Riporto di seguito l'intervento di Filippo Schillaci dell'associazione antispecista "Parte in Causa" al recente incontro che l'associazione ha tenuto con Radicali Ecologisti sul tema della visione del mondo antropocentrica che spesso riguarda anche chi si batte per il rispetto ambientale. Molti ambientalisti hanno infatti visioni settoriali del problema ecologico e non riescono ad uscire da una mentalità che vede l'uomo al centro di tutto mentre l'ambiente e le altre specie sono un puro sfondo, "risorse" o "patrimonio" come spesso vengono definite a cui l'uomo può liberamente attingere secondo le sue esigenze e necessità egoistiche. Al contrarrio la tutela degli animali e delle altre specie viventi è un modo fondamentale per ritrovare un equilibrio della natura, e se non si compie quella rivoluzione interiore che ci porta a vederci come parte della natura e NON come padroni di essa, la nostra battaglia per l'ambiente sarà persa in partenza. Schillaci denuncia apertamente le visioni antropocentriche di chi si batte ad esempio per la decrescita ma mette sempre al centro l'uomo e le sue necessità, come Latouche, facendo sì che un concetto giusto - la riduzione dell'impatto ambientale dell'uomo e delle sue attività- venga mistificato e ridotto ad una semplice riorganizzazione della produzione che non va ad incidere su fattori fondamentali come la crescita demografica eccessiva e l'antropizzazione massiccia di tutta la Terra.
Diceva Terzani che l'uomo che ha ritrovato la coscienza del proprio essere parte della natura è quasi un illuminato in mezzo ad un mondo di uomini che si sono persi nel proprio egocentrismo di specie. Purtroppo i fautori (spesso inconsapevoli) dell'antropocentrismo sono oggi ancora la stragrande maggioranza. Aver preso coscienza dell'errore antropocentrico è' come una rivoluzione interiore religiosa. Chi sa, cambia il proprio sguardo sul mondo, e spesso proprio dallo sguardo gli "illuminati" si riconoscono. Essi sono ancora pochi, la battaglia per la salvezza dell'uomo e della natura è ancora lunga, ma ritrovare nello sguardo di un altro la stessa consapevolezza ci conforta nel proseguire la battaglia per ritrovare il giusto rapporto con la natura, che sempre è anche un ritovare la nostra appartenenza, e per il rispetto di tutte le specie viventi.
Questo articolo di Schillaci è importante, e per questo lo riporto completamente.
"Il 5 luglio 2013 a Roma l’associazione antispecista Parte in Causa e l’associazione ecologista Radicali Ecologisti organizzarono un incontro pubblico comune per riflettere sulle diversità ma, soprattutto, sulle compatibilità e dunque sulle possibilità di incontro e dialogo, fra i due paradigmi. Io fui invitato a partecipare e quanto segue è il testo di quello che fu il mio intervento.
La ripresa video completa dell’incontro, comprendente anche l’introduzione di Giovanna Devetag e gli interventi di Marco Maurizi e Fabrizio Cianci, è visibile nella pagina web:
Ecologisti e antispecisti: un dialogo possibile?
Filippo Schillaci
Prima parte
Alcuni anni fa, in una lettera aperta a Maurizio Pallante, paragonai il movimento alternativo a una bicicletta di cui abbiamo sì tutti i pezzi, però smontati e sparsi in disordine intorno a noi. È chiaro che con una bicicletta conciata così non andiamo da nessuna parte, affinché possa esserci utile dobbiamo ovviamente montarla cioè stabilire le relazioni funzionali fra i vari pezzi. È quello che oggi non accade. Eppure queste relazioni esistono, sono molto naturali e ci vorrebbe ben poco a vederle e trarne le dovute conseguenze.
Qui cercheremo di capire quali sono le relazioni naturali fra l’antispecismo da una parte e l’ecologismo, cui aggiungerei la decrescita, dall’altra. Premetto che nel seguito metterò ecologismo e decrescita su uno stesso versante e antispecismo sull’altro. Questo perché ecologismo e decrescita hanno in comune il fatto di muovere una critica all’esistente senza mettere in discussione il modello di cultura antropocentrico. L’antispecismo ha il difetto perfettamente e disutilmente complementare di mettere in discussione l’antropocentrismo ma non tutto il resto.
Vorrei iniziare raccontando due episodi.
