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sabato 26 gennaio 2013

AMERICA: SE L’OCCIDENTE PERDE SE STESSO



Andare in America suscita sempre  un’emozione. Si tratta dell’emozione che dovevano provare gli antichi abitanti dell’impero romano quando si recavano a Roma. Lì c’è l’essenza della nostra civiltà: l’occidente siamo stati noi europei, ma oggi l’occidente si chiama America. Lì ci sono luoghi, paesaggi, città che danno sensazioni uniche, che non è possibile provare da nessun’altra parte. La visita al cimitero di Arlington, ad esempio, è un’esperienza emozionante. Si sente che la Storia è passata di qua e anzi ci si è fermata. Sono rimasto a guardare in silenzio, come in un'atmosfera sospesa,  la tomba di JFK, la tenue fiammella sempre accesa,  mentre lontano, nell’azzurro  del tardo mattino primaverile, scintillava la punta dell’obelisco del Mall. Questa è l’america, pensavo, qui sta il nostro destino.
Questo è il posto in cui tutti i nodi vengono al pettine. Qui la scienza ha permesso all’uomo di arrivare sulla Luna, qui la gente sente una forza che la spinge al meglio, all’affermazione personale, al successo. E’ il segreto della potenza americana. Quella stessa energia che, se malata,  può degenerare in follia e può portare alle stragi di studenti.  Se l’occidente trova se stesso è qui che succede. Oppure se l’occidente si perde, è qui che accade. Perché gli Us stanno cambiando. Qui il paesaggio è talmente grande che gli uomini, per quanto si diano da fare, possono solo fare ritocchi. Il cielo rimane il cielo, il deserto il deserto, le montagne azzurrine lontane restano a guardare le città crescere in altezza, estendersi: ma le distanze sono talmente grandi che nulla cambia nel paesaggio. Eppure anche qui i tempi stanno cambiando. Paradossalmente la cementificazione procede veloce anche qui. La pressione antropica sta facendo disastri. Lo sfruttamento delle risorse naturali è altissimo, ed è ancora recente  la tragedia ecologica del golfo del Messico. Qui, come nella Sicilia del Gattopardo, cambiamento e immobilità si intrecciano fortemente. Nonostante tutta la ricchezza e lo sviluppo possibile la distanza tra ricchi e poveri rimane inalterata. E la sonnolenza della vita della provincia americana rimane immutata come cinquant’anni fa. Passare dalla modernità frenetica di NY alla tranquilla e noiosa vita dei piccoli centri della middle america è un’esperienza che da l’idea di come passato e presente, storia e progresso siano qui tutt’uno.
Bill Bryson in un bel libro del 1989 ci racconta di un suo lungo giro negli Stati Uniti alla ricerca di atmosfere perdute, di quando lui bambino viveva a Des Moines nei fantastici anni ’50. Nel 1977 era emigrato in Inghilterra come giornalista corrispondente con giornali americani, e a Londra, in quel clima piovigginoso e grigio, si era sviluppata in lui il mito dell’america felix, l’america del periodo che va dal dopoguerra e prosegue per tutti gli anni 50 fino all’assassinio di JFK, la tragedia  che ha posto fine ad un’età memorabile di speranza e di “perfetta” vita americana. Con l’assassinio del  “presidente giovane” finiva una storia e ne cominciava un’altra, nel modo peggiore: il Vietnam. Bryson ci riporta alla nostalgia di quei tempi e alla coscienza di una perdita irrecuperabile per tutti noi.
La mitologia della frontiera è stato un mito fondante della mentalità e della cultura americana. Il confronto tra l’uomo intraprendente e la natura, le grandi praterie, la conquista di territori selvaggi e inesplorati ha plasmato il nuovo uomo occidentale, proprio mentre la vecchia Europa entrava in un declino irreversibile e poi nel corso del novecento distruggeva se stessa. L’ “uomo nuovo” americano è nato da un incontro tra gli emigranti e gli avventurieri europei, in gran parte protestanti, e la selvaggia natura americana. Dalla conquista del West si è generata quella sete di miglioramento e di progresso che è divenuto, nel bene e nel male, lo spirito stesso del nuovo Occidente.
Il West selvaggio ha sempre avuto un doppio aspetto, come del resto tutta la realtà americana. Da un lato c’è l’amore per la natura, la libertà, le cavalcate, le praterie, gli immensi cieli azzurri. Dall’altra c’è la conquista, la colonizzazione, la trasformazione, lo sfruttamento illimitato delle risorse, le miniere, la ricchezza conquistata. Le nuove città sorte dal nulla. L’America è terra doppia: qui tutte le contraddizioni si mostrano apertamente, ma sanno anche -inaspettatamente- armonizzarsi e dar vita a nuove realtà.

