Terra madre, l'impossibile ricerca
di un buon rapporto con la natura
di Goffredo Fofi
ROMA (1 giugno) - La lodevole iniziativa di questo documentario di lungo metraggio, Terra madre, firmato da Ermanno Olmi ma cui hanno contribuito molte mani, è della Cineteca di Bologna, un’istituzione più solida e seria di quella romana, che pure è statale e non comunale-regionale. La Cineteca organizza dall’anno scorso una sorta di festival di cinema e cibo (il cibo è di gran moda tra chi ne consuma di più, e il mangiar bene, godurioso o austero, è un tema dominante nei nostri media che fa venire in mente il vecchio e saggio monito del “pancia piena non crede al digiuno”), e il festival si appoggia all’associazione Terra Madre fondata e diretta da Carlo Petrini. E’ dai materiali dell’incontro torinese di Terra Madre del 2006 (150 paesi rappresentati, alla presenza del Presidente della nostra non luminosa Repubblica) che partono le considerazioni di Olmi, servite da un montaggio dei materiali che, grosso modo, considera:
a) l’incontro torinese, con scelta di interventi, volti, dichiarazioni, inserti didascalici o dimostrativi, e dove la parte del leone, anzi della leonessa, la fa Vandana Shiva, che ripete da anni le stesse quattro cose sui danni della globalizzazione e dello sviluppo manipolato dal connubio finanza-scienza e sui vantaggi della decrescita;
b) un inserto bello e commovente sul piccolo campo e la piccola casa di una sorta di eremita padano, contadino autosufficiente vissuto ai margini di un’autostrada del nostro Nordest;
c) una lunga parte finale, più o meno un terzo dell’intero film, che è opera del grande documentarista Franco Piavoli, un vero poeta del cinema, il quale ci mostra stagione per stagione il lavoro di un orto, in una stupenda, anche se troppo edenica e stupenda, valle altoatesina, un posto che non tutti possono avere.
Terra madre è in definitiva di un buon film di propaganda ispirato da una visione del mondo molto condivisibile. Se i due brani più belli del film, quelli che abbiamo citato, hanno una loro autonomia, il primo come ritratto di un assente e illustrazione della sua scelta di vita, il secondo come idillio di un “ancòra possibile”, la lunga parte che apre il film e che ruota attorno al convegno torinese, è per ovvie ragioni la più prosastica, ma anche quella che dovrebbe convincere di più. Perché la propaganda di un modo di vivere sia efficace occorre, credo, molta convinzione in chi l’avanza. Se non si è veramente convinti di ciò che si afferma, la capacità di convincere gli altri si fa minore, ma più in generale non basta rispondere con la suggestione della poesia alla grande menzogna dello sviluppo che libera l’uomo, mentre ormai sappiamo bene che ne avvicina la fine.
I bellissimi brani citati ricordano allo spettatore la necessità di scelte che permettano all’uomo di ritrovare un buon rapporto con la natura. Ma essi lo consolano piuttosto che spaventarlo. Se insomma la poesia dei brani citati è ottima poesia (la prima trattando di un radicale rifiuto del mondo così com’è diventato, la seconda delle opere e i giorni di antica, antichissima memoria), però non basta a rispondere ai dilemmi più generali che nascono dalla prima parte del film, quella “in prosa”. Perché questa prosa – da buona propaganda – resta di suggestione più che di convinzione.
Per esempio: l’autosufficienza non è sufficiente a sfamare il mondo e non tutti possono permettersela, la sovrappopolazione è un incubo che si esorcizza tacendone tal quale la Madre Chiesa, il “ritorno dei contadini” è un obiettivo fondamentale ma che non potrebbe essere che graduale, tornare indietro è tutt’altro che facile per chi è abituato a tante macchine e tanto consumo, il riscaldamento globale è una minaccia per i poveri del mondo provocata dai ricchi, la già crescente disuguaglianza geopolitica porterà nuovi conflitti… eccetera… eccetera.... E soprattutto: si è imparato a diffidare dei “buoni” (e del “buonismo”) perché sul ricatto della bontà sono nati nuovi piccoli imperi (terzo settore a rimorchio dei primi due, ong ed enti nazionali e internazionali, milioni di associazioni di psueudo-volontariato, di difesa dell’ambiente, di questo e di quello) che lottano per la conquista di spazio più per sé che per chi ne ha bisogno e nel cui nome si dice di agire…
Non è in questione, è ovvio, la buona fede degli autori del film o delle organizzazioni coinvolte, anche se non si può giurare su tutte quelle presenti a Torino. Come sanno le organizzazioni e i teorici più attenti, la lotta per la affermazione di sé e della propria parte (gruppo o clan o corporazione) si serve spesso di molti alibi e il suo forte è proprio la propaganda, ma gruppi e persone coinvolti in questo film meritano grande rispetto e attenzione. Credono in ciò che fanno, ma non vanno abbastanza a fondo, o si compiacciono troppo della loro bontà. Dimenticano soprattutto che il capitalismo non potrà mai rinunciare alla propria anima, il profitto, pena la sua morte. E l’ecocapitalismo è già una delle risposte già adesso – slow food compreso – che il capitalismo cerca alla crisi in cui ci ha precipitato e in cui è precipitato.
Il percorso sarà molto lungo – se ci sarà – e le chiarificazioni non potranno che essere brucianti. No, non siamo ottimisti sul futuro del mondo e sulla bontà degli umani, e diffidiamo delle nuove, sempre nuove forme di edonismo dei ricchi, che difendono i propri giardini invece di aprirli, e più che di nuove consolazioni e nuove illusioni, più che di “bontà”, abbiamo bisogno di “lucidità”. Sappiamo peraltro assai bene che sono stati gli ottimisti, buoni per definizione, ad aver portato il mondo sulla soglia del precipizio! Cosa non sono stati capaci di fare gli ottimisti?
Noi abbiamo paura, e non ci vergogniamo di dirlo. E pensiamo che alla radicalità della crisi sia necessario rispondere anche con un maggior radicalismo delle analisi, e facendo più che predicando.
In modi molto generali e molto radicali, noi dovremmo essere certamente per nuovi modelli di sviluppo, e per “il ritorno dei contadini” – senza di loro, il mondo è fermo, il ciclo aggredito e spezzato. Ma anche per un nuovo accordo tra uomo e natura che non può avvenire, sul piano teorico, che in un nuovo incontro tra cristianesimo (l’amore del prossimo al suo centro) e paganesimo (il rispetto del vivente e della sua varietà, un nuovo equilibrio che contempli, per esempio, il ripudio o la drastica riduzione della violenza sugli animali). Occorrono analisi che non trascurino la parte delle responsabilità individuali in tutto questo, il rifiuto delle nostre abitudini più distruttive e delle nostre infinite (e astute) complicità, e forse un’etica di radici più orientali che occidentali e che ha avuto in Francesco e in Gandhi i due profeti da riscoprire. Il generale e il particolare devono congiungersi, in scelte individuali ben più drastiche di quelle che i “buoni” ci propongono. Terra Madre convince a metà perché non va a fondo, e risolve in poesia – anche se splendida poesia – molti cruciali del nostro presente e del nostro futuro.
Nessun commento:
Posta un commento