Il primo accadde un paio di anni fa a Canzo, un paese montano in provincia di Como dove fui invitato a parlare di decrescita. Ogni volta che parlo di questo argomento non manco mai di affrontare il tema dell’impatto ambientale del settore agroalimentare, perché è il settore a più alto impatto che esista. Quando affronto questo tema a sua volta non manco mai di parlare di quella che ne è la componente più pesante ovvero, sulla terra, la zootecnia (cui si aggiungono pesca e acquacoltura, che fanno ancora peggio nel mare). Stavo dunque parlando quel giorno di impatto ambientale della zootecnia quando accadde una cosa interessante.
Ma per capire il significato di ciò che accadde è necessario prima esser certi che sia ben chiaro di cosa stavo parlando, cosa significa “impatto ambientale della zootecnia”, e l’esperienza insegna che non è così scontato. Apriamo dunque una breve parentesi su questo argomento.
La zootecnia è responsabile del 18% delle emissioni mondiali di gas serra di origine umana, pari a 7,1 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. Il 70% di esse non vengono dagli allevamenti intensivi bensì da quelli estensivi, cioè quelli tradizionali, basati sulla terra, che sono tuttora molto diffusi nel mondo e in particolare sono prevalenti nell’allevamento dei ruminanti. Ciò è in contrasto con la diffusa convinzione secondo cui sarebbero solo gli allevamenti intensivi a fare danni mentre quelli estensivi sarebbero sostenibili quando non addirittura spacciati come “a impatto zero”. Un’altra cosa da dire è che di quei 7,1 miliardi soltanto 850.000 tonnellate (pari allo 0,012% delle emissioni zootecniche) sono prodotte nella fase dei trasporti, il che contrasta con la diffusa credenza che basti adottare il criterio dei “Km zero” per rientrare nell’alimentazione sostenibile. In realtà, nel caso dei prodotti zootecnici, non si intacca neanche la superficie del problema. Teniamo presenti queste contraddizioni perché ci saranno utili più avanti.
La zootecnia inoltre è la prima causa assoluta di distruzione delle foreste primarie. In Amazzonia, quasi due terzi delle aree deforestate sono destinati a usi zootecnici, in prevalenza pascolo.
L’allevamento al pascolo ha anche un ruolo determinante nel processo di desertificazione. Esso occupa due terzi delle aree aride e si è constatato che la velocità di avanzamento dei deserti è maggiore nelle aree soggette al pascolo che in quelle soggette a qualsiasi altro uso. Infine (ma siamo in realtà ben lontani dall’aver detto tutto), la perdita di suolo dovuta a erosione nel mondo è stimata in 75 miliardi di tonnellate all’anno. L’allevamento ne è ancora una volta il principale responsabile poiché vi concorre per il 55%.1
Stavo dunque dicendo tali cose quel giorno a Canzo quando una vecchietta interviene e obietta: «Ma io mi sento superiore agli animali!»
Magnifico, ma… che c’entra?
Le risposi in sostanza così quel giorno: che c’entra? Però mi sbagliavo, perché sì, la vecchietta aveva “ragione”: c’entra. E più avanti cercheremo di capire perché.
Ma intanto passiamo al secondo episodio, che accadde circa un anno fa non in un luogo fisico bensì sul web dove, a margine di una discussione, alcuni lettori cominciarono a polemizzare sul tema dell’alimentazione vegetariana. Una lettrice che si era definita animalista scrisse: «a me basta che siano cibi vegetali, poco importa se biologici o no».
Possiamo dire, come primo commento a questi due episodi, che l’inconscio della vecchietta specista di Canzo coglieva una connessione fra antropocentrismo e sostenibilità ambientale che invece sfuggiva alla ragione dell’animalista del web. Ed è inevitabile constatare che l’atteggiamento più diffuso, in tutti i contesti a vario titolo “alternativi”, è quello dell’animalista: la cecità nei confronti delle connessioni. Se proviamo infatti a leggere dei libri che si occupano di antispecismo, ecologismo e decrescita ne ricaviamo la netta sensazione che stiano parlando di tre temi completamente scollegati fra loro. Vediamo in dettaglio a cosa ci troviamo di fronte.
Antispecismo. Protagonista: l’animale, ma discusso come un’astratta entità morale immersa in una sorta di etere costituito dall’insieme dello specismo visto come pregiudizio morale e dalle dissertazioni della filosofia morale che lo avversano2.
