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lunedì 14 novembre 2011
HANS JONAS: LA CRITICA DELL'UTOPIA ANTROPOCENTRICA
IL PRINCIPIO RESPONSABILITA', UN'ETICA PER LA CIVILTA' TECNOLOGICA.
"Soltanto un tempo libero attivo in tutti i settori dischiude una natura non più percepita unicamente in forma di azienda produttiva; la libertà umana e la natura come suo ambiente concreto (patria) si condizionano reciprocamente"(Ernst Bloch: Prinzip Hoffnung).
Sin dagli inizi fu una tesi marxista, coniata dallo stesso Marx, quella secondo cui l'uomo umanizza la natura mediante il suo lavoro. Così si dovrebbe designare l'attività finalizzata esercitata finora dall'umanità sulla natura, sia organica sia inorganica, in particolare naturalmente la coltivazione della terra. L'umanizzazione definitiva, quale sarà realizzata soltanto dal marxismo attuato, finirà con il liberare l'uomo proprio dal lavoro che avrà così trasformato la natura, e solo essa sarà in grado di umanizzare del tutto l'uomo stesso. Evidentemente qui umanizzare significa per il rispettivo oggetto due cose opposte: in riferimento all'uomo vuol dire che egli non è più servo della natura e può quindi essere completamente se stesso; in riferimento alla natura vuol dire che questa è diventata del tutto schiava dell'uomo e non è quindi più se stessa. Perciò la natura sarebbe umanizzata press'a poco nello stesso senso in cui il servo della gleba, succube della nobiltà feudale, fu nobilitato o come le razze inferiori sottomesse dalla razza superiore sarebbero state arianizzate, se le cose si fossero svolte secondo i suoi piani. Alla luce della sua brutale strumentalizzazione, l'umanizzazione della natura è perciò un eufemismo ipocrita per designare la totale sottomissione da parte dell'uomo in vista di uno sfruttamento totale per soddisfare i suoi bisogni. Poiché a tale scopo deve essere radicalmente trasformata, la natura umanizzata è la natura alienata a se stessa. Proprio questa trasformazione va sotto il nome di umanizzazione. Credo che Marx fosse sufficientemente privo di sentimentalismi per considerare le cose in questo modo. In ogni caso il radicale antropocentrismo del pensiero marxista (combinato con il materialismo delle scienze naturali del XIX secolo) era del tutto incline a tale concezione, riservando poco spazio alla visione romantica della natura.
Ma Bloch, pur non essendo meno antropocentrico né meno pragmatico, mostra qui una superiore sensibilità antropologica, facendo dipendere la felicità dell'uomo anche da un ambiente accettabile, anzi da una maggiore prossimità (rispetto a quella del moderno cittadino metropolitano) a una natura non esperita in modo aziendale. Così per lui la natura umanizzata non deve significare soltanto la natura sottomessa all'uomo, ma anche quella conforme a lui, la patria adeguata alla sua libertà e al suo tempo libero. Anzi, se intendiamo nel verso giusto le sue parole, la natura che sta in un rapporto di condizionamento reciproco (!) con la libertà umana, è quella più vera, la sola veramente "aperta" rispetto alla natura che l'uomo si è trovato dinanzi all'inizio del suo cammino. L'uno e l'altra saranno riscattati insieme e contemporaneamente ad opera dell'uomo dalla loro alienazione. Umanizzando se stesso, l'uomo naturalizza la natura! Chi non penserebbe qui ad Adamo, il giardiniere della creazione divina nell'Eden originario? Ma se la pensiamo come Bloch, noi non siamo al principio, ma al contrario alla fine, cioé al termine di una hybris e di un movimento anti-demetrico senza precedenti, di un'ipernaturalizzazione della natura data. E' quindi la natura ipernaturalizzata a garantire all'uomo utopico la prossimità alla patria? In ogni caso essa è una natura trasformata. Consideriamo tutto ciò più da vicino. Il programma della riorganizzazione della natura, che finora abbiamo discusso soltanto come premessa materiale dell'utopia, avanza qui fin nel contenuto dello stesso fine ideale.
