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mercoledì 31 agosto 2011
PARLA UN MAESTRO: KONRAD LORENZ
LA SOVRAPPOPOLAZIONE
Tutti i vantaggi che l'uomo ha ricavato da una conoscenza sempre più approfondita della natura che lo circonda, i progressi della tecnologia, delle scienze chimiche e mediche, tutto ciò che sembrerebbe destinato a lenire le sofferenze umane, tende invece, per terribile paradosso, a favorire la rovina dell'umanità. Questa, infatti, minaccia di soccombere a un destino altrimenti quasi sconosciuto ai sistemi viventi: l'autosoffocazione. Ma la cosa più terribile di questo processo apocalittico è che, con tutta probabilità, le prime a essere travolte saranno proprio le più elevate e le più nobili qualità e attitudini dell'individuo, proprio quelle che giustamente consideriamo e apprezziamo come specificamente umane.
Nessuno di noi, che viviamo in paesi civilizzati densamente popolati, o addirittura nelle grandi città, è ormai più consapevole della nostra carenza generale di affetto e di calore umano. Bisogna avere fatto una volta l'esperienza di arrivare all'improvviso, ospite inatteso, in una casa situata in una regione poco popolata, dove i vicini siano separati da molti chilometri di strade disagiate, per riuscire a valutare quanto ospitale e generoso possa essere l'uomo quando la sua disponibilità ai contatti sociali non viene sottoposta di continuo a eccessive sollecitazioni. Me ne sono reso conto tempo fa, grazie ad un episodio che non ho più potuto dimenticare: avevo ospiti presso di me due coniugi americani del Wisconsin, che si occupavano di protezione della natura e abitavano in una casa completamente isolata nel bosco. Mentre stavamo andando a tavola per cena, suonò il campanello della porta di casa e io esclamai infastidito: "Chi è che viene a disturbarci a quest'ora?". Se avessi pronunciato la peggiore sequela di insulti i miei ospiti non ne sarebbero rimasti meno sbalorditi. Che il suono del campanello potesse suscitare una reazione che non fosse di gioia, era per loro scandaloso.
E' in larga misura colpa dell'affollarsi di grandi masse nelle metropoli moderne se, nel caleidoscopio di immagini umane che mutano e si sovrappongono e si cancellano a vicenda, non riusciamo più a riconoscere il volto del nostro prossimo. L'amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia. Chi desideri ancora coltivare sentimenti di calore e cordialità per gli altri deve concentrarli su di un esiguo numero di amici; noi non siamo, infatti, capaci di amare tutti gli uomini, per quanto ciò possa corrispondere a una norma giusta e morale. Siamo quindi costretti ad operare delle scelte, dobbiamo cioè 'tenere a distanza' in senso affettivo, molte altre persone che sarebbero altrettanto degne della nostra amicizia. L'atteggiamento del not to get emotionally involved (non lasciarsi coinvolgere emotivamente) costituisce una delle preoccupazioni primarie per molti abitanti dei grandi centri urbani. Questa posizione, entro certi limiti inevitabile per ciascuno di noi, è però viziata da una componente di disumanità; essa ci richiama infatti alla mente il comportamento degli antichi proprietari di piantagione americani che trattavano molto umanamente i loro negri 'di casa' mentre gli schiavi delle loro piantagioni venivano considerati, nella migliore delle ipotesi poco più che animali domestici di un certo valore. Questo schermo deliberatamente interposto per impedire i contatti umani, sommandosi con il generale appiattimento dei sentimenti di cui tratteremo in seguito, finisce per condurre a quelle spaventose manifestazioni di indifferenza di cui parlano ogni giorno i nostri giornali*. Man mano che aumenta la massificazione delle persone, l'esigenza del not to get involved diviene per il singolo sempre più pressante, al punto che proprio nei grandi centri urbani possono oggi verificarsi episodi di rapine, assassini, violenze in pieno giorno e nelle strade più frequentate senza che alcun 'passante' intervenga.
L'accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto non solo provoca indirettamente, attraverso il progressivo dissolversi e insabbiarsi dei rapporti fra gli uomini, vere e proprie manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo. Molti esperimenti hanno dimostrato che l'aggressività intraspecifica viene incrementata se gli animali sono alloggiati in gran numero nella stessa gabbia. Chi non abbia conosciuto di persona la prigionia in tempo di guerra o analoghe aggregazioni forzate di molti individui, non può valutare a quale livello di meschina irritabilità si possa giungere in tali circostanze. E proprio se uno cerca di controllarsi impegnandosi a dimostrare quotidianamente e in ogni momento un comportamento cortese, cioè amichevole, verso altri uomini che tuttavia non sono amici, la situazione diventa un vero supplizio. La generale scortesia che si osserva in tutti i grandi centri urbani è chiaramente proporzionale alla densità delle masse umane ammucchiate in un dato luogo. Punte massime spaventose vengono raggiunte, ad esempio, nelle grandi stazioni ferroviarie o nel Bus-Terminal di New York.
La sovrappopolazione provoca indirettamente tutti quegli inconvenienti e quei fenomeni di decadenza che saranno l'argomento dei prossimi sette capitoli: la credenza che attraverso un adeguato 'condizionamento' si possa formare un nuovo tipo di individuo immunizzato contro le conseguenze nefaste del sovraffollamento mi sembra rappresentare un'illusione pericolosa.
(Tratto da: KONRAD LORENZ: GLI OTTO PECCATI CAPITALI DELLA NOSTRA CIVILTA', Adelphi, 1974, capitolo II).
* E' appena il caso di ricordare l'indifferenza dei nostri midia e dei cittadini alle stragi di migranti per i naufragi delle carrette del mare che avvengono quasi quotidianamente al giorno d'oggi. Anche queste aberrazioni sono, come dice Lorenz, il portato della sovrappopolazione del pianeta.(Nota del curatore del Blog).
domenica 28 agosto 2011
QUELLO CHE NON SI PUO' DIRE SULLA TBC A ROMA
Dal sito del Corriere.it: "ROMA - Altri dieci neonati , tre femmine e sette maschi, sono risultati positivi al test per la tbc: tre dei bambini positivi sono nati nel mese di marzo, tre nel mese di maggio, tre nel mese di giugno e uno nel mese di luglio, tutti al policlinico Gemelli di Roma dove lavora l'infermiera che si è ammalata di tubercolosi. La notizia è stata comunicata dall'Unità di coordinamento della Regione Lazio, chiamata a gestire l'attività di controllo sui nati al Policlinico Gemelli inseriti nel programma di sorveglianza sulla Tubercolosi. Il totale dei bimbi positivi al test sale dunque a quota 34. C'è poi il caso della bimba di cinque mesi ricoverata al Bambino Gesù, le cui condizioni non destano preoccupazioni e la cui malattia però non è ancora collegabile con certezza all'infermiera del Gemelli, ora ricoverata allo Spallanzani".
Commento del curatore del Blog
La colpa della epidemia non è della povera e ignara infermiera, come all'inizio si è sostenuto. Né dei medici del Gemelli che, fino a prova contraria, non dispongono di apparecchi radiologici installati nel cervello, come a volte si pretende. Il problema nasce dal continuo massiccio afflusso nel nostro paese di immigrati provenienti da zone dove la TBC è endemica, fortemente diffusa tra la popolazione. Aree dove la povertà, la mancanza di risorse e la corruzione impediscono sia di sottoporre a screening le persone che di curarle con terapie adeguate. Aree caratterizzate tutte da un alto tasso di natalità e da sovrappopolazione che impedisce le politiche di investimento in sanità, strutture diagnostiche, farmaci, strategie di sviluppo. Questa verità è inutile cercarla sui giornali o nelle notizie di radio e tv, non la troverete, perché non è politicamente corretta. Secondo i midia nostrani (ma anche europei, un po' meno quelli americani più empirici e basati su dati reali) i casi di tubercolosi in aumento in tutto l'occidente sono fatalità, disattenzione, errori individuali o casi di malasanità. Nel nostro paese i casi di tbc erano circa un centinaio all'anno negli anni 70, mentre oggi sono 5000 casi all'anno (dati istat, sottostimati in quanto vengono riportati solo i casi regolarmente denunciati e diagnosticati, tralasciando tutti i casi non diagnosticati e di tbc latente- la maggioranza-). Questo vertiginoso aumento in pochi anni non è frutto di dinamiche individuali, errori di singoli o fatti episodici. Al contrario è frutto del massiccio incontrollato afflusso di clandestini e irregolari nel nostro paese, dove a differenza ad esempio degli Usa, non viene eseguito alcun controllo sanitario, nessuna radiografia, nessun esame di laboratorio prima di accordare un qualunque permesso o carta provvisoria. Eppure molti dei casi individuati provengono da paesi, come quelli del centro e del nord Africa, in cui percentuali rilevanti della popolazione sono affetti da tbc o ne sono portatori latenti-le percentuali sono consultabili nei siti di epidemiologia della malattia tubercolare-. La TBC presenta attualmente una forte recrudescenza in Africa anche per la concomitante endemia della Sindome di immunodeficienza acquisita da retrovirus (AIDS), anch'essa legata alla sovrappopolazione e agli alti tassi di natalità in territori sprovvisti di minime risorse sanitarie. La diffusione della malattia tubercolare da parte di immigrati vale anche per quelli provenienti dal sud-est dell' Asia e da alcuni paesi dell'est europeo, dove una rilevante quota di popolazione è affetta dall'infezione. Nei nostri ospedali circa il 50 % di nuovi casi di tubercolosi riscontrati ogni anno riguardano immigrati provenienti dal centro e nord Africa, ed un altro 20-30 % da paesi asiatici e dell'est europeo. Spesso i malati hanno forme polmonari, ma molti hanno tbc sotto forma di "scrofola" (tbc dei linfonodi), o di infezione intestinale, renale e ossea. Un'alta percentuale inoltre ha la forma latente di tbc, temporaneamente non infettante ma pronta a riattivarsi in qualsiasi momento. Non è dunque una sorpresa che sempre più cittadini italiani, come è il caso della infermiera del Gemelli, si possano ammalare e possano trasmettere il micobatterio alle persone con cui vengono a stare vicine (per la trasmissione basta la via aerea) come è avvenuto con i neonati del reparto di neonatologia. La trasmissione per fortuna non significa malattia, ma certamente porta in alto la probabilità di contagio. La necessità di strategie di contrasto alla malattia nei paesi di origine va collegata alla necessità di un adeguato controllo del tasso di natalità, perché solo con un rapporto più equilibrato tra popolazione locale e risorse ambientali è possibile attuare e finanziare campagne e mezzi di prevenzione e diagnosi, strategie terapeutiche, e ridurre i flussi incontrollati di immigrazione verso l'Europa.