Decrescita. Protagonista: l’uomo, ma che uomo è? È un’entità in relazione solo con se stessa che non si capisce bene dove viva, cosa la circondi: si percepisce soltanto la presenza di un’entità esterna chiamata “ambiente” che bisogna preservare come condizione necessaria alla preservazione dell’uomo stesso, ridefinendo totalmente (già a livello di fini da perseguire) l’insieme delle pratiche produttive e l’organizzazione dei rapporti interni alla società umana. Ma cos’è questo “ambiente”? Anche qui siamo di fronte a un’astrazione, un’entità impersonale e dunque priva di identità autonoma, al punto da essere spesso indicata col temine “risorse” o “patrimonio”. Un oggetto indispensabile ma nulla più3.
Ecologismo. Protagonisti: gli ecosistemi, ma secondo una visione non molto lontana dal concetto di ambiente già visto parlando di decrescita. Piuttosto che come comunità di esseri viventi, quali essi sono, vengono descritti anche qui secondo una visione meccanica, impersonale in cui ci sono degli ingranaggi in perfetto equilibrio reciproco, esistente da sempre e da preservare per sempre. L’uomo è un’entità a essi estranea e, spesso, antitetica, da tenere a bada nelle sue manifestazioni più distruttive. A differenza della decrescita, per di più, l’ecologismo non pone una critica complessiva alle componenti materiale e sociale dell’assetto umano sulla Terra ma solo una critica puntuale a certe pratiche ad alto impatto ambientale, al punto che in una visione “di superficie” dell’ecologismo trova spazio anche l’equivoco concetto di sviluppo sostenibile.
In ciascuno di tali contesti manca, dicevo, la visione delle connessioni fra le varie componenti della realtà. Ma di che natura sono queste connessioni? Ovvero, perché antispecismo, decrescita, ecologismo non possono essere né teorizzati né praticati separatamente?
Potrà esserci utile notare preliminarmente che comune a ciascuno dei tre contesti è l’assenza di una visione storica del particolare “pezzo” del problema che essi esaminano mentre è proprio da una tale visione che l’unità di fondo potrebbe risultare visibile. Quando, come, perché nasce l’ideologia specista e con essa il dominio sistematico dell’uomo sulle altre specie animali? Quando, come, perché nasce la società della crescita? Quando, come, perché inizia lo scempio degli habitat naturali? Forse si scoprirebbe che queste tre domande hanno un’unica risposta e che dunque stiamo parlando di un processo unitario e inscindibile.
Quello che accade oggi invece, come dicevo, è che non viene evidenziato nessun divenire storico. Ad esempio nei libri sulla decrescita una cosa che mi colpisce è che c’è una critica sempre molto esatta, precisa, inconfutabile del presente ma nessuna domanda sulla genesi di esso. C’è la società della crescita, e va bene. Ma come è nata, dove, quando? Se ne ricava l’immagine di un’umanità che per secoli è stata bella, buona, in armonia con se stessa e con la natura e che poi, improvvisamente, sessant’anni fa impazzisce e comincia a spaccare tutto. Non è andata propriamente così. Questa vicenda della crescita è in realtà un processo storico di lungo periodo iniziato già in epoca protostorica, in Europa con le invasioni dei Kurgan, il popolo pastorale che abbiamo conosciuto a scuola con il nome di Indoeuropei, processo che è andato avanti progressivamente, millennio dopo millennio fino a giungere oggi al suo compimento con la globalizzazione. È quella che Jeremy Rifkin chiamò l’espansione della cultura della bistecca.
Nell’ecologismo l’unico testo a me noto che si pone il problema di un’analisi storica risale al 1965, è Prima che la natura muoia di Jean Dorst e la sua analisi è non a caso in perfetta sintonia con quanto abbiamo appena detto: anche Dorst identifica nel neolitico il momento in cui l’umanità cominciò ad avere un impatto sensibile sugli ecosistemi con l’irrompere dell’agricoltura e, soprattutto, dell’allevamento. Ma una tale analisi è del tutto scomparsa dai testi più recenti.
Quanto all’antispecismo, andiamo ancora peggio perché l’impostazione filosofico-morale oggi dominante impedisce perfino un’analisi corretta del presente. Non mi dilungo a questo proposito rimandando alla distinzione fra antispecismo metafisico e storico fatta da Marco Maurizi.
Ma anche senza immergersi in una analisi storica del presente e della sua genesi i legami di cui parliamo possono risultare evidenti sulla base di considerazioni per così dire “strutturali” sulla natura dei contesti che stiamo esaminando.
