E’ uscito qualche mese fa l’ultimo libro di Latouche e altri intellettuali francesi “obiettori di crescita”, come si definiscono. Riporto una parte del capitolo con l’intervento di Yves Cochet:
LA CATASTROFE IMMINENTE di Yves Cochet
L’ipotesi di discontinuità che io prospetto è che, prima del 2020, una catastrofe globale trasformerà profondamente il corso delle cose. Tenendo conto che la coesione sociale è molto diminuita e l’individualismo è molto aumentato a partire dagli anni sessanta, la mia ipotesi è che questa catastrofe avrà un effetto destrutturante su una società francese che reagirà come una massa poco coesa e non come la folla rivoluzionaria che diede l’assalto alla Pastiglia nel 1789, quando i pericoli incombenti rafforzarono la sua forza vitale. Ed è verosimile che anche le altre società europee reagiranno allo stesso modo.
Che tipo di catastrofe potra provocare il caos? Non necessariamente si tratterà di un avvenimento unico e spettacolare, ma più probabilmente di una sinergia di numerose rotture a livelli differenti, ma collegati dalla globalizzazione. Penso soprattutto al crollo del sistema finanziario mondiale, unito al declino della produzione petrolifera e a qualche cataclisma climatico, ecologico e geologico di grandi dimensioni. Anche se è impossibile calcolare la probabilità di questi disastri paralleli, il fatto che si verifichino contestualmente mi sembra abbastanza plausibile da obbligare a mettere questa prospettiva al centro di qualsiasi politica per il decennio a venire. Le politiche preventive che cercherò di delineare sono comunque valide, in quanto contribuiscono a “ridurre le disuguaglianze” o piuttosto a tentare di salvare la pace, la democrazia e la solidarietà. Il primo dovere di un responsabile politico è di proteggere le popolazioni di cui pretende di occuparsi. La catastrofe è inevitabile, tentiamo di ridurne le perdite umane.
La catastrofe non si può evitare? E perché? Per due ragioni principali. La prima è la lentezza con cui cambiano le idee e i comportamenti in ogni società, in tempi normali. La società è un sistema dinamico di percezioni incrociate tra individui: io mi rappresento come gli altri si rappresentano le cose e me stesso. Ciò che determina le credenze e i comportamenti di un individuo è l’interazione con l’altro, l’adattamento continuo alle idee e alle reazioni degli altri, l’imitazione e la rivalità, il coordinamento e la differenziazione al tempo stesso…Si capisce come mai l’evoluzione delle credenze e dei comportamenti all’interno della società sia lenta e di lungo periodo, tranne nei casi di avvenimenti dirompenti (guerra, catastrofe…). Questa inerzia sociale ormai è incompatibile con l’urgenza ecologica. La dinamica di degrado dell’ambiente naturale è più rapida dell’evoluzione delle credenze e dei comportamenti umani. La seconda ragione è in parte legata alla prima: se, malgrado l’inerzia sociale, un evento di grande dirompenza trasformasse rapidamente la nostra rappresentazione del mondo e dunque una società intera cambiasse profondamente alcune credenze, è possibile che tale società riesca anche a cambiare rapidamente e profondamente i propri comportamenti negli ambiti che dipendono soltanto da un accordo tra umani, ma è escluso che possa farlo in quegli ambiti che dipendono dalle risorse naturali. Ad esempio, è possibile introdurre una nuova e rigorosa regolazione del sistema finanziario (chiusura delle Borse?), o una nuova fiscalità molto più onerosa per i ricchi (una fascia superiore dell’imposta sul reddito dell’ 80 %?). Ma è più difficile immaginare che la stessa società possa cambiare rapidamente e profondamente i propri comportamenti negli ambiti che dipendono dalle sue relazioni vitali con le risorse naturali. Ad esmpio, dimezzare l’uso dell’automobile, dei camion e degli aerei, convertire metà della PAC (Politica Agricola Comune) all’agricoltura biologica, ridurre i consumi energetici della maggioranza degli immobili a 50 kWh per metro quadro all’anno, e tutto ciò in cinque anni. In questi settori lo scontro non è tanto tra umani quanto con le risorse naturali, le quali sono mute, ma si degradano e diventano rare.