La TBC non è l'unica malattia nel nostro paese (ed in Europa) legata agli alti flussi immigratori generati dalla sovrappopolazione. Basti ricordare la recente epidemia in centro Italia da virus del Nilo occidentale e altri Flavivirus come quello della Dengue, epidemia in Veneto e Lombardia (2009-2011) ma anche Lazio e altre regioni(2010-2011), entrambi trasmessi dalle zanzare nostrane mediante puntura di portatori per lo più immigrati provenienti da aree endemiche (Asia, Africa). Oppure le parassitosi intestinali come enterobius vermicolaris, entamoeba coli, strongyloides stercoralis, giardia intestinalis e tanti altri che ci vengono regalati dai flussi migratori non sottoposti ad alcun controllo per un mal inteso e mistificante senso del "politically correct". Queste parassitosi e virosi, come la tbc, trovano il proprio serbatoio e il mezzo idoneo di sviluppo e proliferazione in quelle aree densamente popolate e povere e sono intimamente connesse al problema sovrappopolazione e alle promiscuità determinata dalla arretratezza sociale ed economica.
PS Qui nessuno vuole ovviamente criminalizzare gli immigrati irregolari e clandestini, che sono vittime non colpevoli. Essi vanno curati, magari con aiuti che si rivolgano agli ambienti di provenienza, oltre che con la coscienza della malattia che la sovrappopolazione costituisce per l'intero pianeta. Criminali sono invece chi,sia esso amministratore, politico o operatore di midia, sapendo ma facendo finta di non sapere, mistifica sulla pelle di noi tutti per rigidità ideologica, interesse personale o pura stupidità.
Commento del curatore del Blog
La colpa della epidemia non è della povera e ignara infermiera, come all'inizio si è sostenuto. Né dei medici del Gemelli che, fino a prova contraria, non dispongono di apparecchi radiologici installati nel cervello, come a volte si pretende. Il problema nasce dal continuo massiccio afflusso nel nostro paese di immigrati provenienti da zone dove la TBC è endemica, fortemente diffusa tra la popolazione. Aree dove la povertà, la mancanza di risorse e la corruzione impediscono sia di sottoporre a screening le persone che di curarle con terapie adeguate. Aree caratterizzate tutte da un alto tasso di natalità e da sovrappopolazione che impedisce le politiche di investimento in sanità, strutture diagnostiche, farmaci, strategie di sviluppo. Questa verità è inutile cercarla sui giornali o nelle notizie di radio e tv, non la troverete, perché non è politicamente corretta. Secondo i midia nostrani (ma anche europei, un po' meno quelli americani più empirici e basati su dati reali) i casi di tubercolosi in aumento in tutto l'occidente sono fatalità, disattenzione, errori individuali o casi di malasanità. Nel nostro paese i casi di tbc erano circa un centinaio all'anno negli anni 70, mentre oggi sono 5000 casi all'anno (dati istat, sottostimati in quanto vengono riportati solo i casi regolarmente denunciati e diagnosticati, tralasciando tutti i casi non diagnosticati e di tbc latente- la maggioranza-). Questo vertiginoso aumento in pochi anni non è frutto di dinamiche individuali, errori di singoli o fatti episodici. Al contrario è frutto del massiccio incontrollato afflusso di clandestini e irregolari nel nostro paese, dove a differenza ad esempio degli Usa, non viene eseguito alcun controllo sanitario, nessuna radiografia, nessun esame di laboratorio prima di accordare un qualunque permesso o carta provvisoria. Eppure molti dei casi individuati provengono da paesi, come quelli del centro e del nord Africa, in cui percentuali rilevanti della popolazione sono affetti da tbc o ne sono portatori latenti-le percentuali sono consultabili nei siti di epidemiologia della malattia tubercolare-. La TBC presenta attualmente una forte recrudescenza in Africa anche per la concomitante endemia della Sindome di immunodeficienza acquisita da retrovirus (AIDS), anch'essa legata alla sovrappopolazione e agli alti tassi di natalità in territori sprovvisti di minime risorse sanitarie. La diffusione della malattia tubercolare da parte di immigrati vale anche per quelli provenienti dal sud-est dell' Asia e da alcuni paesi dell'est europeo, dove una rilevante quota di popolazione è affetta dall'infezione. Nei nostri ospedali circa il 50 % di nuovi casi di tubercolosi riscontrati ogni anno riguardano immigrati provenienti dal centro e nord Africa, ed un altro 20-30 % da paesi asiatici e dell'est europeo. Spesso i malati hanno forme polmonari, ma molti hanno tbc sotto forma di "scrofola" (tbc dei linfonodi), o di infezione intestinale, renale e ossea. Un'alta percentuale inoltre ha la forma latente di tbc, temporaneamente non infettante ma pronta a riattivarsi in qualsiasi momento. Non è dunque una sorpresa che sempre più cittadini italiani, come è il caso della infermiera del Gemelli, si possano ammalare e possano trasmettere il micobatterio alle persone con cui vengono a stare vicine (per la trasmissione basta la via aerea) come è avvenuto con i neonati del reparto di neonatologia. La trasmissione per fortuna non significa malattia, ma certamente porta in alto la probabilità di contagio. La necessità di strategie di contrasto alla malattia nei paesi di origine va collegata alla necessità di un adeguato controllo del tasso di natalità, perché solo con un rapporto più equilibrato tra popolazione locale e risorse ambientali è possibile attuare e finanziare campagne e mezzi di prevenzione e diagnosi, strategie terapeutiche, e ridurre i flussi incontrollati di immigrazione verso l'Europa.
La TBC non è l'unica malattia nel nostro paese (ed in Europa) legata agli alti flussi immigratori generati dalla sovrappopolazione. Basti ricordare la recente epidemia in centro Italia da virus del Nilo occidentale e altri Flavivirus come quello della Dengue, epidemia in Veneto e Lombardia (2009-2011) ma anche Lazio e altre regioni(2010-2011), entrambi trasmessi dalle zanzare nostrane mediante puntura di portatori per lo più immigrati provenienti da aree endemiche (Asia, Africa). Oppure le parassitosi intestinali come enterobius vermicolaris, entamoeba coli, strongyloides stercoralis, giardia intestinalis e tanti altri che ci vengono regalati dai flussi migratori non sottoposti ad alcun controllo per un mal inteso e mistificante senso del "politically correct". Queste parassitosi e virosi, come la tbc, trovano il proprio serbatoio e il mezzo idoneo di sviluppo e proliferazione in quelle aree densamente popolate e povere e sono intimamente connesse al problema sovrappopolazione e alle promiscuità determinata dalla arretratezza sociale ed economica.
PS Qui nessuno vuole ovviamente criminalizzare gli immigrati irregolari e clandestini, che sono vittime non colpevoli. Essi vanno curati, magari con aiuti che si rivolgano agli ambienti di provenienza, oltre che con la coscienza della malattia che la sovrappopolazione costituisce per l'intero pianeta. Criminali sono invece chi,sia esso amministratore, politico o operatore di midia, sapendo ma facendo finta di non sapere, mistifica sulla pelle di noi tutti per rigidità ideologica, interesse personale o pura stupidità.
domenica 21 agosto 2011
LA BOMBA AFRICANA
Dopo la fine del colonialismo ci furono grandi speranze. Ma da subito si capì che l'Africa post-coloniale non sarebbe divenuta il promesso paradiso sulla terra. Osservatori disincantati parlarono di un'Africa in preda al disfacimento, alle lotte tribali, alla distruzione ecologica, al massacro degli uomini e degli animali. Il giornalista Gualtiero Jacopetti, che la conosceva bene, disse che "l'Africa dopo la dominazione bianca sarà molto ma molto peggio di prima". Nel lungometraggio "Africa Addio" girato agli inizi degli anni '60 aveva preconizzato: "nel prossimo secolo si scanneranno". E così è stato. Basti pensare alle stragi in Rwanda, Congo, Nigeria, Sudan, in Etiopia, in Somalia, in Guinea Equatoriale, in Liberia, in Costa d'Avorio.
La corruzione e l'incapacità delle classi dirigenti locali ha accentuato il disastro. Le grandi e medie città del continente cresciute senza regole, le discariche sorte ovunque, la mancanza di qualunque regola verso l'ambiente, l'estrazione senza limiti delle risorse ambientali e del sottosuolo da parte degli ex colonizzatori e delle imprese multinazionali con interessi globalizzati, la deforestazione per uso antropico del territorio, il bracconaggio, l'uso massiccio di inquinanti e tossici (tra cui l'eternit), lo sversamento nei fiumi e corsi d'acqua, l'uso da rapina delle fonti idriche in rapido esaurimento, hanno moltiplicato in pochi decenni la devastazione portando alla perdita di vaste aree di foreste e savana e all'accelerazione del già rilevante fenomeno della desertificazione.
