile e irriducibile a quello di allora. Questi racconti, raccolti da alcuni giornalisti locali per salvare la memoria di un certo modo di vivere, sono interessantissimi per darci la dimensione di ciò che è avvenuto e di come quel mondo di valori e di usanze sia stato completamente distrutto, peggio che dopo una guerra devastante. Ma a distruggerlo non sono stati i bombardieri americani o le cannonate tedesche, ma un ben più distruttivo potere tecnico che ha ridotto tutte le cose, compresi i paesaggi, le bellezze naturali, gli animali, le piante, e gli uomini stessi a cose da utilizzare e poi trasformare in rifiuti, in un circolo produttivo e consumistico privo di senso. Ma ciò che emerge da quei racconti è anche un altro dato, e cioè la natura irreversibile di quel cambiemento e il fatto che il futuro cui quella trasformazione ci sta avviando assume sempre più il significato di un "destino".  A coloro che, come in un nuovo  mito, ripetono salvificamente il mantra della decrescita, bisogna ricordare che quel mondo cui alludono i seguenti racconti appartiene al passato e non tornerà più. Il futuro è sconosciuto, ma non sarà quello dei nostri nonni e bisnonni. O forse dobbiamo ridefinire il concetto di decrescita, considerando che più che di decrescita economica si deve trattare di una decrescita della nostra posizione nel mondo, ridando spazio alla natura e alle altre specie viventi. La prima decrescita deve essere quella demografica, per ridare "spazio" al resto della natura, diminuire gli inquinanti, far rientrare la produzione a livelli inferiori  bastanti per un numero inferiore di persone. Poi dobbiamo cambiare il modo di pensare dell'uomo. far decrescere la nostra smisurata ambizione ed arroganza verso le altre specie viventi e far crescere  nuovi valori etici  di rispetto verso la natura e la bellezza del mondo.


RACCONTI DI ANZIANI CONTADINI

Un uomo: "Mi chiamo...e sono nato nel 1920 in una piccola frazione del comune di Città della Pieve. La mia famiglia proviene dal mondo agricolo: siamo sempre stati mezzadri. Mia madre aveva lavorato fin da piccola nei campi e non era mai andata a scuola. Anche gli zii non sapevano leggere e scrivere. Nel paesino  c'era solo la scuola rurale fino alla quarta elementare. Io già a sei anni avevo iniziato a lavorare nei campi. Allora c'erano pochi diritti e molti doveri. Mio nonno era il capoccia che guidava la nostra famiglia patriarcale, che prendeva tutte le decisioni. Per la verità, le prendeva insieme a mia nonna, che era davvero in gamba per quei tempi. Era l'unica donna della famiglia che aveva studiato: aveva frequentato addirittura la quinta elementare, che allora era davvero un privilegio di pochi...Mio nonno aveva cinque figli e nessuno era andato a scuola. Io - a parte mia nonna- sono stato il primo a saper leggere e scrivere, e mio nonno spesso mi chiamava quando andava dal padrone, per aiutarlo a capire...Allora il datore di lavoro si chiamava padrone. Oggi sembra assurdo, ma allora il proprietario della terra era in un certo senso anche il padrone della tua vita. Ricordo che mio nonno a volte ci nascondeva sotto il letto, perché il padrone diceva che, anche se eravamo ragazzi, dovevamo lavorare e non voleva vederci in giro nel podere...
Io da ragazzo non mi ricordo che mi sia divertito: a cinque, sei anni dovevo andare a guardare le pecore o i maiali, magari insieme alla mamma...Allora, quando ero giovane io, quasi tutti gli animali che venivano allevati nelle fattorie, nelle aziende, venivano mandati al pascolo: dai maiali ai tacchini, dalle mucche alle pecore, alle capre, alle oche...Allora i bambini piccoli cominciavano presto ad andare a pascolare questo bestiame; all'inizio andavano accompagnati dai genitori, da qualcuno più grande, poi dopo, a mano a mano che crescevano, andavano da soli. Questa è stata la nostra infanzia, senza nessun divertimento, nessun gioco...Poi c'era la consuetudine, durante soprattutto il periodo invernale con le giornate molto corte e le notti molto lunghe, di andare a veglia, cioè si andava una sera presso una famiglia, poi la sera dopo o dopo due sere a casa di Capoccia, poi a casa di un altro...Ci si riuniva diverse persone a parlare di tutti i problemi. Questo sistema di andare a veglia era un sistema per tramandarsi quelle che erano le esperienze di ogni uomo, di ogni donna, di ogni famiglia, di ogni zona. Un modo per raccontare il passato e il presente e pensare al futuro; per ricordare un po' ai giovani e ai meno giovani quella che è stata la vita, perché allora la maggior parte erano analfabeti, non è che qualcuno poteva leggere e informarsi in altri modi...Ricordo questo calore umano che c'era fra i contadini: era una cosa che si sentiva, si sente ancora.