La natura non ha nessun rapporto di forza con gli umani, la natura non negozia. La forza e la debolezza del mondo non umano stanno in questo: è un mondo che evolve secondo dinamiche che gli sono proprie, insensibili alle opinioni, ma oggi è talmente sconvolto dalle attività umane che le sue dinamiche cambiano senza che sia possibile governarle. In due secoli l’umanità produttivista ha esercitato un’azione tellurica sulla natura, (tanto che gli scienziati propongono di chiamare l’epoca geologica attuale Antropocene) e le conseguenze di tale azione per un verso sfuggono al suo controllo e per un altro verso retroagiscono sul suo benessere, distruggendolo come per vendetta. In poche parole, il finanziario e l’istituzionale si possono regolare abbastanza facilmente: dipende soltanto dai rapporti di forza, dal dialogo, dalle rappresentazioni degli umani. Dipende interamente dalla nostra volontà/immaginazione/rappresentazione, dalla nostra disponibilità al compromesso, dalle trattative tra di noi. Mentre l’infrastrutturale e l’ecologico non dipendono soltanto da noi, dipendono anche dalla dinamica dell’ecosfera, che sfugge al nostro controllo e che abbiamo gravemente compromesso.
Il tempo è contato. Nella visione secessionista e discontinuista, l’imminenza della catastrofe porta a una riduzione drastica dei tempi necessari per introdurre le riforme che si propongono. In questo senso, il progetto di legge francese sulle pensioni, approvato nell’ottobre 2010, non è soltanto ingiusto dal punto di vista dei suoi principi socioeconomici, ma è soprattutto non realistico nella sua concezione stessa, fondata su un rapporto del COR (Conseil d’Orientation des Retraites) pubblicato nell’aprile 2010. Questo rapporto basava i suoi calcoli più pessimistici su una crescita media annua dell’ 1,5 % fino al 2050, cioè su un aumento del 100 % del PIL in questo orizzonte temporale. Oggi come si può avanzare seriamente un’ipotesi del genere? Evidentemente gli autori del rapporto sono persuasi che l’economia sia una scienza che presuppone che la crescita sia soggetta a diversi cicli corrispondenti a periodi più o meno brevi. Dunque, poiché le fasi di questi cicli possono essere più o meno negative o positive a seconda delle date che si scelgono, basta aspettare e adottare qualche misura appropriata per uscire dalla crisi. Quel che è certo è che nessuno degli autori del rapporto condivide il punto di vista ecologista che io sostengo, in particolare riguardo alla assoluta peculiarità della situazione attuale. Gli “obiettori di crescita”, ai quali appartengo, a volte ricorrono a questa citazione del grande Albert Einstein: “Non possiamo risolvere i nostri problemi con il pensiero che avevamo quando li abbiamo creati”. In altre parole, soltanto uno sguardo nuovo sugli affari del mondo può far comprendere, o risolvere, i problemi attuali. L’ambizione dell’ecologia politica è di far emergere lo sguardo che può salvarci, in particolare la visione di una urgenza che accorcia i tempi. Urgenza che, più precisamente, si divide in due postulati: è troppo tardi per evitare la catastrofe, ma più in fretta agiremo, più riusciremo a ridurre la violenza dell’impatto.