Su tutto si è innestato il problema sovrappopolazione, innescando un problema esplosivo che sta preparando per l'Africa e il mondo una vera e propria bomba.Le proiezioni Onu dicono che la popolazione africana aumenterà di oltre il doppio, salendo dagli 850 milioni di unità del 2003 a 1,8 miliardi (ma c'è chi parla di due miliardi) nel 2050.
Quando il Kenia era una colonia britannica aveva cinque milioni di abitanti, oggi ne ha trenta.E quelle terre descritte in maniera sublime da Karen Blixen oggi sono un luogo di sterminio di animali, di aberrazioni ecologiche e umane come la periferia di Nairobi.
Il boom demografico africano ha molte cause. La cultura locale, gli aiuti concessi senza responsabilizzare le popolazioni locali, il disinteresse per una programmazione familiare e uno sviluppo del territorio da parte dei capi di governo africani e delle imprese straniere. Le organizzazioni religiose con la loro lotta alla contraccezione.
Un importante argomento demografico è la relazione fra alta fecondità e povertà: può la povertà essere la causa di un alto tasso di natalità? Oppure, può una rapida impennata demografica provocare povertà? Le risposte che emergono, soprattutto grazie al lavoro dell’economista Partha Dasgupta, sembrano affermative in entrambi i casi. Uno scatto repentino della crescita demografica ostacola la capacità delle istituzioni di soddisfare i bisogni in aumento della popolazione in termini di infrastrutture, scuole, ospedali e produzione alimentare. Questo è particolarmente problematico quando una larga quota della popolazione (in alcuni casi si arriva al 50%) è composta da giovani sotto i 15 anni. Quando la popolazione raddoppia in un lasso temporale di 18-25 anni, è molto difficile anche solo mantenere il passo con la crescita demografica; migliorare è praticamente impossibile. Alcuni dei paesi più poveri e meno sviluppati infatti hanno perso terreno negli ultimi decenni.
Il ruolo della povertà sui tassi di fecondità è invece meno netto, anche se è evidente che di solito è accompagnata da analfabetismo e mancanza di accesso ai servizi sociali. La mancanza di lavoro retribuito e di incentivi culturali, insieme alla scarsa scolarizzazione, limitano l’indipendenza delle donne e la loro capacità di fare scelte personali. Tutto questo a sua volta promuove l’alta fecondità. Nelle famiglie rurali povere allo stesso risultato concorre anche il valore dei bambini, preziosi per il rifornimento di acqua e la ricerca di legna da ardere.
Il tasso di natalità per l’Africa sub-sahariana è di 6,5 figli per donna. Nel Niger addirittura 7,6 il più alto tasso di natalità al mondo. In Uganda, Mali e Zambia siamo a livelli di poco inferiori. Questi tassi così alti hanno solo un significato: morte per le specie viventi uniche e preziose dell'ambiente africano, morte per le savane, morte per bacini e corsi idrici, morte per la varietà genetica tipica di una terra rimasta l'ultimo ecosistema per tante specie animali e vegetali che non hanno altri habitat nel pianeta, e infine morte per un'enorme numero di uomini che saranno condannati a perire per conflitti, malattie e mancanza di risorse ambientali.L’Africa si avvia così verso una catastrofe di dimensioni planetarie. Il boom demografico avviene incontrastato e in presenza di una economia che è poverissima e la più arretrata del pianeta. In presenza di una cultura di deresponsabilizzazione e di impreparazione culturale e materiale al lavoro. Impreparazione, irresponsabilità che, insieme alla corruzione delle classi dirigenti, è figlia delle politiche occidentali verso l’Africa, dal colonialismo all’assistenzialismo fine a se stesso,e poi di quelle politiche di intervento governativo o peggio spontaneo in cui gli aiuti venevano “paracadutati” in territori deserti, senza risorse, tra popolazioni analfabete. Andiamo verso i due miliardi di umani in una terra devastata dall'AIDS che ha trovato qui il proprio terreno ottimale di endemia nella promiscuità, nella povertà, nell’eccesso demografico rispetto alle risorse. Le responsabilità dei governi e delle chiese cristiane sono immani in questa tragedia. Si sono dati aiuti senza chiedere sforzi, senza una politica di istruzione al lavoro, di cultura della produzione in agricoltura e nell’artigianato, senza insegnare i metodi per il commercio locale e la piccola intrapresa in aziende anche rudimentali e adatte al contesto. Aiuti dati senza condizioni, senza un discorso sulle politiche demografiche, sul rapporto tra popolazione e territorio, tra natalità e risorse. Non si è mai affrontato il problema ambientale e dei limiti della crescita demografica. Si è andati lì, prima da parte dei paesi occidentali e dei sovietici, oggi da parte delle nuove economie asiatiche, prospettando un futuro di crescita senza limiti sia dai fautori del mercato che dai socialisti progressisti di ispirazione marxista, a cui hanno dato man forte le chiese di ogni risma con il biblico “andate e prolificate”. Le organizzazioni religiose e politiche onlus hanno avuto un ruolo grave fino a rasentare il crimine, in questa opera di mistificazione mascherata da propositi umanitari. Si è così deresponsabilizzato, si è instillata la cultura del regalo, delle risorse a pioggia che prima o poi sarebbero arrivate a risolvere tutto. Si è predicato alle tribù nel deserto, in un ambiente privo di risorse per popolazioni in forte crescita demografica. Il danno fatto è gigantesco ed epocale. L’Africa è un continente malato e può intossicare il mondo. L’Africa, ha paesaggi stupendi, patrimoni naturali e zoologici meravigliosi che però stanno morendo sotto una pressione antropica incontrastata ed esplosiva. Spariranno per sempre specie viventi ormai uniche, già ridotte a poche migliaia di esemplari dal bracconaggio e dal commercio di prodotti animali come l’avorio e le pelli, gli animali stessi usati come fenomeni da baraccone o come "divertissement" domestici. La distruzione delle foreste e delle savane procede incontrastata e si accentuerà con l'aumento esplosivo della popolazione. Ma la bomba demografica non distruggerà solo il continente africano. Milioni di migranti, spinti dalla fame, dalla povertà, dalla scarsità di risorse e dai miraggi artificiali dei midia occidentali si avvieranno con tutti i mezzi verso le coste del Nord Africa che guardano all’Europa. E’ un fenomeno che riguarderà tutto il secolo XXI e che contribuirà al declino economico e alla devastazione ambientale della già sovrappopolata terra europea.
mercoledì 17 agosto 2011
Gli Orsi e gli Animali Feroci
Orsi in paese a Scanno: paura fra i turisti. E il parco d'Abruzzo limita le gite
Ex sindaco scrive al prefetto: intervenite. Numero chiuso nell'area naturale causa concentrazione di plantigradi
ROMA - L'orso bruno non ha più paura dell'uomo. E si avvicina sempre più spesso ai centri abitati: fino a scorrazzare per le vie di un borgo abruzzese in questi giorni affollato da villeggianti. Lo denuncia l'ex sindaco e segretario del Pd di Scanno (L'Aquila), Pietro Spacone. Chi ha paura, adesso, sono abitanti e turisti. Intanto l'ente Parco nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise impone il numero chiuso per le gite nell'area naturale «a causa della forte concentrazione di orsi». Dentro il paese ormai sarebbero numerosi gli avvistamenti, almeno uan decina: «Io stessa ne ho visto uno - conferma un'impiegata comunale - era un esemplare adulto, non grandissimo. Ma nemmeno troppo piccolo. Mi è capitato verso sera.
CARDIOPATICI A RISCHIO - Nel corso dell'estate, a Scanno si sono verificati numerosi «incontri ravvicinati»: qualcuno si è sentito male per lo spavento. Così il segretario del Pd di Scanno ha inviato una richiesta per «adottare sollecite misure di intervento» al prefetto de L'Aquila, al Corpo forestale dello Stato e al presidente del Parco nazionale d'Abruzzo. Nella lettera - indirizzata anche al sindaco di Scanno e ai carabinieri - Spacone sottolinea come gli abitanti de luogo vivano «con disagio e notevole preoccupazione» l'invadenza degli orsi. E si domanda: «Se ad incontrare l'orso fosse stato un bambino oppure una persona debole di cuore, che cosa sarebbe accaduto?». Per concludere: «Occorre prendere provvedimenti, perchè ci sono orsi che non hanno timore di avvicinarsi o farsi vedere dall'uomo e che potrebbero rappresentare potenziale rischio e pericolo per la pubblica incolumità delle persone».
IL BESTIONE «CONFIDENTE» - L'allarme è dovuto non ad una generica invasione di orsi, ma alla presenza di quelli che vengono definiti «orsi confidenti», e questi vanno tenuti sotto controllo perchè hanno l'abitudine di avvicinarsi troppo all'uomo. «L’Orso bruno va sicuramente tutelato e protetto - precisa Spacone -, ma gli esemplari di Orsi confidenti, pochi per fortuna, vanno rieducati a recuperare la propria indole selvatica affinché tornino a vivere nel proprio habitat naturale, ai margini dei centri abitati».