Una donna: " Sono nata nel 1931, figlia di mezzadri. Nel podere eravamo in dodici, appartenenti a due famiglie. Ci si svegliava la mattina alle quattro e si andava a letto alle undici. Al podere non c'era acqua, non c'era strada, non c'era luce, non c'era niente di niente. L'acqua potabile noi andavamo a prenderla alla Massubilla, a orce, a brocche e dalla Massubilla al Gamberaio erano chilometri di strada. Si produceva un po' di vino, un po' di grano e pochissimo olio. Non si pativa tanto la fame prima del fronte (prima del passaggio del fronte durante l'ultima guerra, ndr), ma "nsomma un c'era da scialacquà...". Dai sette fino ad una quindicina d'anni si lavorava badando agli animali, poi si lavorava come i grandi. Si mangiava la mattina, poi si faceva la merenda (il pranzo si chiamava così), che consisteva in un piatto di minestra di fagioli, con quattro fagioli che ti davano uno dietro l'altro, una manciata di tagliatini e poi una fetta di pane; quando c'era l'uva matura, avevamo anche l'uva, o una piccola mela. Poi si mangiava alle 18 il cuculo, biscotto fatto con l'ammoniaca, latte e farina che per di più si usava al tempo della mietitura. Noi ragazze aiutavamo la massaia che si occupava della dispensa e del pollaio: si faceva il pane, il formaggio, e si rigovernava lavando i piatti a turno e se era avanzato da fare qualcosa si lavorava anche la notte. Il piatto tipico erano i pici, senza uova perché queste si dovevano vendere, o i frascarelli...I nostri divertimenti erano pochi: per Carnevale si andava a ballare nelle case dei contadini vicini, una volta da uno, una volta da un altro e la domenica ci radunavamo a ballare nell'aia o in una concimaia...L'inverno poi, quando era Natale, il migliore cappone bisognava portarlo in fattoria per il padrone e anche la ricotta una volta la settimana...A quei tempi le pecore la lana "la buttavano poca", non era come ora, perché l'inverno pativano la fame e si pelavano tutte: la lana gli cascava, andava a finire tutta a biocchi (batuffoli) nel bosco! Noi la filavamo gratis nei momenti di riposo dei mesi estivi all'ombra delle piante e metà andava a loro (i padroni) e poi, dopo che l'avevano fatta tessere e cucire, guardavamo i vestiti addosso a loro fatti con la nostra fatica. Prima che mi sposassi funzionava così: se oggi ci facevano le scarpe domani ci facevano il vestito; poi ci si passava il vestito dall'una all'altra...Io ho fatto la prima comunione con il vestito della comunione di mia sorella. Le scarpe ce le passavamo e quando arrivavano a noi più piccine erano sfondate e rotte. Gli zoccoli ce li facevano i nostri genitori con le tomaie delle scarpe a cui rifacevano il sotto di legno e, secondo me, ci si stava meglio che con le scarpe vere.

Un mugnaio, nato nel 1927: "Le condizioni delle case coloniche erano pessime perché mancava l'acqua, mancavano la luce, le strade, i servizi igienici; basta dire che era controllabile da sopra se la vacca stava partorendo: si toglieva un mattone e sotto si vedeva tutto (la stalla era tipicamente al piano terra, sotto la camera da letto, ndr). Le finestre c'erano solo per modo di dire, perché i vetri erano quasi sempre rotti ed erano rimpiazzati da lamiere o da cartoni inchiodati. Per quanto riguarda le porte, il gatto automaticamente passava sotto e girava e faceva quello che poteva fare nelle case. Quando pioveva, entrava acqua in abbondanza nelle case e tutti i secchi, i catini, le scodelle venivano utilizzati: in qualche modo si doveva correre ai ripari, ed erano messi anche sopra i letti per raccogliere l'acqua che enrava dal tetto. Si faceva luce con un piccolo lumino ad olio, a due metri già non si distingueva più chi era lì vicino, dal fumo che faceva; al mattino, quando ci si alzava, si dovevano pulire le narici che erano tutte nere. Però dopo qualche anno inventarono la citilene al carburo, questa fu una delle meraviglie del mondo. Se si deve raccontare quale fosse l'abbigliamento mi viene da piangere: le toppe dei pantaloni erano una sopra l'altra: a volte non si riconosceva la stoffa iniziale. Le scarpe erano gli zoccoli, quelli rotti si tenevano nei campi per lavorare; quelli un po' meglio per andare alla processione. I giovani contadini che intendevano fare una famiglia con le donne del paese portandole con loro in campagna, incontravano grandi difficoltà, perché gli abitanti del borgo sapevano le condizioni dei coloni e non lasciavano adito a speranze. E se qualche ragazza di paese aveva il fidanzato in campagna la sua famiglia gli cercava un lavoro diverso, anche se non era così facile perché una legge fascista vietava al colono di abbandonare la terra per lavorare altrove. Non poteva, infatti, avere il libretto di lavoro prima di tre anni dall'abbandono del podere. Le donne erano presenti tutta la giornata a fianco dell'uomo e si assentavano solo per qualche faccenda in casa e per preparare il mangiare. Il menù del giorno è presto detto: un pochino di caffé fatto con orzo raccolto e abbrustolito e per i più piccoli misto con un pochino di latte di vacca, se questa allattava. Verso le nove e mezza si mangiava la polenta con qualche ritaglio di suino. Poi, intorno alle quattordici, gli gnocchi di patate oppure pasta fatta in casa, poche uova e parecchia farina per riempire la pancia. La sera si apparecchiava secondo le persone, di consuetudine erano tre vassoi d'insalata mista, con pomodori se era stagione, a disposizione lungo la tavola. Ognuno prendeva la forchetta e cominciava col vassoio più vicino. Poi c'erano uova lesse, che erano contate. 