C’è, a questo proposito, una storia indiana che ha raccontato anni fa Terzani e che ci pone di fronte a una situazione simile a quella in cui ci troviamo. Alcuni ciechi vengono messi di fronte a un elefante col compito di descriverlo. Ciascuno ne tocca una parte (la proboscide, un orecchio, la coda, una zampa…) e la descrive convinto che ciò di cui parla sia l’elefante nella sua totalità. In realtà l’elefante è l’insieme di tutte queste cose e come spesso accade l’insieme è più della somma delle parti. Analogamente antispecismo, decrescita, ecologismo non fanno altro che descrivere lo stesso oggetto osservato da tre punti di vista diversi. Ciascuno, dal suo punto di osservazione, ne vede solo una parte, ma ciò non toglie che sia un’unica cosa. Purtroppo accade che quando si vede un problema in maniera parziale le risposte che si danno a esso non sono risposte parziali, sono proprio risposte sbagliate. Sempre parlando di decrescita, un esempio di risposte sbagliate è quello di prendere le società tradizionali come punti di riferimento validi. Nulla di più errato perché se, come abbiamo detto, la società della crescita affonda le sue radici nelle fasi più arcaiche della storia europea, la cosiddetta “civiltà contadina” è in realtà la “civiltà industriale” in uno stadio precedente di evoluzione. Ma è la stessa società4.
Adesso vorrei dividere il discorso in due fasi. Nella prima proverò a dimostrare perché l’antispecismo implica l’ecologismo e la decrescita; nella seconda farò la dimostrazione complementare: perché ecologismo e decrescita implicano una visione antispecista.
Seconda parte
Perché l’Antispecismo implica Decrescita ed Ecologismo?
Cominciamo con alcuni esempi, partendo proprio dalla frase scritta dall’animalista sul web. Chi ha letto Primavera Silenziosa di Rachel Carson, il libro che mezzo secolo fa diede l’avvio al movimento ecologista, sicuramente non ha dimenticato le pagine impressionanti che l’autrice dedica alla descrizione degli effetti che i pesticidi hanno sugli animali, domestici e selvatici (oltre che sull’uomo, naturalmente). Potremmo aggiungere a ciò la recente notizia che le popolazioni di uccelli in Europa hanno subito negli ultimi decenni una drastica rarefazione, la cui causa primaria viene identificata nell’agricoltura industriale (nel cui ambito è da inserire anche la gestione intensiva dei pascoli), non solo attraverso l’uso di sostanze chimiche letali ma anche, forse soprattutto, attraverso la sistematica distruzione degli habitat.
Secondo esempio: abbiamo parlato prima di deforestazione, ma cosa significa “deforestazione”? L’antispecista medio tipicamente sorvola con troppa facilità sul fatto, peraltro autoevidente, che la distruzione di una foresta implica la morte di tutti gli animali che vivevano in essa. Quando, come spesso accade se lo scopo è la creazione di un pascolo, la foresta viene non abbattuta ma bruciata, essi muoiono bruciati vivi nell’incendio, ma anche quando essa viene abbattuta l’esito finale non è diverso: quelli che non muoiono nelle operazioni di abbattimento muoiono successivamente di stenti poiché non esiste più l’habitat da cui traevano il loro nutrimento. La distruzione delle foreste dunque implica un gigantesco genocidio di animali.
Potremmo anche parlare dei cuccioli di foca, che entrano nell’orizzonte morale di animalisti e antispecisti soltanto quando muoiono uccisi a bastonate in testa da un cacciatore di pellicce, ma da alcuni anni essi muoiono anche in un’altra maniera: annegati a causa dello scioglimento precoce dei ghiacci polari provocato dal riscaldamento globale di origine umana. Però, chissà perché, di questo non c’è animalista/antispecista che ne parli.
Potrei continuare citando esempi, ma l’importante è che non si tratta di episodi occasionali e contingenti. Dietro ciascuno di essi c’è una causa unitaria, un fatto di validità del tutto generale. Allora, se la domanda è: perché l’antispecismo implica una visione ecologista?, a questo punto la risposta è ovvia, ed è che l’ “animale” non è quell’astratta entità morale che dicevamo prima bensì un organismo biologico che vive in un ecosistema (come lo siamo anche noi, anche se da 10.000 anni ce lo siamo dimenticato), cioè in un habitat ben preciso e quindi il riconoscimento degli animali come soggetti, e la loro conseguente tutela, implica la tutela degli ecosistemi in cui vivono, dei loro habitat dai quali sono indissolubili, di cui sono parte; di cui siamo parte. Non si può preservare i primi senza preservare i secondi. E cos’è un ecosistema, dicevo prima, se non un insieme organico di comunità di esseri viventi?
