Lo shale gas
americano sta producendo effetti a catena, tra cui il crollo del prezzo del
carbone, divenuto tanto conveniente che tutte le centrali alimentate con esso
in Europa vanno funzionando al massimo. In Cina si assiste all’apertura
quotidiana di nuove centrali, e il consumo di carbone cinese è salito alle
stelle. Le rinnovabili non sono
ancora competitive e i costi sono proibitivi per una vera concorrenza con le
fonti tradizionali. Scaroni, ad dell’Eni, recentemente volato a Boston per
discutere al Mit lo stato della ricerca, conferma che finché non si migliorano
i rendimenti e i sistemi di stoccaggio dell’energia per restituirla quando
richiesta, le rinnovabili sono out e sopravvivono solo per i sussidi.
Sul fronte del
petrolio ci si aspetterebbe un calo dei prezzi, come per il carbone. L'immissione sui mercati dello shale gas americano, la diminuzione della richiesta, gli effetti della crisi porterebbero in teoria ad una riduzione dei prezzi. La previsione del prossimo sfruttamento di giacimenti di petrolio attraverso la tecnica del fracking dovrebbe contribuire a tener bassi i prezzi: paesi come Cina, Brasile,
Russia e soprattutto gli Usa e Canada si preparano ad estrarre con questo
metodo immensi giacimenti. Il petrolio ha invece sfondato i 110 dollari al
barile, un aumento non giustificato dalla situazione oggettiva della produzione. Parlare di picco del petrolio in questa situazione è fuori luogo: non si tratta di riduzione dei giacimenti i quali, con le nuove tecnologie, rimangono assai superiori alla richiesta. Ci sono varie spiegazioni per il mancato calo: riduzione degli stock,
domanda solida e timore che gli eventi in Egitto limitino le forniture. Una
quarta ragione la riporta Carsten Fritsch, analista di Commerzbank: “Ci sono
molti investimenti speculativi sul petrolio”. Sul calo dei depositi non ci sono
spiegazioni chiare: in teoria il calo dei consumi dovuto alla crisi e la minore
richiesta degli Usa per le politiche di efficienza energetica e la maggiore
disponibilità di shale gas avrebbe dovuto aumentare gli stock. Le raffinerie
lavorano al 92 % della capacità, quindi la fornitura globale è ai massimi: come
si spiegano allora quei 20 milioni di barili in meno, visto che gli Usa hanno
drasticamente ridotto l’import dall’Arabia Saudita e né Cina né Europa hanno
necessità?
Gli analisti del
settore rilevano un dato: l’aumento dei noli delle navi cisterna, capaci di
trasportare fino a 2 milioni di barili. Lo confermano due indicatori: il Baltic
Dry Index salito del 14 %, e il Baltic Tanker Dirty Index (Bdiy) dedicato
proprio alle petroliere, che oscilla in area 612 punti. Un altro dato è
l’aumento delle scommesse al rialzo del prezzo del petrolio nei mercati
finanziari, in un periodo di minore richiesta e in cui l’instabilità politica
non sembra mostrare accelerazioni impreviste. Dove è finito il petrolio in
eccesso, tale da provocare scarsità di offerta?
Secondo alcuni
analisti potrebbe essere sulle navi cisterna, messo a riposo per garantire un
aumento artificiale del prezzo. Poi, con i future, come i dati Usa hanno
confermato, lo si rimette sul mercato a prezzi più alti. Non sarebbe la prima
volta che i grandi player usano stratagemmi simili. Nel 2008 Koch Industries,
conglomerato Usa specializzato in trasporto, raffinazione e distribuzione di
petrolio, diede vita alla “contango speculation”: comprò greggio quando costava
poco e lo stipò in container a terra e sulle navi nei porti in attesa che
salisse il prezzo. Nel dicembre 2008, Koch affittò quattro superpetroliere,
stoccò greggio al largo del Golfo del Messico e attese l’aumento dei prezzi,
avvenuto nei mesi successivi.
In un mondo dove si
fanno queste speculazioni, in presenza tra l’altro di una situazione ambientale
di alto rischio (cosa avverrebbe se ad una di queste superpetroliere capitasse
un incidente?), nessuno prende provvedimenti, non c’è difesa per i consumatori
e per i paesi energeticamente deboli che dipendono dal petrolio, e gli unici a
fare e disfare il mercato sono i grandi interessi finanziari.
Per questo Scaroni,
in una recente intervista rilasciata a Repubblica, auspica la diversificazione
delle fonti come difesa dagli interessi speculativi. L’Eni importa gas dalla
Russia ma cresce l’importazione anche da Azerbaijan e Cipro. Per il petrolio ci
sono gli interessi su nuovi pozzi in Africa. l’Italia si prepara a sfruttare, tramite l’Eni, il giacimento scoperto in Mozambico che sembra avere grosse riserve e bassi costi di produzione. In Italia il fracking non sembra avere futuro, visto l’alto inquinamento ambientale che comporta. Cresce anche in Italia l’interesse
per centrali a carbone pulite di ultima generazione (prevedono l’immissione nel
sottosuolo della CO2 e il filtraggio del particolato). Ma Scaroni non esclude anche la
necessità della riapertura del discorso sul nucleare: “La Germania ha detto che
lo abbandonerà nel 2020: quando lanci la palla così avanti puoi sempre cambiare
idea”. Anche l’Europa si muove sul
fronte del nucleare, basta leggere la seguente notizia riportata di recente dal
Corriere della Sera:
“Attuare i più
rigorosi standard di sicurezza: è l’obiettivo dell’UE sul nucleare, annunciato dal
commissario per l’Energia Guenther Oettinger, dopo le
indiscrezioni di stampa circolate nei giorni scorsi su possibili aiuti di stato
per la costruzione
di nuove centrali.
La notizia era stata diffusa dal quotidiano tedesco Sueddeutsche
Zeitung che, venuto in possesso della bozza di una normativa del Commissario
alla Concorrenza, Joaquin Almunia, ha parlato di futuri contributi nazionali
per l’estensione degli obiettivi UE sul nucleare. Secondo il quotidiano
tedesco, i piani per il nucleare contenuti nella bozza di Almunia, dovrebbero
essere presentati nella primavera del 2014.”
(Fonti: articoli da Milano Finanza, Corriere della Serra, Repubblica, siti
web specializzati)
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