Un mezzadro nato nel 1926: "Passato il conflitto molte fattorie furono vendute, e con esse gli animali. Ai mezzadri non venne niente per la vendita. Così cominciarono le rivendicazioni contadine, prima per il 53, poi per il 60 % del prodotto. Nel dopoguerra ci fu il bestiame a conferimento, ossia, pagando la tua parte, ne diventavi proprietario. Durante e dopo le lotte contadine cominciò lo spopolamento delle campagne, che fu un danno per l'economia nazionale intera. Forse se invece di maltrattarci ci avessero dato qualcosa, può darsi che parecchi ancora erano nelle campagne; invece hanno risposto talmente male che la gente che s'era sacrificata una vita cercò di migliorare la situazione buttandosi nell'edilizia, nel commercio, in quello che sembrava più conveniente..."

Una donna di una famiglia di mezzadri, nata nel 1935: "...c'era tutto il grano da mietere e si mieteva a mano, non c'erano le macchine come ora. Dell'esperienza di ora, che c'è la radio, la televisione, c'è tante cose e si sente tutto, posso dire che allora della guerra non si sapeva niente. Il compito dei bambini era di guardare le bestie  e di andare a scuola. Normalmente si andava alla scuola elementare, ma per le famiglie di contadini era faticoso; per me erano dieci minuti dal paese, ma alcuni ci mettevano un'ora...dovevano avere tanta voglia di studiare, unita alla volontà delle famiglie...Quando si tornava a casa c'erano i maiali e le pecore da accudire. La domenica non si lasciava mai la messa delle undici e d'estate si portavano fuori la mattina presto le bestie, poi si rientrava, si faceva colazione, ci si vestiva e  andavamo alla messa. Finita la funzione passeggiavamo in piazza con le amiche: questo era l'unico svago. Altro compito era aiutare anche un po' in casa le donne a fare il mangiare, perché per esempio quando si mieteva eravamo tanti e allora si doveva cucinare e portare il mangiare nei campi. Quando era il momento della semina gli uomini facevano a turno uno per mattina ad alzarsi alle tre per far mangiare le bestie, perché ci voleva un paio d'ore, anche due ore e mezza per far mangiare una bestia vaccina, e poi, appena giorno, via a seminare! Fino al buio. Si mieteva con la falce fienaia, poi si rigirava il grano per farlo asciugare e si facevano i mucchi e poi nell'aia si faceva il pagliaio, che era difficile da fare: ci si passava la forca in tre o quattro su per la scala per accimarlo.  Si faceva anche di pula il pagliaio, col rastrello. Si facevano scambi tra le famiglie, a trebbiare più che altro: infatti la trebbiatura era tutta a scambi e, quando trebbiava un contadino, andavano tutti quelli delle famiglie vicine; poi, man mano, ci si scambiava, andando dagli altri. Nell'orto i lavori più pesanti li facevano gli uomini, i più leggeri le donne. Il formaggio di pecora lo facevano sempre le donne, fresco o stagionato. Dei prodotti della campagna non si buttava niente: quando si potavano gli ulivi, ad esempio, si sceglievano le fraschette per darle a mangiare alle vacche e lo stesso si faceva con le foglie del granturco. La mia mamma era una donna meravigliosa. Sapeva cucinare con poco; non abbiamo mai patito la fame anche se c'era poco. La mia mamma, oltre che andare sempre nei campi, cuciva per tutti: dai pantaloni degli uomini alle mutande, ai vestitini per me e mia sorella più piccola. Faceva il pane e la ciaccia con l'uva secca. Faceva il bucato con la cenere  e poi il giorno dopo lo sciacquava in una pozza e se c'era il ghiaccio si rompeva con un sasso e si lavava. Altro che lavatrice! Un altro particolare: quando partoriva una donna, in casa si intende, la levatrice veniva a piedi o altrimenti andava a prenderla un uomo della famiglia con il carro dei buoi. Il bambino, a volte era già nato quando arrivava la levatrice: meno male che allora nelle famiglie o nel vicinato c'era sempre una donna esperta che sapeva come comportarsi in tale occasione...il bambino veniva fasciato con pezzi di lenzuolo vecchio: altro che pannolini! Se la donna aveva abbastanza latte, o se c'era una vacca che dava latte al vitello, allora veniva preso a balia un bambino di ricchi. Quest'ultimo riceveva più latte del proprio figlio, perché i suoi genitori lo volevano vedere bello e paffuto, altrimenti non pagavano".

