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venerdì 27 maggio 2016
Che cosa significa pensare?
"Di molte specie è l'inquietudine, nulla tuttavia è più inquietante dell'uomo" (Sofocle: Antigone, primo coro)
Avere affidato la nostra civiltà alla scienza ci porta più vicino alla verità? Oppure, come constatiamo sotto i nostri occhi, la scienza e la tecnica ci stanno portando al collasso planetario? Ma è possibile oggi, all’uomo moderno, non affidarsi alla scienza? E’ possibile rifiutare il destino che affida il mondo alla tecnica che è ormai in conflitto aperto con la natura? Il conflitto che nell’epoca dell’antropocene è divenuto semplicemente conflitto tra uomo e natura, tra uomo e specie non umane. Sull'uomo incombe un senso generale di sradicamento che toglie al suo agire e al suo sentire ogni appartenenza. La Terra non è più la Terra, tutto ha il sapore della uniformità e della artificialità.
Anche tra le persone più sensibili all’ecologia e alla corsa a salvare il pianeta sembra non essere sufficientemente presente la coscienza che solo un nuovo modo di pensare potrà salvarci. Molti tra di noi puntano ancora alla scienza senza un sufficiente criticismo. Non è la scienza che ci ha condotto a questo punto? Non è il modo di produzione tecnologico introdotto dalla scienza che ci ha condotto al disastro ecologico? Non sono stati i progressi nell'agricoltura e nella produzione industriale del cibo insieme ai vaccini e gli antibiotici, prodotti della tecnologia, che hanno portato all’esplosivo aumento della popolazione mondiale e alla conseguente minaccia di annientamento verso tutte le altre specie?
E’ tuttavia vero che molti rimedi ai problemi attuali vengono dalla scienza. E’ la scienza che può realizzare nuove forme di produzione di energia meno inquinanti con più basse o addirittura senza emissioni di carbonio. E’ la scienza che ci potrà permettere di produrre cibo sufficiente, o di trovare soluzioni per alcuni problemi ambientali. E’ sempre la scienza che attraverso la pillola, i contraccettivi e tanti altri mezzi di contenimento delle nascite può assicurare un rientro demografico.
Il problema non è dunque tanto nella scienza in se stessa, quanto nell’uso che se ne fa, ossia nel pensiero che ne determina i fini e ne regola l’uso. Si torna di nuovo al punto: è nel pensiero che si può trovare una soluzione. L’uomo di oggi pensa sempre di meno, se si esclude quel pensiero che è dedicato solo alla scienza intesa come pura potenza e alla trasformazione tecnologica del mondo. Questo pensiero che ha prevalso fino ad oggi è un pensiero che vede nel mondo solo una cosa o un’insieme di cose a nostra esclusiva disposizione. E’ un pensiero arrogante. E’ un pensiero di dominio in cui il dominatore è l’uomo. Tutto il resto è alla sua disposizione e di fatto pronto ad essere utilizzato, trasformato e distrutto. Questo è il pensiero antropocentrico, un pensiero che, come dice Heidegger in queste famose pagine in cui adombra un nuovo modo di pensare, conduce alla desertificazione e all’aridità. Solo abbandonando il punto di vista egoista di specie, l’uomo può avvicinarsi a quello che l’allievo Hans Jonas defini “Principio di Responsabilità” verso la salvaguardia della natura, del pianeta e delle sue molteplici specie. Riporto i passi di questo brano di sapore pre-ambientalista del filosofo, tra cui le pagine illuminanti sull’ ”albero in fiore” visto secondo il punto di vista della scienza in contrapposizione ad un pensiero più interrogante ed originario. Il brano è tratto da: “Cosa significa pensare”?
“Il pensiero pensa quando corrisponde al più considerevole. Il più considerevole si mostra nel nostro tempo preoccupante nel fatto che noi ancora non pensiamo..
E’ sufficientemente nota la diffusione di questo tono quando si giudica la nostra epoca. La generazione precedente parlava di “tramonto dell’Occidente”. Oggi si parla di “perdita del centro”. Ovunque si insegue e si immagina la decadenza, la distruzione, il minaccioso annullamento del mondo. In primo luogo è letterariamente molto più facile tenere questo atteggiamento che non dire qualcosa di essenziale e di veramente pensato; in secondo luogo, questo tipo di letteratura comincia già ad annoiare. Non solo si scopre che il mondo sarebbe privo di connessione, ma anche che esso starebbe rotolando verso il nulla dell’assurdo. Nietzsche, lontano da tutto ciò e guardando le cose da un punto di vista superiore, già negli anni Ottanta dell’800 dice queste semplici parole, semplici perché pensate: “Il deserto cresce” (Così parlò Zarathustra). Il che vuol dire: l’inaridimento è in espansione. L’inadirimento non è la distruzione. L’inadirimento è più inquietante della distruzione.La distruzione accantona soltanto ciò che fino a quel momento è cresciuto ed è stato costruito; l’inaridimento impedisce ogni ogni crescita futura e ogni costruzione. L’inaridimento è più inquietante del semplice annullamento. Anch’esso accantona, e accantona alla fine anche il nulla, mentre l’inaridimento prepara ed estende proprio ciò che crea impedimento. Il Sahara, in Africa, è solo un tipo particolare di deserto. L’inaridimento della terra può andare di pari passo tanto con il raggiungimento di un più alto tenore di vita dell’uomo, quanto con l’organizzazione di una condizione uniformemente felice di tutti gli uomini. L’inaridimento può coincidere con entrambe le cose e circolare ovunque nel modo più inquietante, perché è capace di nascondersi. L’inaridimento non è il semplice diventar sabbia, L’inaridimento è l’eliminazione di Mnemosyne, eliminazione che si sta svolgendo a pieno ritmo. La sentenza “il deserto cresce” non proviene dagli stessi luoghi da cui provengono le correnti condanne della nostra epoca. A questo punto sembra che l’affermazione “il più considerevole nel nostro tempo preoccupante è il fatto che noi ancora non pensiamo” faccia parimenti parte del coro delle voci che considerano malata l’Europa odierna e al tramonto l’epoca presente. La nostra affermazione sembra portare un raggio di luce nell’incombere dell’oscurità, che non sembra tanto gravare sul mondo come qualcosa di estraneo, quanto piuttosto come qualcosa che gli uomini quasi si sono tirati addosso.