E’ arrivato il momento di introdurre il termine “decrescita”, oggetto di tante interpretazioni e polemiche. La maggioranza degli “obiettori di crescita” presenta la parola “decrescita” come un’arma linguistica contro il conformismo intellettuale e politico. Si tratta di scuotere, provocare, spingere a riflettere all’interno di un altro quadro. Bisogna “decolonizzare l’immaginario”, dice serge Latouche. In che senso? Perseguendo l’obiettivo di una società di sobrietà e di condivisione,nella quale l’impatto ecologico dei paesi industrializzati si ridurrebbe fortemente, mentre i paesi del Sud troverebbero una strada diversa da quella della crescita, del produttivismo e dell’industrialismo per soddisfare i loro bisogni e i loro desideri. Dato che le ricchezze naturali sono in quantità finita – e alcune, non rinnovabili, prossime all’esaurimento -, l’unica soluzione per vivere in pace è la loro ripartizione equa tra tutti gli umani. Questo progetto ripropone le questioni della giustizia sociale e dei rapporti Nord-Sud su base ecologica, superando dunque la critica puramente economica della sinistra tradizionale, che auspica una giusta redistribuzione di una produzione di ricchezza sempre maggiore. E’ un progetto che rinnova anche la democrazia, attraverso una partecipazione attiva dei cittadini, nonché la Repubblica, puntando sui valori di autonomia, di solidarietà e di responsabilità globale. Come si vede, la decrescita è qualcosa di completamente diverso dall’opposto aritmetico della crescita, cioè la recessione. Tuttavia, sebbene a priori non vi sia un rapporto di casualità tra il progetto di civiltà promosso dalla decrescita e la recessione economica, ritengo che la seconda sia un passaggio inevitabile in direzione di qualsiasi società della decrescita. O meglio, come ho indicato in precedenza, è probabile che sarà la recessione incombente –o la depressione- dell’economia liberal-produttivista a determinare la scossa decisiva per l’avvento della decrescita in quanto progetto accettato dalla maggioranza, piuttosto che il proselitismo dei militanti della decrescita liberamente scelta e della frugalità volontaria. In effetti, come Marx, sono convinto che siano le circostanze materiali a determinare la coscienza e non l’inverso. La nostra esistenza sociale non è determinata dalla nostra coscienza, ma dipende piuttosto da una realtà che non controlliamo: i rapporti di produzione per Marx, la geologia per me.
(La catastrofe imminente, Ives Cochet su: Dove va il Mondo? Edizioni Bollati Boringhieri, 2013, pagg. 32-40).
Il nuovo libro di Latouche si avvale della collaborazione di altri tre intellettuali francesi, tra cui l’ex ministro Yves Couchet, di cui riporto qui sopra una parte dell’ intervento. Gli intellettuali “obiettori di crescita” sono d’accordo nel denunciare l’irreversibilità della crisi del modello liberal-produttivista e ci avvertono che abbiamo di fronte un baratro a cui il pianeta è avviato. Cochet parla apertamente di catastrofe imminente, e giudica la crisi finanziaria in atto in Europa e nel mondo come una semplice avvisaglia di ciò che ci attende. Dobbiamo correre ai ripari con la decrescita ma le resistenze della maggioranza dei popoli potranno essere superate solo dopo che la catastrofe, di cui la recessione odierna è un sintomo iniziale, sarà avvenuta. Nessuna delle politiche neoliberali ci potrà salvare, dicono gli intellettuali, e ci invitano a cambiare mentalità verso la nuova ottica della decrescita. Cochet fa degli esempi concreti: dimezzare l’uso dell’automobile, dei camion e degli aerei, convertire l’agricoltura intensiva in agricoltura biologica, ridurre i consumi energetici. Ovviamente, anche in questo nuovo libro di Latouche e soci, non si parla della decrescita demografica. L’argomento, come ben sa chi conosce il pensiero di Latouche, è tabù e chi ci si avventura rischia l’accusa di nazismo. Si finisce così per girare intorno ai problemi senza arrivare alla sostanza. La crisi riguarderebbe il modello economico liberale e la soluzione è semplice: decrescere nei consumi e nel PIL e assumere comportamenti solidaristici e di socialismo reale, restituendo allo Stato il ruolo di grande regolatore di tutti gli aspetti dell’economia e della vita delle persone. La realtà costituita dalla spaventosa esplosione demografica che ha riguardato il pianeta negli ultimi cento anni portando il numero di umani da uno a sette miliardi viene così rimossa e nascosta. Per gli obiettori di crescita il problema non esiste. Si guarda solo all’economia, all’eccesso di consumi e alle diseguaglianze.