(Da "Sguardi e memorie diverse nel tempo del cambiamento" con prefazione di Rosario Villari. Edizioni Emmecipi).

4 commenti:

  1. Caro Agobit, io non credo che potremo sfuggire ad una decrescita della produzione economica, e questo a causa del picco dei combustibili fossili, del picco delle materie prime e dell'aumento quasi inarrestabile dell'inquinamento.
    Non sarà piacevole, perchè la decrescita economica, nonostante l'ottimismo dei suoi sostenitori, non sarà affatto felice; però mi pare inevitabile.

    A questo punto, credo che siano possibili solo 2 scenari:
    1 - Decrescita della produzione + crescita della popolazione = disastro sociale, con la gente che si scannerà nelle strade per strapparsi le poche risorse disponibili.
    2 - Decrescita della produzione + decrescita della popolazione = si potrebbe trovare un punto di equilibrio ragionevole, perchè la torta sarà più piccola, ma sarà necessario tagliare meno fette.

    Io spero tanto nella seconda opzione, ma temo terribilmente nella prima.

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  2. Concordo con quanto dici. Aggiungo che la decrescita deve riguardare, in campo economico, settori specifici. Per fare un esempio, quello dell'edilizia e delle infrastrutture. Non però quello della ricerca tecnologica e dell'informatica o della ricerca sulle nuove energie. C'è inoltre un problema: chi deve gestire i processi decisionali per attuare la decrescita? Da liberale, tremo all'idea che debba farlo lo Stato. Rischiamo di ricreare un totalitarismo, come è avvenuto nel XX secolo con l'ideologia dell'uguaglianza. Forse ci vuole prima una rivoluzione interiore che riguardi il pensiero e la nostra visione del mondo. Cosa che, in piccola parte, nel nostro piccolo e in quello di tanti altri sta già avvenendo.

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  3. Caro Agobit, direi che hai toccato proprio il cuore del problema.
    Io sono un sincero democratico, come te, ma ho il timore che i processi decisionali della democrazia, come la conosciamo oggi, siano inadeguati alla svolta di paradigma che ci aspetta.
    D'altra parte la dittatura o anche solo l'oligarchia non possono essere una risposta accettabile, e tanto meno tranquillizzante.

    Non vorrei che il cambio di paradigma, come "sottoprodotto" non voluto, possa portare con se il tramonto della democrazia.
    In fondo, nella storia complessiva della civiltà, la democrazia ha uno spazio molto modesto.
    Forse è un lusso che non ci potremo più permettere.
    Che tristezza !

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  4. La democrazia non è altro che un mito. Funzionava in città (non campagne)i cui abitanti si conoscevano quasi tutti tra loro e si incontravano per strada almeno una volta per settimana. Oggi la democrazia rappresentativa non permette di scegliere tra onesti e disonesti, capaci ed incapaci, ambiziosi ed idealisti.In particolare per l'Italia, in nome del mito democratico e dell'inevitabile compromesso tra "progressisti" e "clericali" del 1948, abbiamo una Costituzione per la quale il Paese non era e non è tuttora maturo !! Quando un Paese (non il nostro) conquista l'indipendenza pur essendo rimasto allo stato tribale, che fa? Ovviamente si modernizza adottando una Costituzione meravigliosamente democratica. Avviene quindi che telefona a dei giuristi di Londra, commissiona un fantastico testo di costituzione anglosassone, lo riceve, lo paga, lo fa votare dai capotribù e.....voilà, è pronto ad entrare nel consesso dei Paesi evoluti. Ci sarebbe un'utopia: la Repubblica dei Sette Poteri (Propositivo, Legislativo, Rappresentativo, Esecutivo, Giudiziario, Comunicativo, Arbitrale)..... ma questa è un'utopia lunga a spiegarsi e noiosa ad ascoltarsi. Statemi tutti bene.

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