L'invasione dei «confidenti» non è un fenomeno improvviso - già nell'autunno 2010 un bestione aveva fatto razzia di galline in un pollaio di Scanno - ma a preoccupare è l'elevato numero di sconfinamenti in paese di questi giorni. Tanto che il portale scanno.org segnala l'istituzione, da parte del Parco d'Abruzzo, di un «numero verde di pronto intervento» attivo di notte (dalle 19 alle 8, è l'800 010 905) per segnalare la presenza di orsi confidenti nei centri abitati. Durante il giorno, invece, eventuali segnalazioni vanno inoltrate al Servizio di sorveglianza del parco (0863.9113241)
(Tratto dal Corriere della Sera del 18-08-2011)
NOTA DEL CURATORE DEL BLOG:
Una notizia antropocentrica. Sono gli orsi che invadono il nostro ambiente o siamo noi che abbiamo invaso il loro? Dove devono stare gli orsi se non in alta montagna? Se sconfinano nei centri abitati dagli umani sono orsi “confidenti” e se ne fa loro una colpa. Se ne devono stare nelle loro riserve o saranno presi a fucilate…
Quando smetteremo di ragionare così? Quando ci metteremo a capire che siamo noi che stiamo inquinando e distruggendo il pianeta, non i poveri orsi o gli altri animali che non fanno altro che stare nel loro ambiente? Eppure sono ridotti a pochi esemplari: quei pochi animali che, nonostante l’uomo e la sua forsennata libido di distruzione, ancora sopravvivono nei loro ambienti naturali. Gli permettiamo di vivere solo se fanno le belle statuine negli zoo-safari. Quando vengono fuori a curiosare o cercare cibo (esattamente quello che facciamo noi con loro) allora apriti cielo! Gli animali feroci invadono le nostre città! I veri animali feroci siamo noi, i veri invasori siamo noi.
Quando impareremo a pensare? Quando impareremo che noi, gli orsi e tutti gli altri animali apparteniamo tutti insieme alla grande famiglia del pianeta terra?
giovedì 11 agosto 2011
Un articolo fondamentale sulla sovrappopolazione
OTTIMISMO E SOVRAPPOPOLAZIONE
di Virginia Abernethy
traduzione di Carpanix
Ebbene, sì, l’Occidente deve fare attenzione ai problemi relativi alla popolazione del Terzo Mondo. Ma che tipo di attenzione? La saggezza convenzionale sostiene che lo sviluppo economico — e quindi l’aiuto economico da parte dell’Occidente — sia la chiave per frenare la crescita della popolazione nelle nazioni povere. Non è vero, dice l’autore…
Introduzione
Progresso e popolazione
Il messaggio della penuria
Pensare localmente
Introduzione
La sovrappopolazione affligge la maggior parte delle nazioni, ma rimane primariamente un problema locale — un’idea che questo articolo cercherà di spiegare. Anche il controllo della riproduzione (la soluzione) è primariamente locale; esso nasce dalla sensazione che le risorse si stiano riducendo. In queste circostanze gli individui e le coppie spesso vedono la limitazione delle dimensioni della famiglia come il più probabile percorso verso il successo.
Molti studiosi, antichi e moderni, hanno sempre saputo che le reali dimensioni della famiglia sono connesse molto strettamente al numero di figli che la gente desidera. Paul Demeny, del Population Council, è eccezionalmente chiaro a questo proposito, e l’economista della Banca Mondiale Lant Pritchett asserisce che l’85-90% dei tassi di fecondità reali possono essere spiegati dai desideri dei genitori — non dalla mera disponibilità di contraccettivi. Pritchett scrive che “l’imponente declino della fertilità osservato nel mondo contemporaneo è dovuto quasi interamente all’altrettanto imponente declino del desiderio di fecondità.” Dell’opinione di Paul Kennedy, espressa nel suo libro Preparandosi al XXI secolo, secondo la quale “l’unico mezzo pratico per assicurare un calo nei tassi di fecondità, e quindi nella crescita della popolazione, è l’introduzione di forme di controllo delle nascite economiche ed affidabili”, Pritchett dice: “Non avremmo potuto inventare una affermazione più chiara e articolata del punto di vista che sosteniamo essere sbagliato”.
Progresso e Popolazione
Dati interculturali e storici suggeriscono che la gente ha solitamente limitato le proprie famiglie ad una dimensione coerente con la possibilità di vivere comodamente in comunità stabili. Se lasciate indisturbate, le società tradizionali sopravvivono per lunghi periodi in equilibrio con le risorse locali. Una società dura in parte perché si mantiene entro le capacità di carico del suo ambiente.
Ad ogni modo, la percezione dei limiti che derivano dall’ambiente locale è facilmente neutralizzata da segnali che promettono prosperità. Citando l’ultimo Georg Borgstrom, un riconosciuto scienziato alimentarista e un pluridecorato specialista in economie del Terzo Mondo che morì nel 1989, una pubblicazione del Population Reference Bureau del 1971, spiega:
Una quantità di civiltà, incluse quelle dell’India e dell’Indonesia, “avevano una chiara idea dei limiti dei loro villaggi o comunità” prima che l’intervento straniero corrompesse gli schemi tradizionali. I programmi di aiuto tecnologico… “li indussero a credere che l’adozione di certi avanzamenti tecnologici stava per liberarli da questi vincoli e dalla dipendenza da queste restrizioni”.
L’espansione economica, specialmente se introdotta dall’esterno della società e su larga scala, incoraggia la convinzione che i limiti precedentemente riconosciuti come validi possano essere tenuti in poco conto, che ognuno possa guardare avanti alla prosperità e, come in casi recenti, che si possa contare sull’Occidente come fornitore di assistenza, recupero e come valvola di sfogo per la popolazione in eccesso.
La percezione di nuove opportunità, se dovuta ad avanzamento tecnologico, espansione dei mercati, cambiamenti politici, aiuti esterni, emigrazione verso una terra più ricca o scomparsa di competitori (che se ne vanno o muoiono), incoraggia maggiori dimensioni della famiglia. Le famiglie riempiono avidamente ogni nicchia apparentemente più grande, e le nascite extra e la conseguente crescita della popolazione spesso vanno oltre le reali opportunità.
Crescere oltre il numero sostenibile è una minaccia onnipresente, poiché gli esseri umani prendono spunto dalle opportunità che risultano apparenti nell’immediato, e sono facilmente ingannati dai cambiamenti. Contando su ciò che è prossimo nello spazio o nel tempo, calcoliamo con difficoltà la crescita a lungo termine della popolazione, i limiti all’avanzamento tecnologico futuro e la inesorabile progressione dell’impoverimento delle risorse.
L’apparenza (e la concretezza sul breve periodo) di opportunità in espansione assume varie forme. Negli anni ‘50, la redistribuzione dei terreni in Turchia condusse i contadini precedentemente senza terra ad incrementare significativamente le dimensioni delle loro famiglie. Tra i pastori del Sahel Africano, i pozzi profondi per la captazione dell’acqua trivellati dai Paesi donatori negli anni ‘50 e ‘60 permisero l’allevamento di più grandi mandrie di bovini e greggi di capre, matrimoni più precoci (poiché i prezzi delle spose sono pagati in animali e il numero di capi richiesto divenne più facile da accumulare), e più elevata fecondità. Allo stesso modo, la diffusione della coltivazione della patata in Irlanda nei primi anni del XVIII secolo incrementò la produzione agricola e incoraggiò i contadini a suddividere parte delle proprie fattorie in appezzamenti per i propri figli, i quali per parte loro promossero matrimoni precoci e un incremento esplosivo delle nascite. Ancor prima, tra il VI e il IX secolo, l’introduzione in Europa della staffa, dei finimenti a collare rigido e della ferratura dei cavalli potenziò grandemente la produzione agricola delle pianure settentrionali dell’Europa. Una migliore alimentazione aiutò a condurre l’Europa fuori dal Medio Evo verso la ripresa economica e quindi, tra il 1050 e il 1350 circa, a triplicare la popolazione in Paesi quali l’Inghilterra e la Francia.
L’India offre un altro esempio. La sua popolazione fu quasi stabile dal 400 a.C. a circa il 1600 d.C.. Dopo la fine delle invasioni Mongole, e con l’avvento di nuove opportunità commerciali, la popolazione cominciò a crescere (con un tasso di circa la metà rispetto all’Europa). Più tardi, il commercio Europeo offrì all’India ulteriori opportunità, e la crescita della popolazione accelerò. Decollò letteralmente poco dopo che la nazione si liberò della sua condizione coloniale, nel 1947; l’assistenza da parte dell’URSS, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale potenziarono la percezione di un futuro prospero, e il tasso di crescita della popolazione continuò ad accelerare fino al 1980 circa.
Movimenti indipendentisti di successo e golpe populisti sono preminenti tra i tipi di cambiamento che portano il messaggio che i tempi sono buoni e stanno migliorando. La Cina cominciò il suo interludio euforico con l’espulsione dei Nazionalisti, nel 1949. Il Comunismo trionfò, e la sua filosofia sosteneva che una nazione grande richiedeva più gente (qualcuno tra i lettori riesce a ricordare uno dei principali motti del nostro Fascismo? Iniziava con “Condizione imprescindibile del primato è il numero…”; ancora una volta, gli estremi coincidono - N.d.T.). Il tasso di fecondità e la dimensione della popolazione partirono a razzo verso l’alto. Una popolazione del territorio principale della Cina che era stimata essere 559.000.000 nel 1949 crebbe fino a 654.000.000 nel 1959, laddove nei precedenti 100 anni di agitazione politica e guerra il tasso medio di crescita della popolazione cinese era stato appena dello 0,3% all’anno. Sia la minore mortalità, sia la accresciuta fecondità contribuirono all’incremento. Judith Banister scrive in La popolazione cinese che cambia: “La fecondità cominciò a crescere verso la fine degli anni ‘40 e era prossima o superiore alle 6 nascite per donna durante gli anni 1952-57, una fecondità maggiore di quella che era stata abituale” nei precedenti decenni. Banister attribuisce l’esplosione demografica cinese alla fine della guerra e alla politica del governo: “La riforma fondiaria del 1950-51 redistribuì la terra ai contadini che ne erano privi e ai fittavoli”.
