L’insostenibile pesantezza della
burocrazia
Quando, appena
diciottenne, partii per un lungo viaggio verso l’allora Europa dell’Est, oltre
la cosiddetta “cortina di ferro”, tra i tanti aspetti che mi colpirono ce ne fu
uno che mi è rimasto impresso indelebilmente. Questo aspetto è difficile da
definire, non c’è un termine adeguato a descriverlo. Si tratta infatti del modo
di essere delle persone, del loro modo di comportarsi, di muoversi, di
interloquire tra loro e con lo straniero, fino all’aspetto fisico vero e
proprio. Non si trattava tanto dei sorrisi delle persone, dopo una certa età
tutti caratterizzati da uno o più denti d’acciaio (l’oro era proibito), dallo
sguardo spento, rassegnato, dalla gestualità ripetitiva e limitata, dagli abiti
tutti tendenti al grigio, privi di colori vivaci, di scarsa qualità e sdruciti.
Il senso complessivo di una vita ripetitiva, sempre uguale, priva di futuro. O
meglio, non era solo questo. Era l’impressione d’insieme sul carattere stesso
di queste persone, un carattere afflitto, depresso, senza immaginazione. Per
sintetizzare si potrebbe dire che
erano persone che davano l’impressione di meschinità e grettezza. Allora
attribuii la cosa alla situazione economica, alla povertà, alla mancanza di
competizione per arricchirsi che è spesso presente in occidente. Ma posso oggi
affermare con sicurezza che questo aspetto delle società dell’est comunista
erano soprattutto effetto del dominio assoluto della burocrazia e
dell’ideologia burocratica che dominava ogni aspetto della cultura. Questi
pensieri ha ridestato in me l’articolo di Pietro Ostellino apparso lunedì 4
febbraio sul Corriere della Sera di cui riporto un brano:
“Quando, a Mosca, portavo la
mia automobile a far riparare, una volta che la mia segretaria aveva
espletato le pratiche dovevo, per raggiungere l'officina, oltrepassare una
sbarra manovrata da un'anziana donnina. Che si rifiutava sistematicamente di
alzarla se la mia segretaria (russa) non scendeva e raggiungeva la destinazione
a piedi, mentre io ci arrivavo in auto. La ragione del comportamento di questo
«Stalin minore e in versione burocratica» era duplice. Innanzitutto,
strutturale: ogni burocrate tende a esercitare il potere di cui dispone,
grande, piccolo, infinitesimo che sia, in modo arbitrario e dispotico perché
l'autoreferenzialità è la sola «sostanziale» fonte di legittimazione che
conosca e sia disposto ad accettare; derivandogli quella «formale» dalla
politica che gliel'ha conferito. In secondo luogo, moralistica: il burocrate
crede di avere una «missione etica» da compiere. Per autolegittimarsi non si
limita ad applicare la legge; pretende di dilatarla in vista del «miglioramento
morale» dei suoi simili.
Si farebbe, però, torto al
burocrate se lo si definisse un fanatico, simile agli interpreti di certe dottrine
rivoluzionarie del passato. La sua natura non è ideologica ma teologica, cioè
ancor più illiberale. Ma non è un rivoluzionario: è un conservatore, se non un
reazionario. Crede a quello che fa ed è, a suo modo, un «chierico» della
politica, frustrato dalla sensazione di esserne «usato». La politica dovrebbe
limitarne e regolarne i poteri. Ma non ne ha l'interesse perché è, se mai, sua
convenienza lasciargli il compito di fare «i lavori sporchi», di sollevarla
dalla responsabilità di rispondere di ciò che fa e dal fastidio di «sporcarsi
le mani».