…Ma anche i giudizi sull’epoca che hanno un’origine diversa non sembrano essere meno nel giusto. E infatti lo sono nella misura in cui sono adeguati, tali cioè che si adeguano ai fatti, e i fatti possono venir esibiti in gran numero come prove ed appoggiarsi a citazioni d’autore abilmente scelte. Diciamo che una rappresentazione è adeguata quando si adegua al suo oggetto…
Rappresentazione? Chi di noi non saprebbe che cosa significa la rappresentazione? Quando dobbiamo presentare qualcosa, ad esempio in filologia un testo, in storia dell’arte un oggetto artistico, in chimica un processo di ossidazione, abbiamo ogni volta una rappresentazione degli oggetti in questione. E dove abbiamo queste rappresentazioni? Le abbiamo in testa. Le abbiamo nella coscienza. Le abbiamo nell’anima. Abbiamo le rappresentazioni dentro di noi, le rappresentazioni degli oggetti. Naturalmente già da alcuni secoli in mezzo a tutto ciò è passata la filosofia, sollevando il problema se le rappresentazioni dentro di noi corrispondano in generale ad una realtà fuori di noi. Alcuni dicono di sì, altri di no; altri ancora dicono che non si tratterebbe affatto di qualcosa che si possa decidere , si potrebbe soltanto dire che il mondo, ossia la totalità del reale, è soltanto in quanto ce lo rappresentiamo. “Il mondo è mia rappresentazione”. In questa proposizione Schopenhauer ha riassunto il pensiero della più recente filosofia. Schopenhauer va qui menzionato perché la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, sin dalla sua apparizione nel 1818, ha influito nel modo più profondo su tutto il pensiero dei secoli XIX e XX, anche là dove la sua influenza è meno evidente, anche là dove la sua proposizione è combattuta. Troppo facilmente dimentichiamo che un pensatore ha un influsso più essenziale proprio quando viene combattuto, che non quando lo si approva.Persino Nietzsche dovette sostenere un confronto con Schopenhauer…, in cui Nietzsche nonostante la sua opposta concezione della volontà, tien fermo il principio: “Il mondo è mia rappresentazione”…
Se tuttavia interrogandoci su che cosa sia la rappresentazione non ci atterremo alla scienza, non è per la presunzione di conoscere meglio, ma per il timore di non sapere. Noi stiamo fuori della scienza. Stiamo altrove, ad esempio davanti ad un albero in fiore, e l’albero sta davanti a noi. Esso si presenta a noi. L’albero e noi ci presentiamo a vicenda, l’albero stando lì e noi di fronte ad esso. Noi e l’albero siamo in quanto siamo posti in relazione l’uno per l’altro e l’uno dall’altro. In questa presentazione non si tratta quindi di rappresentazioni che ci ronzano nella testa. Ma qui sostiamo un istante, come quando prendiamo fiato prima e dopo un salto. Giacché siamo già saltati lontano dall’ambito consueto delle scienze e anche, come stiamo per vedere, della filosofia. E dove siamo saltati? Forse in un abisso? No, piuttosto su un suolo. Su un suolo? No, non su un suolo, ma sul suolo dove viviamo e moriamo, se non ci facciamo illusioni. Una cosa singolare, o magari inquietante, dover saltare per raggiungere il suolo sul quale già si è. Se qualcosa di tanto singolare come questo salto diventa necessario, allora dev’esser successo qualcosa che dà da pensare. Dal punto di vista scientifico, comunque, che ciascuno di noi si sia trovato almeno una volta davanti ad un albero in fiore, resta la cosa più insignificante del mondo. Dopo tutto, di che cosa si tratta? Ci mettiamo di fronte ad un albero, davanti ad esso, e l’albero si presenta davanti a noi. Chi è, qui, che si presenta all’altro? L’albero o noi? Entrambi? O nessuno dei due? Noi ci presentiamo all’albero che fiorisce , così come siamo, non con la sola testa o con la sola coscienza, e l’albero si presenta a noi come quell’albero che è. O forse l’albero è qui ancor più premuroso di noi? Si sarebbe già presentato in anticipo, per consentire a noi di portarci di fronte ad esso?