Cuba ebbe una esplosione demografica quando Fidel Castro spodestò Fulgencio Batista, nel 1959. Castro promise esplicitamente una redistribuzione delle ricchezze e, secondo i demografi S. D’az-Briquets e L. PZ rez, come risposta la fecondità crebbe. D’az-Briquets e L. PZ rez scrivono: “Il fattore principale fu l’incremento delle entrate reali tra i gruppi più svantaggiati portato dalle misure di redistribuzione del governo rivoluzionario. La crescita della fecondità nell’ambito di quasi ogni fascia d’età suggerisce che le coppie videro il futuro come più promettente e sentirono che ora si sarebbero potuti permettere più figli”.
Le popolazioni dell’Algeria, dello Zimbabwe e del Ruanda crebbero rapidamente intorno all’epoca in cui le potenze coloniali partirono. L’Algeria, per esempio, ottenne l’indipendenza nel 1962, e trent’anni dopo il 70% della sua popolazione aveva meno di 30 anni d’età. Lo Zimbabwe ottenne l’indipendenza nel 1980, e subito raggiunse uno dei maggiori tassi di crescita della popolazione del mondo; la crescita venne incoraggiata dal Ministro della Salute, che attaccò la pianificazione familiare come una “congiura del colonialismo bianco” per limitare il potere nero.
A causa dei loro effetti sulle dimensioni della famiglia, i programmi di sviluppo implicanti grandi trasferimenti di tecnologia e di fondi verso il Terzo Mondo sono stati particolarmente dannosi. Questo tipo di aiuto è inappropriato poiché invia il segnale che la ricchezza e le opportunità possono aumentare senza sforzo e senza limiti. Che ne consegua una rapida crescita della popolazione non dovrebbe stupire nessuno. L’Africa, che negli ultimi decenni ha ricevuto tre volte più aiuti dall’estero pro-capite di qualsiasi altro continente, ha ora anche i più alti tassi di fecondità. Durante gli anni ‘50 e ‘60 la fecondità in Africa crebbe — fino a quasi sette bambini per donna — nello stesso momento in cui veniva ridotta la mortalità infantile, cresceva la disponibilità di cure, si diffondeva l’istruzione maschile e femminile e l’ottimismo economico pervadeva sempre più ampi settori della società. Tassi di crescita della popolazione straordinariamente elevati erano nuovi per l’Africa; durante gli anni ‘50 i tassi di crescita della popolazione in America Latina erano stati più alti.
Anche l’immigrazione può influire sulla popolazione mondiale complessiva. Studi relativi all’Inghilterra e al Galles del XIX secolo e alle popolazioni Caraibiche moderne, evidenziano che in comunità già nel pieno di una rapida crescita della popolazione, la fecondità rimane elevata fino a quando esiste la possibilità di emigrare, mentre declina rapidamente nelle comunità prive di questa valvola di sicurezza. E mentre i tassi di fecondità si vanno riducendo nella maggior parte dei Paesi africani, tale tasso resta alto in Ghana (6,2 nascite per donna nel 1993), forse perché una certa emigrazione (l’uno per 1.000 della popolazione) fornisce una valvola di sicurezza per la quantità di popolazione in eccesso. Questo effetto sulla fecondità è coerente con studi indipendenti secondo i quali l’emigrazione accresce le entrate sia tra coloro che emigrano sia tra coloro che rimangono.
In sostanza, è vero, anche se scomodo, che gli sforzi per alleviare la povertà spesso stimolano la crescita della popolazione, così come fa il lasciare aperte le porte all’immigrazione. I sussidi, le ricchezze inattese e la prospettiva di opportunità economiche rimuovono l’immediatezza del bisogno di preservare. I mantra della democrazia, della redistribuzione e dello sviluppo economico innalzano le attese e i tassi di fecondità, incoraggiando la crescita della popolazione e quindi rendendo più ripida una spirale ambientale ed economica discendente.
A dispetto di questo fatto, certi esperti e il pubblico che essi informano, desiderano nonostante tutto credere che i tassi di fecondità siano stati tradizionalmente alti nel mondo intero e si siano ridotti solo nelle nazioni post-industriali o nei Paesi nei quali è disponibile la moderna contraccezione, e che l’esplosione demografica del secondo dopoguerra sia dovuta principalmente alle migliori condizioni di salute e di nutrizione, che portarono a un rapido declino dei tassi di mortalità e ad un leggero, involontario incremento della fecondità. La possibilità che le maggiori dimensioni delle famiglie fossero il risultato del desiderio di avere più figli continua ad essere negato.
Gli esperti in studi sulla popolazione furono i primi ad essere ingannati. Negli anni ‘30 molti demografi predirono un rapido declino della popolazione, poiché la bassa fecondità delle nazioni occidentali industrializzate veniva attribuita allo sviluppo e alla modernizzazione più che al pessimismo endemico dovuto alla Grande Depressione (l’autore sta prendendo a riferimento la storia statunitense - N.d.T.). Continuando a non cogliere il punto, molti non riuscirono a vedere che gli alti tassi di fecondità che si ebbero dopo la Seconda Guerra Mondiale furono la risposta alla percezione di possibilità economiche in espansione. L’esplosione demografica negli Stati Uniti (1947-1961) e la leggermente succcessiva esplosione demografica nell’Europa Occidentale colsero di sorpresa la maggior parte dei demografi.
Il messaggio della penuria
Come succede, gli incontri con la penuria ai quali miliardi di persone sono costretti dai limiti naturali del loro ambiente stanno cominciando a correggere le conseguenze di decenni di percezioni errate. La retorica della modernizzazione, dello sviluppo internazionale e dell’egualitarismo sta perdendo il suo potere di inganno. Man mano che l’Europa si dimostra incapace di alleviare le sofferenze della ex-Iugoslavia, che i Paesi ricchi in generale si dimostrano quasi impotenti nell’aiutare le innumerevoli moltitudini lontane, diviene difficile credere nel recupero. Ora, come è successo molte volte nella storia dell’umanità, la riscoperta dei limiti sta risvegliando le motivazioni a ridurre le dimensioni delle famiglie.
In Irlanda i terreni divennero pochi in relazione alla popolazione in rapida crescita nei primi anni del XIX secolo e, come conseguenza, la fecondità cominciò a ritrarsi verso il basso livello dell’epoca precedente all’introduzione della patata. Nel 1830 i due terzi circa delle donne si sposavano prima dei venticinque anni di età. Nel 1851 solo il 10% di esse si sposava così giovane — un drastico rinvio del matrimonio in risposta alla carestia della patata del 1846-1851. Dopo una breve ripresa, non più del 12% si sposava prima del venticinquesimo anno di età. L’uso di contrarre matrimoni tardivi persistette dal 1890 circa fino alla Seconda Guerra Mondiale. Negli Stati Uniti l’esplosione demografica terminò all’incirca nel momento in cui il mercato del lavoro cominciò ad essere saturo: il tasso di fecondità crollò al di sotto dei livelli di sostituzione dopo lo shock petrolifero del 1973 e molti dei redditi reali degli Americani cessarono di crescere. Nella Cina post-rivoluzionaria l’incremento della popolazione proseguì fino a quando la carestia, non mitigata dagli aiuti degli Occidentali, impose un confronto con i limiti oggettivi. Nel 1979, consapevole delle gravi carenze di beni alimentari, il governo istituì una politica del tipo un-figlio-per-famiglia, portando così a compimento l’evoluzione degli incentivi e dei controlli che riportò la nazione alle restrittive abitudini matrimoniali e riproduttive pre-comuniste. A Cuba l’esplosione demografica ispirata da Castro lasciò il posto a una fecondità al di sotto del tasso di sostituzione quando l’impossibilità del comunismo di fornire la prosperità divenne evidente. Nei Paesi dell’area Orientale, compresa la Russia, la ristrutturazione economica, lo svanire dei sussidi governativi per il consumo e la percezione pubblica di una mortalità infantile in crescita hanno portato a tassi di fecondità minori e hanno creato una tendenza ad evitare la gravidanza.
Nello Zimbabwe, spinto dalla crisi economica dei tardi anni ‘80, il governo cominciò a sostenere la pianificazione familiare. Secondo The Economist, “l’elevato costo del mantenimento di una famiglia numerosa ha aiutato a convincere alcuni uomini dell’importanza del limitarne le dimensioni”. Il tasso di fecondità è in calo tra gli Yoruba in Nigeria, a causa di una combinazione del ritardo nei matrimoni e dell’accettazione della moderna contraccezione. Due terzi delle donne che hanno risposto ad un recente sondaggio hanno detto che “la principale causa alla radice della posposizione del matrimonio e dell’uso della contraccezione per consentirla era l’attuale sitazione economica difficile”.
Anche altrove, la richiesta di una moderna contraccezione è in crescita, e ancora la ragione sembra essere che le coppie percepiscono come economicamente insostenibile un matrimonio precoce e una famiglia numerosa. Nel suo nuovo libro “Masse critiche”, il giornalista George D. Moffett riporta che una madre su due in Messico difese il suo ricorso alla contraccezione davanti al prete di un villaggio spiegando: “Le cose sono difficili, qui. La maggioranza della gente sta attraversando tempi duri. Il lavoro è difficile da trovare”. In modo simile, un lavoratore giornaliero in Tailandia, secondo le parole di Moffett, “avrebbe piacere di avere un figlio in più, ma è consapevole che andrebbe al di là dei propri mezzi”.