Raggiungendo La Vegas dalla California in auto si traversa un deserto nel Nevada di estrema bellezza, se poi si viaggia al tramonto il rosso del cielo si armonizza con i colori sfumati tra il verde e l’arancio scuro delle scarsa vegetazione e delle rocce. Ad un certo punto, raggiunta la sommità di un altopiano la vista rimane incantata di fronte allo sfavillio di un mare di luci che si apre improvvisamente e inaspettatamente. E’ Las Vegas con le mille luci delle insegne e della frenetica modernità che  appare come una visione miracolosa e metafisica sul far della notte. Ripensando a quello spettacolo si è portati a riflettere sul fatto che l’America è il luogo in cui la modernità tecnologica riesce, con un’alchimia ardita, ad armonizzarsi con una natura che rimane in gran parte selvaggia e bella, nonostante tutto. Nel paesaggio americano, anche i grattacieli, che qui sono nati, riescono ad farsi accettare come parte del paesaggio.
 Qui sono nate le prime megalopoli  con  la nuova architettura per consentire una vita confortevole a milioni di abitanti in spazi ristretti, le nuove tecnologie informatiche, i maggiori progressi nella fisica e nella medicina. L’economia e il mercato, sebbene nati in Europa e specialmente in Inghilterra, hanno avuto qui il loro massimo sviluppo.  Qui in America è nata, allo stesso tempo, la nuova mentalità ambientalista, a partire dai botanici americani che all’inizio del secolo scorso s’impegnarono per la creazione dei primi parchi nazionali. Qui , con la beat generation, sono  nate le prime ribellioni ad uno stile di vita di una borghesia ingessata, dalla mentalità ristretta  in valori non più in grado di reggere la modernità.  Nel romanzo “On the Road” di Keruac, due giovani della beat generation,  esprimono il rifiuto della vita tradizionale  e iniziano un viaggio in macchina alla scoperta dell’immensità del continente americano, scoprendo un’america diversa e più vicina alla natura. Il romanzo è metafora di una nuova sensibilità che avrebbe in seguito dato luogo ai movimenti giovanili di protesta e di ritorno alla natura, come i figli dei fiori.

Oggi la partita si gioca ancora qui, in America. E’ qui che all’inizio degli anni 70 fu scritto The Limits to Growth da parte di un gruppo di ricercatori del MIT.  E’ qui che ancora prima –nel 1968- lo scienziato ed ecologo americano Paul Ehrlic scrisse il testo chiave per comprendere lo scenario tragico cui si stava avviando il mondo con l’esplosione demografica: The Population Bomb. Oggi l’ America ha di nuovo, come sempre, in mano il destino dell’Occidente e dell’intero pianeta, anche se grandi comprimari sono apparsi nel mondo contemporaneo, come la Cina e l’India. Se la Terra ha una chance è da qui che probabilmente arriveranno le proposte e le strategie. Non certo dall’Europa, dal “vecchio mondo” come sprezzantemente ci definiscono. La vecchia Europa ha una visione ristretta, schiava di mentalità incancrenite e di meschinità ideologiche. Non ha l’apertura della mente americana, che forse viene dai vasti paesaggi di quella terra. Ma l’America, anche lei, corre i suoi rischi. Oggi è uno dei principali “inquinatori”, ai primi posti per l’immissione di carbonio in atmosfera e nella produzione di rifiuti. E’ inoltre alle prese con cambiamenti demografici come l’eccessiva immigrazione e i tassi di natalità in crescita. Tuttavia la coscienza ambientalista è sempre più forte e sempre maggiori sono le prese di posizione contro la devastazione del pianeta. L’ex vice presidente Al Gore e il suo movimento hanno vinto il Nobel per la pace nel 2007 per le lotte contro i cambiamenti climatici. Nonostante le resistenze, la coscienza del problema sull’eccessiva pressione demografica si va ampliando.  Se l’ambientalismo ha un futuro è qui che dobbiamo cercarlo. E’ su questi temi che l’America deve ritrovare se stessa. 

2 commenti:

  1. << Se la Terra ha una chance è da qui (l'America) che probabilmente arriveranno le proposte e le strategie. Non certo dall’Europa, dal “vecchio mondo” come sprezzantemente ci definiscono. >>

    Caro Agobit, anche io ho grande ammirazione per l'America ed il suo primato scientifico e tecnologico, ma su questo punto non sarei così categorico.
    Forse l'America potrà essere ancora all'avanguardia nelle tecnologie da utilizzare per la gestione delle energie rinnovabili.
    Ma quello che ci aspetta è anche (forse sopratutto) una riconversione CULTURALE dal "di tutto, di più" della società consumistica, al "di meno per necessità" della società ecologica prossima ventura.
    Ed in questo, la vecchia Europa, che ha già vissuto sulla propria pelle molti cambi di paradigma, anche devastanti (come il crollo dell'impero romano), mi sembra più attrezzata.

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  2. Caro Lumen, forse sono pessimista, almeno su questo punto. Ma l'Europa mi pare invece poco attrezzata per i grandi cambiamenti che ci attendono. Ad eccezione di certe società nordiche, per adesso l'Europa politica è un grosso carrozzone burocratico che non mi sembra in grado di combinare gran ché. La devastazione ambientale procede inarrestabile, e dal dopoguerra ad oggi si è cementificato gran parte del territorio. Sulla sovrappopolazione si comincia ora a fare i primi passi: quelli che hanno cognizione del problema sono ancora pochi. Tocca a noi darci da fare...

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