Che cosa succede quando l’albero si presenta a noi, e noi ci mettiamo di fronte all’albero?Dove ha luogo questa presentazione quando stiamo di fronte ad un albero in fiore, davanti ad esso? Nella nostra testa, forse? Certo. Nel nostro cervello possono succedere molte cose quando ci troviamo in un prato e abbiamo di fronte in tutto il suo splendore e in tutta la sua fragranza un albero in fiore, quando lo percepiamo. Oggi si possono addirittura rendere percepibili acusticamente, attraverso apposite apparecchiature di trasformazione ed amplificazione, i processi che avvengono nella testa come correnti cerebrali, e tracciarne l’andamento mediante curve. E’ possibile. Certo. Che cosa non è possibile all’uomo moderno? E’ persino possibile che con la sua potenza possa, qualche volta, rendersi utile. E lo fa ovunque con le migliori intenzioni. E’ possibile: probabilmente nessuno di noi riesce ad immaginare quel che presto non sarà scientificamente possibile all’uomo. Ma che ne è, per limitarci al nostro caso,che ne è, tra le correnti cerebrali scientificamente registrate, dell’albero in fiore? Che ne è del prato? Che ne è dell’uomo? Non del cervello, ma dell’uomo, che domani potrebbe estinguersi, quello stesso che ci era venuto incontro dal passato. Che ne è della presentazione in cui l’albero si presenta e l’uomo si porta davanti all’albero?
Probabilmente, qualcosa di simile a ciò che sopra abbiamo chiamato presentazione accade anche in ciò che viene descritto come sfera della coscienza e osservato come elemento psichico. Ma l’albero si trova nella coscienza o si trova nel prato? Il prato, in quanto esperienza, sta nella psiche, o non piuttosto sulla terra? E la terra è nella nostra testa? O siamo noi che stiamo sulla terra?
Si obietterà: che scopo hanno simili domande su un fatto che chiunque, con ragione, ammetterebbe immediatamente, essendo chiaro come la luce del sole, per il mondo intero, che noi stiamo sulla terra e, in base all’esempio scelto, di fronte ad un albero? Ma non procediamo troppo in fretta con questa ammissione, non prendiamo questa chiarezza troppo alla leggera. Senza rendercene conto, infatti abbandoniamo tutto, non appena la fisica, la fisiologia, la psicologia, insieme con la filosofia scientifica, ci spiegano con tutto lo sfoggio dei loro mezzi di documentazione e di verifica, che propriamente non percepiamo alcun albero, ma in realtà solo uno spazio vuoto, in cui si inseriscono qua e là cariche elettriche che sfrecciano in ogni direzione a grandissima velocità. Non basta ammettere che solo in quei momenti che sono, per così dire, scientificamente incontrollati, staremmo naturalmente di fronte ad un albero in fiore per accertare poi, in modo altrettanto spontaneo, che tale concezione non indicherebbe naturalmente che la comprensione ingenua degli oggetti, in quanto appunto prescientifica. Con l’accertamento di questo fatto, abbiamo tuttavia ammesso qualcosa la cui portata quasi ci sfugge, ossia che propriamente sono le scienze nominate sopra a decidere quel che nell’albero in fiore possa valere come realtà e quel che non lo possa. Donde traggono le scienze, l’origine della cui essenza deve restare oscura, la competenza per tali giudizi? Donde traggono le scienze il diritto di determinare la posizione dell’uomo e di porsi come il criterio di tale determinazione? Ma tutto ciò accade già quando accettiamo, anche solo tacitamente, che la nostra posizione di fronte all’albero sia soltanto una relazione, pensata prescientificamente, con ciò che noi chiamiamo ancora “albero”. In verità oggi siamo più inclini a lasciar cadere l’albero in fiore a vantaggio di conoscenze fisiche e fisiologiche considerate superiori.
Se ci fermiamo a pensare a che cosa significa che un albero in fiore si presenti a noi, in modo che noi possiamo porci di fronte ad esso, troviamo che finalmente si tratta, prima di ogni altra cosa, di non lasciar cadere l’albero in fiore, ma di lasciarlo stare là dov’è. Perché diciamo “finalmente”? Perché il pensiero finora non ha ancora mai lasciato l’albero là dove esso è.
Eppure l’indagine scientifica sulla storia del pensiero occidentale ci riferisce che Aristotele, giudicato in base alla sua teoria della conoscenza, sarebbe stato un realista. Realista è colui che ammette l’esistenza e la conoscibilità del mondo esterno: In effetti, Aristotele non ha mai pensato di negare l’esistenza del mondo esterno.Né ci pensò mai Platone, così come non lo fecero Eraclito e Parmenide. Questi pensatori non hanno naturalmente neanche ammesso in modo esplicito o magari provato la presenza del mondo esterno.
(Martin Heidegger: Che cosa significa pensare? Pagg. 51-61. Sugarco. I edizione originale 1954 ).
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