Senza la motivazione a limitare le dimensioni della famiglia, la contraccezione moderna è pressoché irrilevante. Per sei anni, negli anni ‘50, un progetto condotto dal ricercatore inglese John Wyon fornì a diversi villaggi dell’India Settentrionale istruzione riguardo alla pianificazione familiare, accesso alla contraccezione e cure mediche. Gli abitanti dei villaggi erano ben disposti nei confronti di chi forniva le cure mediche e della pianificazione familiare, e la mortalità infantile si ridusse notevolmente. Ma il tasso di fecondità rimase altrettanto alto.
Il gruppo di Wyon capì il motivo: gli abitanti dei villaggi apprezzavano le famiglie numerose. Essi erano entusiasti del fatto che ora, con una minore mortalità infantile, potevano avere i sei figli che avevano sempre desiderato. Il ben finanziato progetto di Wyon potrebbe anche avere rinforzato la predilezione per le famiglie numerose, avendo contribuito a rendere possibili i figli in più.
Pensare localmente
L’errore nell’individuazione della causa dell’esplosione demografica ha portato a strategie di nessun peso e a volte addirittura controproducenti nell’aiuto fornito al Terzo Mondo per portare ad un equilibrio le dimensioni della sua popolazione e le risorse disponibili. Nei tardi anni ‘40 e negli impetuosi decenni successivi, il commercio, i movimenti indipendentisti, le rivoluzioni populiste, gli aiuti stranieri e le nuove tecnologie portarono la gente di ogni dove a credere nell’abbondanza e nella fine dei limiti naturali imposti dagli ambienti coi quali essi avevano famigliarità.
Ora è un passo avanti per le nazioni industrializzate, essendo la loro ricchezza diminuita di molto, il ricalibrare e indirizzare gli aiuti con maggiore ristrettezza. La loro ricchezza residua non deve essere sprecata nell’armare fazioni opposte, in una assistenza estera avventata, o nel sostegno alle migrazioni internazionali che impoveriscono e alla fine incattiviscono — fino alla violenza e ad una possibile guerra civile — le popolazioni residenti. Questa necessità di ricalibrazione rattrista molti, ma la precedente liberalità ha fornito un disservizio a ogni Paese individuato come obiettivo per l’indirizzamento verso lo sviluppo.
Con una nuova, informata comprensione delle risposte umane, certi tipi di aiuto rimangono appropriati: micro-prestiti che rafforzano l’imprenditoria di base, dove il successo è sostanzialmente in relazione allo sforzo; e l’assistenza con servizi di pianificazione familiare, non perché la contraccezione sia una soluzione di per sé ma perché la moderna contraccezione è un modo umano per ottenere una famiglia di ridotte dimensioni quando c’è il desiderio di una famiglia di ridotte dimensioni. Questa modesta lista di cose da fare è ancora nelle possibilità dei Paesi industrializzati anche nel momento in cui essi prestano attenzione alle necessità dei sempre più numerosi ranghi dei propri stessi poveri. E non inganna né danneggia involontariamente coloro che sono stati individuati come beneficiari.
L’idea che lo sviluppo economico sia la chiave per mettere un freno alla crescita della popolazione si basa su presupposti e affermazioni che hanno influenzato la politica degli aiuti internazionali per qualcosa come cinquant’anni. Ad ogni modo, questi presupposti non stanno in piedi di fronte ad una analisi storica o antropologica e le politiche che hanno prodotto hanno contribuito a potenziare la crescita della popolazione.
La capacità umana di avere una risposta di tipo adattivo si è evoluta nell’ambito di interazioni faccia-a-faccia. La forza dell’umanità è una rapida risposta agli stimoli ambientali — una risposta che è più probabilmente appropriata quando l’ambiente che conta è quello ravvicinato e locale. L’orizzonte della mente è qui ed ora. I nostri antenati si sono evoluti e hanno dovuto avere successo in piccoli gruppi che si muovevano su territori relativamente piccoli. Essi dovevano riuscire ad avere successo giorno per giorno — o non sarebbero divenuti gli antenati di nessuno. Quindi non è una sorpresa che i segnali che vengono dall’ambiente locale siano fortemente motivanti.
Mettiamo da parte i globalisti. Le soluzioni basate su un mondo unificato non funzionano. Le soluzioni locali, sì. Ovunque la gente agisce secondo la personale percezione dei propri interessi. Le persone sono portate a interpretare i segnali locali per trovare la prossima mossa da fare. In molti Paesi e comunità di oggi, dove le condizioni sociali, economiche e ambientali stanno indubbiamente peggiorando, la domanda per una moderna contraccezione è in crescita, il matrimonio e l’iniziazione sessuale vengono posticipati e le dimensioni della famiglia si stanno riducendo. Gli individui che reagiscono con una bassa fecondità ai segni del raggiungimento dei limiti sono la soluzione locale. C’è da pregare che i venditori di uno sviluppo inappropriato non mettano sottosopra questa situazione.
Copyright © 1994 di Virginia Abernethy. Tutti i diritti sono riservati.
Originariamente pubblicato su The Atlantic Monthly,
Dicembre 1994. Volume 274, n. 6 (pagine 84 - 91).
Traduzione di Carpanix
mercoledì 10 agosto 2011
DUE MONDI POSSIBILI
Può la politica cambiare il mondo e salvarci dal destino di un mondo sovrappopolato ed un pianeta inquinato ed inabitabile? Certamente no, in quanto il problema non e' politico. Non si tratta di assicurare più giustizia sociale, una migliore redistribuzione delle risorse, maggiore uguaglianza ecc. Il problema e' molto più di fondo e radicale. Deve entrare in gioco la filosofia, perche' qui si tratta di modificare il pensiero, il modo di pensare noi stessi e il mondo. Finche' ragioniamo con i mezzi della politica, con la giustizia sociale, siamo sempre all'interno dell'antropocentrismo e del pensiero oggettivante: si discute della appropriazione degli oggetti e della loro distribuzione. Ma qui ed ora bisogna uscire dall'antropocentrico prima che il pianeta vada incontro al suo destino. Bisogna cominciare a guardare al pianeta non come il luogo di cui impossessarsi, come un luogo di semplice presenza, come se si trattasse di uno sfondo a nostra disposizione per una attività umana illimitata. Bisogna invece guardare al pianeta come ad un mondo che ha un senso, che richiede meraviglia e rispetto. C'e bisogno di un pensiero che rispetti, che si ritragga dal puro possedere, dall'usare le cose per poi farne rifiuto e immondizia. Il problema a cui l'uomo contemporaneo si trova di fronte si chiama gestione della tecnica. Heidegger a meta del secolo scorso ha individuato questo problema come il problema fondamentale, l'argomento centrale della riflessione filosofica. Il mondo e' sempre più un apparato che funziona in maniera indipendente dalla volontà dell'uomo. Rischiamo così di non utilizzare la tecnica ma di esserne utilizzati. Il mondo cui ci stiamo avviando e' un mondo dominato dalla tecnica, e l'uomo e' sempre più un suo prodotto, non un suo utilizzatore. Viviamo secondo ritmi e per scopi che non sono determinati dalla nostra volontà, che ci sono estranei. La sovrappopolazione del pianeta e' intimamente connessa a questo stato di cose, ad una tecnica che accresce continuamente la sua potenza senza più alcun controllo. La macchina va avanti da sola, sempre più veloce ed autonoma, alterando e rendendo artificiale tutto il suolo, l'aria, le acque del pianeta. La sovrappopolazione umana e' un prodotto di questo stato di cose: l'uomo si toglie ogni umanità e diviene cosa tra le cose, numero tra i numeri, e la sua popolazione prolifica senza limiti e senza senso per il destino tecnico cui il pianeta si e' consegnato. Si badi bene, qui non si contesta la tecnologia, la necessita della ricerca e del progresso tecnologico. Si contesta invece la perdita di senso del mondo e la sua consegna ad una interpretazione che ne fa un puro oggetto in preda alla potenza della tecnica, del pensiero razional-numerante che tutto classifica e stravolge. Ormai anche noi come esseri umani siamo semplici numeri, costretti a vivere e consumare secondo un modo che non e' scelto da noi ma che ci e' caduto addosso come un destino. Questo primo modello di mondo, il mondo del dominio incontrastato della tecnica cui ci stiamo avviando lo definirei modello dei polli da batteria. Gli uomini sono allevati come polli negli allevamenti intensivi, imbottiti di farmaci e ormoni, condizionati nella mente e nel corpo, indotti a consumare forsennatamente perche' non hanno altro da fare e altro in cui credere, costretti in un circolo vizioso di produzione e consumo, svuotati di senso e di ogni rapporto con la natura di cui sono parte. Dicevo che il problema non e' politico. Non ci possiamo illudere che con governi diversi, con più giustizia, cambiando i padroni del vapore il mondo cambi. Per cambiare il rapporto tra noi e il pianeta serve un nuovo pensiero che faccia fare un passo indietro dell'uomo, un passo indietro per sottrarci a questo potere che ci impone di prolificare e consumare.Così possiamo riscoprire un'appartenenza che abbiamo dimenticato. Il mondo,le cose e gli esseri viventi che lo abitano hanno una storia, un decorso nel tempo, e dobbiamo riappropriarci del tempo come di ciò che da senso, valore, sentimento, radici. Oggi stiamo perdendo il concetto di tempo, di temporalità della nostra vita, attaccati solo al presente e alla fruizione dei consumi sempre piu' veloce. Distruggiamo in poco tempo luoghi e paesaggi che hanno una storia di millenni, indifferenti a tutto, anche alla bellezza e alla poesia. Ci siamo dimenticati che non siamo i possessori del mondo ma siamo una sua parte. Siamo animali forniti di intelletto e parte della natura. Dobbiamo servirci della tecnologia, non per stravolgere il mondo ma per migliorare il nostro rapporto con esso. Continuare a sopraffare piante, animali, terra,acque e cielo con la nostra arroganza e violenza distruttiva sara' la nostra rovina. Per tornare ad essere uomini coscienti della appartenenza al pianeta senza essere strumenti di un cieco potere, si deve porre rimedio ad una crescita demografica fin qui inarrestabile che ci porterà a dieci miliardi di persone nel giro di qualche decennio. Esiste un altro modello di mondo, a cui dobbiamo dedicarci, su cui indirizzare il nostro pensiero. Ridurre l'eccesso che ci caratterizza come una malattia della natura, diminuire il numero per ridare un senso all'essenza dell'uomo,all'essere uomini su questa Terra. Trovare una co-appartenenza tra noi e il pianeta, in maniera che esso torni ad essere sano e vivibile. Altrimenti avremo l'allevamento di polli in batteria, in cui i polli, purtroppo, siamo noi.
sabato 6 agosto 2011
NOTIZIUOLE NON FACILI DA TROVARE IN GIRO
...visto il dominio assoluto degli anti-nuclearisti sui mezzi di informazione.