Tutto il processo della decrescita dovrebbe riguardare sia (in primo luogo) il mondo occidentale sviluppato, sia i paesi in via di sviluppo. L’idea, un poco giacobina e molto marxista, che sta alla base del pensiero della decrescita è che la politica e l’economia possono essere guidate verso gli obiettivi razionali della decrescita attraverso le opinioni e i suggerimenti illuminati degli intellettuali “obiettori di crescita” per lo più francesi ( con un retropensiero alla rivoluzione del 1789). Le soluzioni semplici affascinano le menti deboli, diceva Popper. Si da per scontato che i processi economici funzionino secondo modelli razionali semplici e che le decisioni burocratiche prese da organi dello stato possano guidare processi complessi verso obiettivi prestabiliti a priori. Prendiamo ad esempio il dimezzamento dell’uso dell’automobile e degli aerei proposto da Cochet. Ciò significa dimezzare il mercato dell’auto e dei viaggi aerei. Significa la fine (ottimisticamente: la riconversione…) di milioni di posti di lavoro, la perdita di investimenti, di ricerca tecnologica, la crisi economica di interi paesi – si pensi al turismo, all’indotto, ecc. Certo, potremmo mettere operai delle auto e lavoratori degli aeroporti a coltivare campi biologici…ma la cosa non è tanto semplice. Inoltre ci potrebbero essere resistenze di popolazioni, intere nazioni avviate da poco allo sviluppo potrebbero non accettare modelli di minori consumi. Perché i cinesi dovrebbero rinunciare all’auto e tornare, in gran parte, alle biciclette? La lezione della decrescita è indigesta per i popoli, ed infatti Cochet prevede che prima che si assumano comportamenti reali di decrescita, sarà purtroppo necessaria una catastrofe planetaria. Ma a quel tempo non sarà troppo tardi? Probabilmente, risponde Cochet, ma non ci sono alternative.
Personalmente ritengo che il problema dei decrescitari risieda in una diagnosi sbagliata. Alla base della corsa verso la distruzione planetaria non sta il capitalismo, né la disuguaglianza, né il produttivismo. Accusando l'organizzazione dell'economia rimaniamo ancora in superficie. Questi comportamenti economici hanno a fondamento un pensiero sbagliato: sono prodotti di un atteggiamento di fondo dell’uomo che vede nella natura una cosa, una pura risorsa inerte da utilizzare per soddisfare i propri bisogni. Questo pensiero antropocentrico non riguarda il capitalismo, ma è alla base anche del socialismo, è alla base della religione (dal cristianesimo all’islamismo), e di ogni società occidentale e, specialmente al giorno d’oggi, anche orientale: è un pensiero realmente globalizzato. Il pensiero antropocentrico è basato sulla visione tecnico-scientifica del mondo ed è all’origine della potenza scatenata e senza limiti della trasformazione tecnica in atto su tutto il pianeta. L’aspetto principale di questa trasformazione tecnica è la sovrappopolazione, ossia l’esplosione devastante (per tutte le altre specie e per la natura ) della popolazione di Homo sapiens, esplosione implementata e sostenuta proprio dal progresso tecnico. Un progresso che avrebbe richiesto una assunzione di responsabilità da parte dell’uomo verso il resto della natura che non c’è mai stata. Gestiamo la tecnica come se fossimo poche centinaia di migliaia di umani come diecimila anni fa; agiamo come se ci fossimo dimenticati o mai accorti di essere 7 miliardi. Purtroppo di questo dato si continuano a dimenticare anche gli “obiettori di crescita” come Latouche e Cochet.
<< Gestiamo la tecnica come se fossimo poche centinaia di migliaia di umani come diecimila anni fa; agiamo come se ci fossimo dimenticati o mai accorti di essere 7 miliardi. >>
RispondiEliminaConsiderazione ineccepibile. Non si poteva dire meglio.
L'ulttimo paragrafo
RispondiEliminala verità sta scritta lì