Quanto ho finora detto ha una conseguenza coinvolgente il concetto di decrescita: è pensabile una società antispecista che sia anche una società della crescita? Ovvero che si espanda all’infinito? Ovviamente no, perché su un pianeta di dimensioni finite è chiaro che se una specie vivente pretende di crescere all’infinito non può farlo che a danno di tutte le altre. Se una parte cresce, qualche altra parte deve contrarsi, non si scappa. Quindi una società antispecista è inevitabilmente una società stazionaria, il che non significa stagnante ovviamente: una società quantitativamente stazionaria.
Al contrario, affinché una società pretenda di espandersi indefinitamente, dovendo con ciò fare sua la pratica del dominio, essa necessita di una visione antropocentrica5 del mondo ovvero della riduzione a cosa di tutto ciò che è esterno a sé, e dunque oggetto di tale dominio. Non a caso infatti l’antropocentrismo è nato simultaneamente al nascere della società della crescita, dunque con il primo svilupparsi delle culture urbane, ed è nato come ideologia che legittima le loro pratiche.
Queste ultime considerazioni ci introducono alla seconda parte del nostro problema.
Perché ecologismo e decrescita implicano una visione antispecista?
Da quanto ho appena accennato possiamo cominciare a capire che la pretesa di praticare il paradigma della decrescita – o analogamente dell’ecologismo – e allo stesso tempo di mantenere un modello culturale (antropocentrismo) che serve a giustificare e sostenere ideologicamente le pratiche produttive opposte non ha molto senso.
Prima di approfondire questo concetto vorrei però fare anche qui il percorso di prima, ovvero prendere un esempio pratico e poi arrivare sulla base di esso a un criterio generale.
L’esempio è il seguente. Io mi sono occupato negli ultimi tre anni dell’impatto ambientale del settore agroalimentare. Alcuni mesi fa, giunto quasi in fondo a questa ricerca6, mi sono chiesto perché ho dedicato tanto tempo a studiare un ambito tutto sommato parziale della realtà, e per di più sotto un solo aspetto: l’impatto ambientale, proprio io che da sempre pongo l’accento sull’importanza dominante delle connessioni. In realtà, a posteriori, vedo che un senso l’ha avuto: mostrare come perseguire la sostenibilità alimentare mantenendo inalterato un modello culturale antropocentrico conduca a contraddizioni interne che minano alla base il perseguimento della stessa sostenibilità. Non parlo di una dimostrazione teoretica ma, potremmo dire, di una ostinata evidenza fenomenica. Ora, quando qualcosa si verifica non occasionalmente bensì sistematicamente è inevitabile constatare che dobbiamo ritenerla non fortuita bensì strutturale. Ed è questo il caso. Vediamo ora di approfondire questo discorso passo dopo passo.
Nell’ambito di questa ricerca abbiamo fatto un sondaggio fra i GAS, cui abbiamo inviato un questionario contenente, fra le altre, la seguente domanda, che era poi quella che più mi interessava.
In una scala fra 1 (minimo) e 10 (massimo) quale importanza dal punto di vista della sostenibilità ambientale hanno per la maggioranza dei vostri iscritti le seguenti tre scelte?
– Distribuzione su scala locale, non su lunghe distanze.
– Produzione con metodi biologici, non chimico-industriali.
– Scelte alimentari orientate verso i cibi vegetali, non verso quelli animali.
Il seguente grafico mostra le medie aritmetiche delle risposte date dai GAS (barre azzurre) messe a confronto con voti ricavati dalle analisi di impatto ambientale da noi prese come riferimento (barre rosse).
Al primo posto, nelle valutazioni dei GAS, troviamo la produzione biologica, al secondo, quasi a pari merito, la distribuzione locale e al terzo, nettamente staccate, le scelte alimentari. Come si vede dalle barre rosse invece queste ultime hanno importanza primaria mentre la distribuzione locale ha un’importanza vicina alla trascurabilità. C’è dunque una differenza enorme fra la realtà quale è e quale i GAS credono che sia.
Analizzando poi il modello alimentare dei GAS, che è coerente con le loro credenze e in particolare caratterizzato da una percentuale di cibi animali solo di poco inferiore alla dieta italiana convenzionale, si giunge alla conclusione che esso rientra nella fascia dell’insostenibilità7.