"Vorremmo partire da un articolo di Hank Mills, giornalista del Pure Energy Sistem. Nella la sua analisi sulle sette ragioni per scegliere e divulgare l’E-Cat di Rossi (riportato esclusivamente dalla nostra testata), Mills sosteneva senza troppi indugi che “stiamo inquinando il nostro mondo fino all’estremo. I gas di scarico delle automobili, e di altri veicoli, inquinano la nostra atmosfera rendendo l’aria quasi irrespirabile in molte aree urbane. La continua esposizione alle particelle di ozono e di fuliggine in aria può aumentare il rischio di malattie ai polmoni, infarto e ictus. Le fuoriuscite di petrolio, come nel recente disastro del Golfo del Messico, minacciano residenti costieri, la vita marina, e il cibo raccolto dagli oceani. A peggiorare le cose, i prodotti chimici (come Corexit) utilizzati nella pulitura di tali catastrofi sono spesso molto più tossici della stessa fuoriuscita di petrolio!”. Mills ricordava inoltre a tutti gli ambientalisti di divulgare questa notizia (E-Cat) – o meglio, di supportarla – ma sopratutto di fare attenzione a quelli che definisce “falsi ambientalisti” in quanto vorrebbero un governo mondiale che imponga tasse sul carbone; leggi ambientali che violino la sovranità nazionale e regolamenti che strangolino l’economia.
Lungi da noi pensare che la citazione di cui sopra si riferisca alla nostra “amata” Legambiente (associazione ambientalista italiana erede dei primi nuclei ecologisti e del movimento antinucleare che si sviluppò in Italia negli anni ’70) sebbene essa detenga un 10% di quota azionaria in Sorgenia Menowatt, società controllata al 70% da Sorgenia s.p.a che allo stesso tempo partecipa in Tirreno power con una quota al 39% che logicamente non da luogo a un rapporto di controllo sulla seconda…
A Vado Ligure esiste difatti una centrale alimentata a carbone della Tirreno Power e, nelle zone limitrofe ad essa, si registrano tassi di mortalità prematura decisamente superiori alla media nazionale. “A parità di energia prodotta” ha scritto recentemente una prestigiosa rivista scientifica americana “una centrale alimentata a carbone emette 100 volte più radiazioni di una centrale nucleare”.
A ciò si aggiunga la notizia che pochi giorni fa la magistratura savonese ha aperto due filoni di indagine relativi alla centrale. Il primo concerne l’eventuale ipotesi di responsabilità della Tirreno Power nell’inquinamento di aria e acqua; il secondo, contempla ipotesi di reato a carico di ignoti per lesioni e omicidio colposo plurimo. Che si stia muovendo qualcosa?"
Articolo tratto da: ildemocratico.it
PS: Sorgenia s.p.a. appartiene al proprietario del quotidiano La Repubblica, Ing. Debenedetti. Sorgenia produce anche pannelli solari e pale eoliche e fruisce, guarda caso, dei milionari incentivi di stato alle energie alternative. Ovviamente era interesse di Sorgenia, di Debenedetti e di Repubblica & Company di affossare il nucleare: operazione perfettamente riuscita. Peccato che il paziente "Italia" non se la passi tanto bene...
venerdì 5 agosto 2011
IL TRAPPOLONE DELLA DECRESCITA FELICE
I fautori della decrescita felice non parlano mai della vera decrescita di cui c'e bisogno:quella demografica. Secondo costoro bisogna decrescere il Pil, frenare il mercato globale, ridurre i consumi, tornare all'economia locale.Ciò costituisce una decrescita felice o una utopia infelice? In un mondo di sette miliardi di umani, ogni decrescita economica e produttiva si traduce in povertà. Sette miliardi di umani si sostengono con la produzione di macchinari, concimi, prodotti chimici, trasporti, idrocarburi, cemento, legname ecc. Una grande megalopoli, come ce ne sono ormai in tutte le aree del pianeta, richiede ogni giorno l'utilizzo di decine o centinaia di tonnellate di prodotti chimici industriali (basti pensare al cemento, ai disinfestanti, agli idrocarburi e derivati, ai metalli, alle tubazioni,ai farmaci ecc.) che devono essere prodotti da industrie altamente inquinanti. E' solo grazie alla fabbricazione e alla utilizzazione di quantità gigantesche di detersivi, disinfettanti, antiparassitari, conservanti, ecc. che milioni di persone possono vivere in spazi ristretti, con altissime densità abitative, come avviene nelle odierne megalopoli. Se riduciamo la produzione di tali sostanze non possiamo piu assicurare la sopravvivenza e la funzionalità delle megalopoli. Le epidemie, le carestie, le catastrofi che hanno riguardato epoche precedenti tornerebbero in un battibaleno amplificate dalla densità demografica delle megalopoli se le industrie non sfornassero a ritmi pazzeschi tutti quei prodotti chimici e tecnologici. Non è un caso se un fiume di una grande città è pieno di tossici e schiumoso come una fogna: è una necessità dovuta alla struttura stessa delle città moderne, sempre più sovrappopolate e legate a produzioni inquinanti ed alti consumi, senza contare l'immane e sempre meno gestibile problema dei rifiuti e della loro quantità. Inoltre se riduciamo la produzione dei pesticidi e fertilizzanti non possiamo produrre cibo a sufficienza per sette miliardi di persone. Con la decrescita riduciamo insomma la produzione e l'innovazione tecnologica, ma senza prima ridurre il numero di abitanti del pianeta avremo un mondo sovrappopolato e povero. Bisognerà stampare moneta e si tornerà ad una inflazione a due-tre cifre. Si fermerà ogni progresso a cominciare da quello che richiede alti investimenti come il tecnologico e la ricerca. Chi inoltre deve assicurare la decrescita? Con quale meccanismi di costrizione e di controllo? La libertà e' connaturata e inscindibile dalla libertà economica. Dovremmo per forza ricorrere ad uno Stato autoritario, a funzionari e burocrati, a comitati centrali e commissioni di controllo. Ci saranno politici e funzionari di partito che si arrogheranno il diritto di stabilire cosa debbo consumare e dove lo debbo acquistare. Tutte cose che abbiamo già provato con esiti catastrofici nel XX secolo. In realtà il problema e' in questi termini: non abbiamo bisogno di una minor produzione, ma di una produzione diversa, più rispettosa del pianeta. Abbiamo bisogno di energia pulita e a buon mercato, abbiamo bisogno di tecnologie a basso impatto ambientale, di trasporti poco inquinanti, di costruzioni rispettose dell'ambiente naturale e alta qualità abitativa.Abbiamo bisogno di città a misura d'uomo, meglio se più piccole, più ricche di verde, con sistemi a basse emissioni. Per questo la ricerca e lo sviluppo tecnico e scientifico sono necessari e quindi e' necessaria una economia di sviluppo e di libero mercato. La decrescita su cui ci dobbiamo impegnare e' quella demografica: ridurre la sovrappopolazione e' il solo modo per ritrovare un equilibrio con l'ambiente e la natura, per tornare a pensare il mondo non come sfondo di cui appropriarsi ma come ciò che ci sostiene e ci dona una vita degna di essere vissuta.
mercoledì 3 agosto 2011
Ongoing Global Biodiversity Loss Unstoppable With Protected Areas Alone
ScienceDaily (July 29, 2011) — Continued reliance on a strategy of setting aside land and marine territories as "protected areas" is insufficient to stem global biodiversity loss, according to a comprehensive assessment published July 28 in the journal Marine Ecology Progress Series.
Despite impressively rapid growth of protected land and marine areas worldwide -- today totalling over 100,000 in number and covering 17 million square kilometers of land and 2 million square kilometers of oceans -- biodiversity is in steep decline.
Expected scenarios of human population growth and consumption levels indicate that cumulative human demands will impose an unsustainable toll on Earth's ecological resources and services accelerating the rate at which biodiversity is being loss.
Current and future human requirements will also exacerbate the challenge of effectively implementing protected areas while suggesting that effective biodiversity conservation requires new approaches that address underlying causes of biodiversity loss -- including the growth of both human population and resource consumption.
Says lead author Camilo Mora of University of Hawaii at Manoa: "Biodiversity is humanity's life-support system, delivering everything from food, to clean water and air, to recreation and tourism, to novel chemicals that drive our advanced civilization. Yet there is an increasingly well-documented global trend in biodiversity loss, triggered by a host of human activities."