Ora questa trasformazione è in corso già da alcuni millenni, anche se non sotto la guida della filosofia finalmente secolarizzata e interamente riportata sui suoi passi, e noi sappiamo qualcosa su come appare la natura umanizzata e su cosa perde in quanto natura. Non intendiamo riferirci alle permanenti conseguenze negative del miope saccheggio ambientale (carsificazione di intere catene montane in seguito al disboscamento e all'estensione dei pascoli, dispersione da parte del vento dello strato di humus di steppe coltivate a foraggi e così via). Limitiamoci a prendere in considerazione il quadro di colture attuate con costante successo e destinate ad essere proseguite e ulteriormente intensificate nel futuro utopico: un campo di grano ondeggiante offre sicuramente uno spettacolo più gradevole dell'asfalto, ma come "natura" esso costituisce già in se stesso un notevole impoverimento e come paesaggio comporta (se coltivato su vaste superfici) un'estrema monotonia. Non soltanto la monocultura riduce un habitat ecologico multiforme, caratterizzato da un equilibrio variamente dinamico delle specie, alla presenza artificiale di una sola specie, ma questa stessa risulta essere un prodotto artificiosamente omogeneo della coltivazione, che ormai si può conservare soltanto nelle condizioni artificiali della coltura...la monotonia degli oceani di cereali, ad esempio nell'America centro-occidentale, solcati da mietitrici solitarie, annaffiati di antiparassitari per mezzo di areoplani, offre come natura altrettanto poca ospitalità (e per di più con un grado significativamente minore di comunicabilità umana) di quanta ne offra come cultura una grande fabbrica. Qui l'ipernaturalizzazione è in pieno corso, rivelandosi come denaturalizzazione. Umanizzazione della natura? Al contrario, alienazione non soltanto di se stessa, ma anche dell'uomo. A maggior ragione questo è evidente, per passare dall'esempio vegetale a quello animale, nelle incubatrici e nelle fabbriche di uova che riforniscono oggi i supermercati, a confronto delle quali il pollaio contadino con il suo gallo pare quasi un parco per la protezione degli animali! L'estrema degradazione di esseri viventi dotati di sensibilità e capacità di movimento, trasformati in macchine da uova e carne, privati del loro ambiente vitale, imprigionati per tutta la vita, sottoposti ad illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, non ha quasi più nulla in comune con la natura, per cui non si può più affatto parlare di "accoglienza" e "prossimità" nei confronti dell'uomo. La stessa cosa vale per gli allevamenti-prigioni destinati alla produzione della carne di manzo e così via. Persino l'atto sessuale è sostituito dalla inseminazione artificiale. Così si configura nella realizzazione concreta il movimento anti-demetrico, la riorganizzazione della natura! Non vi è nulla che qui parli a sostegno dell'amore dell'uomo verso la natura né vi è qualcosa da imparare intorno alla ricchezza e alla raffinata complessità della vita.Stupore, riflessione e curiosità restano avviliti.
Il paradosso di cui Bloch non si rese conto è che proprio la natura non trasformata e sfruttata dall'uomo, la natura selvaggia, è quella umana, cioè quella che parla all'uomo, mentre quella che è completamente asservita a lui, è quella disumana. Soltanto la vita rispettata nella sua integrità rivela se stessa. Perciò l'interesse umanistico,professato dagli utopisti, trova rifugio proprio dove si arresta la trasformazione utopica del pianeta terra...La critica dell'utopia appena conclusa sarebbe stata eccessivamente dettagliata se l'utopismo marxista, nella sua stretta alleanza con la tecnica, non rappresentasse una versione radicalizzata in senso escatologico di ciò verso cui è avviata la dinamica tecnologica mondiale all'insegna del progresso; in altri termini, se la tecnologia, in quanto forza operante autonomamente, non implicasse una dinamica quasi-utopica. Pertanto la critica all'utopia è già stata implicitamente una critica della tecnologia nella previsione dei suoi estremi sviluppi. Molto di ciò che abbiamo cercato di descrivere, in rapporto all'utopia, come un concreto stato umano all'interno della realizzazione del sogno, sembra ora incombere, con o senza un sogno simile, anzi senza finalità cosciente e quasi come un destino. Perciò la critica dell'utopia...è servita a fondarne l'alternativa che ora tocca a noi elaborare: l'etica della responsabilità che oggi, dopo secoli di euforia post-baconiana, prometeica (di cui è figlio anche il marxismo), deve mettere le briglie a quella galoppante avanzata. Dato che in caso contrario, e soltanto con un po' di dilazione, sarebbe la stessa natura a farlo alla sua maniera implacabilmente più dura...
(Da "Il Principio Responsabilità, Einaudi 1993, pag. 269 e seg.)
L'utopia di umanizzare la natura è pura ideologia antropocentrica. L'ideologia antropocentrica è a fondamento di ogni visione ideologica moderna, da quella marxista a quella dei verdi, da quella liberal a quella conservatrice, a quella delle varie destre. Per non parlare dell'antropocentrismo estremo della visione religiosa del mondo e della natura, specialmente per quanto riguarda le professioni di fede monoteistiche antropomorfe. Jonas contrappone a queste utopie antropocentriche, il principio di responsabilità, basato su considerazioni che riguardano la sopravvivenza fisica, ma anche la dignità dell'esistenza delle generazioni future. Entra in gioco, nel principio di responsabilità, il rapporto tra uomo e ambiente, uomo e natura. Questo rapporto richiede il rispetto di un equilibrio che è incompatibile con l'attuale metafisica dei diritti. I diritti dell'uomo sono sempre più reclamati fuori da ogni contesto di appartenenza. I diritti dell'uomo divengono assoluti, proprio mentre la tecnica consente di applicarli inesorabilmente (e violentemente) alla natura e a tutte le altre specie viventi. Ma ogni diritto assoluto dell'uomo è un diritto totalitario. Il totalitarismo dei diritti dell'uomo è all'origine della distruzione del pianeta cui stiamo assistendo. Il principio di responsabilità sottolinea una verità semplice: che senza doveri non esiste alcun diritto. Il primo dovere dell'uomo è il rispetto verso la natura e verso le altre specie viventi; ciò significa anche rispetto verso se stesso. Senza attuare questo primo dovere non può esserci, da parte dell'uomo, alcun diritto.
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