Più è esteso il potere
burocratico, minori sono le possibilità del cittadino di risalire alla
responsabilità ultima, cioè politica, di ciò che gli accade. Il rapporto fra
cittadino e burocrazia, in uno Stato caratterizzato da tale forma di arbitrio e
di dispotismo amministrativo, è un processo kafkiano senza fine. Così
funzionano i regimi autoritari e totalitari dei quali il burocrate è la lunga
mano, non di rado senza manco rendersene conto, convinto com'è di assolvere una
funzione moralizzatrice. Gli si farebbe, perciò, ancora torto se si ignorasse
che, a fondamento di tale convinzione, c'è una filosofia morale. Il guaio è che
essa coincide perfettamente con l'ideologia totalitaria. Se all'origine
dell'ostracismo della donnina della sbarra verso la mia segretaria c'era il
pregiudizio, tipicamente sovietico, che, per il solo fatto di essere al mio
fianco in auto, essa appartenesse a quella specie (limitata) di donne russe che
si prostituivano allo straniero per un paio di calze di nylon, è presto detto
quale fosse la sua filosofia morale. Lo Stato aveva il diritto di verificare
dove «tutte» le segretarie - metafora del cittadino comune - passassero serate
e pomeriggi e la società, costituita nella totalità da «cittadini onesti», era
così «collettivamente unita» da non consentire a nessuno di avere uno stile di
vita sottratto al giudizio comune. Se, poi, non era lo Stato a provvedere, ci
pensava lei, la piccola «burocrate della sbarra». Tale filosofia morale era l'essenza
del totalitarismo sovietico ed è oggi, piaccia o no, il terreno sul quale si
sviluppa, da noi, pubblicamente, il vessatorio Stato di polizia fiscale e si
concreta l'arbitrio, personale, del burocrate. Il caso sovietico merita,
perciò, una riflessione sulla prassi fiscale di certe democrazie liberali
dell'Occidente tanto apprezzata dai cultori della nostra fiscalità…
(Piero Ostellino, dal Corriere della
Sera del 4 febbraio 2013).
Fu, il mio viaggio
nell’est Europa, molto importante
per la mia formazione e contribuì
a creare in me quella fiammella della cultura liberale e dell’amore per la
libertà che sarebbe poi cresciuta con gli anni. Una cultura che in Italia non
ha mai attecchito in profondità, essendo il popolo italiano spesso vittima
volontaria di facili ideologie dietro cui si nasconde in genere il potere della
burocrazia. Non faccio distinzioni di destra o di sinistra, alla lunga infatti il potere burocratico perde il colore rosso o nero per divenire uniformemente grigio. Al potere burocratico si addicono le uniformi, sia militari che politiche. Ma lo tradiscono i volti, quelli non si possono nascondere nell'uniformità. I volti delle persone nei paesi totalitari esprimono squallore e tristezza. Il volto di un uomo libero è riconoscibilissimo per chi sa
guardare oltre le parole e le frasi fatte. Anche la mia battaglia contro la
sovrappopolazione ha a che vedere con questa aspirazione alla libertà. Credo
infatti che un mondo sovrappopolato sia inevitabilmente un mondo in cui la
burocrazia esercita un potere eccessivo e antidemocratico. In un pianeta
limitato con risorse limitate, un numero spropositatamente alto di abitanti non
può che portare al potere dei “regolatori”, di coloro che si arrogano il
diritto di decidere il come, il dove e il quanto nella vita dei cittadini. Che si arrogano il diritto di decidere
chi può e chi non può usufruire di queste o quelle risorse. Un potere che per
affermarsi si richiama a parole-totem
come giustizia ed uguaglianza, oppure nazione e moralità, ma che è
invece basato sul dominio diseguale di chi controlla lo Stato e instaura un
controllo assoluto sulla vita dei cittadini. Un potere che per automantenersi
non può che rendere i miliardi di individui, potenzialmente liberi, una massa
grigia e informe di conformismo e meschinità.
Caro Agobit, quella del burocrate è una figura a doppio taglio: indispensabile da un lato ed odiosa dall'altro.
RispondiEliminaD'altra parte tutti le società molto organizzate ne hanno bisogno e la loro crescita (sia come numero, che come potere) è direttamente proporzionale all'aumento della complessità.
La quale, a sua volta, porta lentamente al collasso.
Sicuramente conoscerai Joseph Tainter e le sue teorie sull'argomento (altrimenti puoi trovare qualcosa qui: http://ilfenotipoconsapevole.blogspot.it/2012/08/tainter-o-della-complessita.html ).
Caro lumen, conosco le teorie di Tainter sulla complessità per aver letto qualche suo articolo, credo anche sul tuo blog. Non mancherò di approfondire ulteriormente l'argomento
RispondiEliminaSi tratta di teorie importantissime, addirittura fondamentali per capire il futuro della nostra società. Eppure non esiste neppure una edizione italiana dei suoi libri. Non ti sembra una cosa assurda ?
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