"Ongoing biodiversity loss and its consequences for humanity's welfare are of great concern and have prompted strong calls for expanding the use of protected areas as a remedy," says fellow author Peter F. Sale, Assistant Director of the United Nations University's Canadian-based Institute for Water, Environment and Health.
"While many protected areas have helped preserve some species at local scales, promotion of this strategy as a global solution to biodiversity loss, and the advocacy of protection for specific proportions of habitats, have occurred without adequate assessment of their potential effectiveness in achieving the goal."
Drs. Mora and Sale warn that long-term failure of the protected areas strategy could erode public and political support for biodiversity conservation and that the disproportionate allocation of available resources and human capital into this strategy precludes the development of more effective approaches.
The authors based their study on existing literature and global data on human threats and biodiversity loss.
"The global network of protected areas is a major achievement, and the pace at which it has been achieved is impressive," says Dr. Sale. "Protected areas are very useful conservation tools, but unfortunately, the steep continuing rate of biodiversity loss signals the need to reassess our heavy reliance on this strategy."
The study says continuing heavy reliance on the protected areas strategy has five key technical and practical limitations:
Expected growth in protected area coverage is too slow
While over 100,000 areas are now protected worldwide, strict enforcement occurs on just 5.8% of land and 0.08% of ocean. At current rates, it will take between 185 years in the case of land and 80 years for oceans to cover 30% of the world's ecosystems with protected areas -- a minimum target widely advocated for effective biodiversity conservation.
This slow pace contrasts sharply with the rapid growth of threats, including climate change, habitat loss and resource exploitation, predicted to cause the extinction of many species even before 2050.
The size and connectivity of protected areas are inadequate
To ensure species' survival, protected areas must be sufficiently large to sustain viable populations in the face of the inevitable mortality of some individuals trespassing their borders, and areas must be close enough together for a healthy exchange of individuals among protected populations. Globally, however, over 30% of the protected areas in the ocean, and 60% on land are smaller than 1 square kilometer -- too small for many larger species. And they tend to be too far apart to allow a sufficient exchange among populations for most species.
Protected areas only ameliorate certain human threats
Biodiversity loss is triggered by a host of human stressors including habitat loss, overexploitation, climate change, pollution and invasive species. Yet protected areas are useful primarily against overexploitation and habitat loss. Since the remaining stressors are just as deleterious, biodiversity can be expected to continue declining as it has done until now. The study shows that approximately 83% of protected areas on the sea and 95% of protected areas on land are located in areas with continuing high impact from multiple human stressors.
Underfunding
Global expenditures on protected areas today are estimated at US $6 billion per year and many areas are insufficiently funded for effective management. Effectively managing existing protected areas requires an estimated $24 billion per year -- four times current expenditure. Despite strong advocacy for protected areas, budget growth has been slow and it seems unlikely that it will be possible to raise funding appropriate for effective management as well as for creation of the additional protected areas as is advocated.
Conflicts with human development
Humanity's footprint on Earth is ever expanding in efforts to meet basic needs like housing and food. If it did prove possible to place the recommended 30% of world habitats under protection, intense conflicts with competing human interests are inevitable -- many people would be displaced and livelihoods impaired. Forcing a trade-off between human development and sustaining biodiversity is unlikely to lead to a solution with biodiversity preserved.
Concludes Dr. Mora: "Given the considerable effort and widespread support for the creation of protected areas over the past 30 years, we were surprised to find so much evidence for their failure to effectively address the global problem of biodiversity loss. Clearly, the biodiversity loss problem has been underestimated and the ability of protected areas to solve this problem overestimated."
The authors underline the correlations between growing world population, natural resources consumption and biodiversity loss to suggest that biodiversity loss is unlikely to be stemmed without directly addressing the ecological footprint of humanity. Based upon previous research, the study shows that under current conditions of human comsumption and conservative scenarios of human population growth, the cummulative use of natural resources of humanity will amount to the productivity of up to 27 Earths by 2050.
"Protected areas are a valuable tool in the fight to preserve biodiversity. We need them to be well managed, and we need more of them, but they alone cannot solve our biodiversity problems," adds Dr. Mora. "We need to recognize this limitation promptly and to allocate more time and effort to the complicated issue of human overpopulation and consumption."
"Our study shows that the international community is faced with a choice between two paths," Dr. Sale says. "One option is to continue a narrow focus on creating more protected areas with little evidence that they curtail biodiversity loss. That path will fail. The other path requires that we get serious about addressing the growth in size and consumption rate of our global population."
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Despite impressively rapid growth of protected land and marine areas worldwide -- today totalling over 100,000 in number and covering 17 million square kilometers of land and 2 million square kilometers of oceans -- biodiversity is in steep decline.
Expected scenarios of human population growth and consumption levels indicate that cumulative human demands will impose an unsustainable toll on Earth's ecological resources and services accelerating the rate at which biodiversity is being loss.
Current and future human requirements will also exacerbate the challenge of effectively implementing protected areas while suggesting that effective biodiversity conservation requires new approaches that address underlying causes of biodiversity loss -- including the growth of both human population and resource consumption.
Says lead author Camilo Mora of University of Hawaii at Manoa: "Biodiversity is humanity's life-support system, delivering everything from food, to clean water and air, to recreation and tourism, to novel chemicals that drive our advanced civilization. Yet there is an increasingly well-documented global trend in biodiversity loss, triggered by a host of human activities."
"Ongoing biodiversity loss and its consequences for humanity's welfare are of great concern and have prompted strong calls for expanding the use of protected areas as a remedy," says fellow author Peter F. Sale, Assistant Director of the United Nations University's Canadian-based Institute for Water, Environment and Health.
"While many protected areas have helped preserve some species at local scales, promotion of this strategy as a global solution to biodiversity loss, and the advocacy of protection for specific proportions of habitats, have occurred without adequate assessment of their potential effectiveness in achieving the goal."
Drs. Mora and Sale warn that long-term failure of the protected areas strategy could erode public and political support for biodiversity conservation and that the disproportionate allocation of available resources and human capital into this strategy precludes the development of more effective approaches.
The authors based their study on existing literature and global data on human threats and biodiversity loss.
"The global network of protected areas is a major achievement, and the pace at which it has been achieved is impressive," says Dr. Sale. "Protected areas are very useful conservation tools, but unfortunately, the steep continuing rate of biodiversity loss signals the need to reassess our heavy reliance on this strategy."
The study says continuing heavy reliance on the protected areas strategy has five key technical and practical limitations:
Expected growth in protected area coverage is too slow
While over 100,000 areas are now protected worldwide, strict enforcement occurs on just 5.8% of land and 0.08% of ocean. At current rates, it will take between 185 years in the case of land and 80 years for oceans to cover 30% of the world's ecosystems with protected areas -- a minimum target widely advocated for effective biodiversity conservation.
This slow pace contrasts sharply with the rapid growth of threats, including climate change, habitat loss and resource exploitation, predicted to cause the extinction of many species even before 2050.
The size and connectivity of protected areas are inadequate
To ensure species' survival, protected areas must be sufficiently large to sustain viable populations in the face of the inevitable mortality of some individuals trespassing their borders, and areas must be close enough together for a healthy exchange of individuals among protected populations. Globally, however, over 30% of the protected areas in the ocean, and 60% on land are smaller than 1 square kilometer -- too small for many larger species. And they tend to be too far apart to allow a sufficient exchange among populations for most species.
Protected areas only ameliorate certain human threats
Biodiversity loss is triggered by a host of human stressors including habitat loss, overexploitation, climate change, pollution and invasive species. Yet protected areas are useful primarily against overexploitation and habitat loss. Since the remaining stressors are just as deleterious, biodiversity can be expected to continue declining as it has done until now. The study shows that approximately 83% of protected areas on the sea and 95% of protected areas on land are located in areas with continuing high impact from multiple human stressors.
Underfunding
Global expenditures on protected areas today are estimated at US $6 billion per year and many areas are insufficiently funded for effective management. Effectively managing existing protected areas requires an estimated $24 billion per year -- four times current expenditure. Despite strong advocacy for protected areas, budget growth has been slow and it seems unlikely that it will be possible to raise funding appropriate for effective management as well as for creation of the additional protected areas as is advocated.
Conflicts with human development
Humanity's footprint on Earth is ever expanding in efforts to meet basic needs like housing and food. If it did prove possible to place the recommended 30% of world habitats under protection, intense conflicts with competing human interests are inevitable -- many people would be displaced and livelihoods impaired. Forcing a trade-off between human development and sustaining biodiversity is unlikely to lead to a solution with biodiversity preserved.
Concludes Dr. Mora: "Given the considerable effort and widespread support for the creation of protected areas over the past 30 years, we were surprised to find so much evidence for their failure to effectively address the global problem of biodiversity loss. Clearly, the biodiversity loss problem has been underestimated and the ability of protected areas to solve this problem overestimated."
The authors underline the correlations between growing world population, natural resources consumption and biodiversity loss to suggest that biodiversity loss is unlikely to be stemmed without directly addressing the ecological footprint of humanity. Based upon previous research, the study shows that under current conditions of human comsumption and conservative scenarios of human population growth, the cummulative use of natural resources of humanity will amount to the productivity of up to 27 Earths by 2050.
"Protected areas are a valuable tool in the fight to preserve biodiversity. We need them to be well managed, and we need more of them, but they alone cannot solve our biodiversity problems," adds Dr. Mora. "We need to recognize this limitation promptly and to allocate more time and effort to the complicated issue of human overpopulation and consumption."
"Our study shows that the international community is faced with a choice between two paths," Dr. Sale says. "One option is to continue a narrow focus on creating more protected areas with little evidence that they curtail biodiversity loss. That path will fail. The other path requires that we get serious about addressing the growth in size and consumption rate of our global population."
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