Ebbene, ad ogni tappa di questa ricerca sono inciampato, con una sistematicità ossessiva, in contraddizioni di questo genere. Già all’inizio, parlando di zootecnia, ne accennavo alcune: la credenza che l’impatto ambientale degli allevamenti sia concentrato su quelli intensivi mentre quelli “alla Nonna Papera” sarebbero perfetti, la leggenda del “ciboachilometrizero”, ecc. Non sono contraddizioni fortuite perché se così fosse sarebbero distribuite a caso. Al contrario, c’è in esse una precisa regolarità. Anche in queste risposte dei GAS: sono tutte sbagliate, ma tutte sbagliate nello stesso modo; non accade che un GAS dia certi voti, un altro ne dia altri completamente diversi: pur con un’ovvia varianza fra un GAS e l’altro, gran parte delle risposte seguono la struttura mostrata nel grafico. E mi sono accorto che tutte queste contraddizioni vanno in un’unica direzione: concentrare l’alternativa
sulle modalità di produzione del cibo,
sulle modalità di distribuzione del cibo,
ma non sul cibo.
Cioè mantenere inalterato il contenuto del piatto del signor Rossi “alternativo” rispetto a quello del signor Rossi convenzionale. Mi sono detto che la ragione di questo sta proprio nel fatto che si cerca di muovere una critica a certe pratiche produttive senza però muovere una parallela critica al modello di cultura, alla visione del mondo che è nata in funzione di quelle pratiche e dunque la presunta “alternativa” finisce con l’essere null’altro che un inconsapevole scimmiottamento di quelle stesse pratiche, riproposte sotto mentite spoglie.
Qui però devo spiegarmi meglio perché per interpretare questo risultato e in particolare in che modo esso è collegabile al mantenimento di un modello di cultura antropocentrico manca ancora un concetto importante.
Terza parte
Una qualsiasi società umana si basa su tre pilastri: un insieme di pratiche produttive che hanno il compito di assicurarle la materiale sopravvivenza, un ordinamento sociale che ha il compito di consentire l’attuazione di quelle pratiche e infine un modello culturale, ovvero un’immagine della realtà e della posizione del gruppo sociale in essa (da cui consegue una scala di valori e un insieme di norme di comportamento) che ha il compito di legittimare “ideologicamente”, “eticamente” quelle pratiche produttive e quell’ordinamento sociale. Di creare cioè una visione delle cose che faccia apparire lecite le une e l’altro. Naturalmente questa visione del mondo non ha il compito di descrivere oggettivamente il mondo, e tipicamente non lo fa; essa appartiene con ciò più alla mitologia che alla sfera conoscitiva della realtà. Il suo compito, ripeto, è soltanto quello di giustificare davanti ai membri del gruppo le azioni che il gruppo stesso compie al suo interno e nei confronti del mondo esterno. E poco importa se assume, come spesso accade, connotati così alienati dalla realtà da essere assimilabile a un’allucinazione collettiva.
A margine non sarà superfluo dire che, ferma restando la natura fondante delle pratiche produttive, la relazione fra i tre pilastri non è lineare bensì tipo anello di retroazione. Ovvero il modello di cultura deriva dai primi due pilastri ma al tempo stesso, nel giustificarli come naturali e ovvi, agisce su di essi rafforzandoli, sia direttamente motivando ogni azione che li mantenga e rafforzi, sia indirettamente inibendo ogni tendenza divergente.
Per il modo stesso in cui li ho definiti è ovvio che questi tre pilastri sono inestricabilmente legati l’uno all’altro al punto che non è pensabile cambiarne uno senza cambiare gli altri. Invece è quello che oggi avviene, col risultato che nel momento in cui si cerca di cambiare una parte della realtà ma senza cambiare il modello di cultura che è nato in funzione di quella realtà, non si fa altro che riprodurre sotto mentite spoglie quella realtà stessa o viceversa nel momento in cui si cerca di cambiare il modello culturale senza porsi il problema di cambiare contestualmente le strutture produttive e sociali che quel modello sostiene ci si trova sistematicamente nel vicolo cieco di chi pretende di costruire un tetto senza aver prima costruito l’edificio sottostante. Nel primo caso, nel momento in cui si sottopone a una critica la prassi produttiva del presente (crescita) mantenendo il modello culturale nato per giustificare quella prassi (antropocentrismo), qualunque progetto alternativo che verrà in tal modo elaborato null’altro sarà che una versione camuffata di quella stessa prassi. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle scelte alimentari, in cui non si fa altro che sostituire la carne plastificata del signor Rossi stile Mc’Donalds con la carne in pizzi e merletti del signor Rossi stile Slow Food, ma senza far caso che è la stessa carne perché dà mazzate alla Terra nell’identico modo. Nel secondo caso si rimane rinchiusi nelle astratte elucubrazioni della filosofia morale ignorando il fatto che da ben altro è, da sempre, plasmata la Storia.
Tutto ciò ci aiuta a capire la strana frase della vecchietta di Canzo da cui ha avuto inizio il nostro discorso.
Una vocina inconscia notava in lei che il mio no a certe attività produttive (la mia critica della zootecnia), generava uno scollamento, una frattura fra una visione del mondo (l’uomo superiore agli “animali”) e una delle modalità attraverso cui questa visione trovava una corrispondenza nel mondo reale (l’“animale” reso cosa, materia prima e trasformato in cibo). Si creava insomma un’incoerenza fra una dimensione culturale che enunciava un certo rapporto con l’altro-non-umano (la sua negazione in quanto soggetto) e una situazione materiale che impediva l’esercizio di quel rapporto, e si veniva a cancellare con ciò tutta una fetta di funzionalità, dunque di ragion d’essere di quella visione del mondo. Sono superiore agli animali ma non c’è nessuna azione pratica in cui questa superiorità possa concretizzarsi, e allora a che serve? La vecchietta si era trovata di fronte a un vuoto di significato, quella visione del mondo rimaneva sospesa nel vuoto, priva di senso, di scopo, e si veniva così a creare quella sensazione di straniamento che sicuramente ella ha provato e che l’ha spinta a dire quella frase.
È questa fra l’altro la ragione per cui un modello culturale nato per giustificare certe pratiche è anche la principale fonte di resistenza al loro cambiamento. Poiché esso, una volta formatosi, è rigidamente definito, rigidamente definisce anche quelle pratiche che legittima.
Qualcosa di simile accade fra i GAS il cui modello alimentare, a livello di consumatore finale, riproduce molto da vicino quello della società della crescita nel cui ambito, non dimentichiamolo, si svolge il processo di socializzazione (cioè di assorbimento del modello di cultura dominante) di tutti noi, prima che intervengano quegli elementi di critica che hanno fatto di alcuni di noi persone portatrici di una “alternativa”. Poiché le scelte alimentari hanno un ruolo di primo piano fra le norme identitarie che definiscono l’appartenenza al gruppo sociale, tali scelte mutano solo entro i confini della critica che viene rivolta al presente. Se la critica è ristretta soltanto a certi suoi aspetti, ristretti saranno anche i confini dei mutamenti che a tale critica conseguiranno.
Ora, noi sappiamo che l’antropocentrismo nacque come razionalizzazione (in senso propriamente psicanalitico) di certe pratiche produttive che implicavano uno sfruttamento e un dominio cruento delle forme di vita non umane, pratiche a loro volta strettamente correlate alla produzione alimentare8, e che tale prassi del dominio (e relativa cultura) fu la base di quella che ben presto sarebbe diventata la società della crescita. Ecco dunque che non mettere in discussione una visione antropocentrica dei rapporti con il mondo vivente non umano implica non mettere in discussione le norme di comportamento (in questo caso alimentari) che quella visione giustifica. Si gira intorno al problema evitando accuratamente di andare alla radice di esso. Anche a costo dell’incoerenza, che in ogni caso nessuno vede, senza che con ciò venga meno la buona fede, poiché la psiche umana mette a disposizione una nutrita serie di strumenti di difesa che garantiscono a priori tale cecità.
Ebbene, tornando alla generalità del nostro problema, sta nell’indissolubilità fra i tre pilastri il legame e la necessità reciproca, strutturale e profonda, fra antispecismo da una parte, ecologismo e decrescita dall’altra. Il primo contesto concentra la sua critica sul modello culturale, gli altri due sulle pratiche e, limitatamente alla decrescita, sui rapporti sociali, ma nessuno di questi particolari punti di vista può tradursi in un’alternativa reale se non ci si rende conto che, come già detto, si sta guardando da tre punti di vista diversi uno stesso, indivisibile processo storico.
Un’ultima cosa da dire è che i processi di formazione ed evoluzione dei modelli di cultura, su cui sono ormai convinto che dovremo concentrare in maniera prioritaria la nostra attenzione futura, non avvengono a tavolino, cioè non si tratta di processi che appartengono alla sfera razionale, ma che al contrario – non a caso prima ho citato l’inconscio – risiedono nelle parti sotterranee della nostra psiche, dove la razionalità non arriva, e la cui elaborazione si compie senza che l’individuo ne abbia alcuna consapevolezza.
Non è che i GAS seguano la linea che ho prima descritto perché i loro membri sono ipocriti o stupidi né lo è l’animalista che ha scritto quella frase sul web: sono tutti persone in buona fede e intelligenti, ma la buona o la cattiva fede, l’intelligenza o la stupidità non c’entrano niente perché i meccanismi psichici che entrano in gioco bypassano le facoltà di analisi critica della nostra mente, e purtroppo l’essere umano funziona così. E questo probabilmente è anche il motivo per cui il movimento alternativo è a pezzi. Perché quando si aderisce a un’associazione, a un’entità che vorrebbe modificare un pezzetto della realtà, lo si fa probabilmente perché le proprie esigenze identitarie non vengono soddisfatte in maniera completa dal sistema dominante e allora si cercano altre realtà identitarie che compensino questa incompletezza e solo essa, ma che comunque sono anch’esse realtà identitarie, funzionanti dunque secondo quegli stessi meccanismi di coesione del gruppo sociale dominante. Per questo motivo qualsiasi ipotesi di cambiamento – e questo è alla fine il risultato fondamentale, e generalizzabile, della ricerca sul contesto agroalimentare che ho qui citato, – non va mai posta a livello di individuo bensì sempre a livello di gruppo, soprattutto quando il cambiamento riguarda quelle pratiche che ne definiscono l’identità.
1 Dati tratti da: AA VV, Livestock’s long shadow, FAO, Roma, 2006.
2 Occore precisare che qui parlo di ciò che Marco Maurizi definì antispecismo metafisico e che un primo passo verso il superamento dei suoi limiti può essere identificato nella visione storica dello specismo come prassi del dominio e conseguente giustificazione ideologica, che si deve a quest’ultimo (vedi M. Maurizi, Al di là della natura, Novalogos, Aprilia, 2011 e Cos’è l’antispecismo politico, Per Animalia Veritas, Roma, 2012).
3 Anche qui è necessario fare delle distinzioni. Questa concezione impersonale e in funzione umana della biosfera è più accentuata in Latouche, meno in Pallante. Cito di solito a tale proposito le seguenti due frasi, rispettivamente del primo e del secondo:
«I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell’umanità.» (Latouche)
«La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.» (Pallante)
Si noti che mentre Latouche parla di “patrimonio” in quanto oggetto da preservare “per l’uomo” Pallante parla esplicitamente di “tutte le specie viventi” della Terra come cobeneficiarie dei vantaggi del nuovo paradigma e dunque come soggetti, socchiudendo con ciò una porta verso il superamento della visione antropocentrica che invece in Latouche sembra rimanere ben chiusa.
4 La società preindustriale è un valido punto di riferimento limitatamente all’elaborazione delle cosiddette “buone pratiche”, buone in quanto a bassa energia, che la crisi sistemica del pianeta rende oggi di pressante attualità, ma ha in comune con la società industriale la caratteristica di essere una società “calda” (Lévi-Strauss) e dunque intrinsecamente tendente al divenire storico. Se così non fosse la mutazione industriale non avrebbe mai attecchito su di essa.
5 Più in generale è necessaria una visione “centrica”, coinvolgente anche, inevitabilmente, i rapporti con le altre società umane: se una società pretende di espandersi infinitamente lo farà non solo a danno delle comunità viventi non umane ma anche delle altre comunità umane. Vale ancora una volta il concetto: “i confini della polis sono i confini dell’umano”.
6 F. Schillaci (a cura di), Un pianeta a tavola, Edizioni per la decrescita felice, Roma, in corso di pubblicazione.
7 Abbiamo poi fatto un altro piccolo test: abbiamo inviato questi risultati ai GAS che avevano partecipato al sondaggio e abbiamo chiesto loro di discuterli al loro interno e farci sapere quali tendenze sarebbero emerse da questa discussione. Non abbiamo ricevuto nessuna risposta significativa.
8 Mi riferisco ovviamente all’allevamento ma anche l’agricoltura, imponendo una contrapposizione fra selvatico e coltivato, implica l’elaborazione di una visione in qualche misura antropocentrica."