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mercoledì 9 novembre 2011

CHARLES BUKOWSKI: LE CITTA' INVIVIBILI




Amo Bukowski. Bukowski non è uno che puoi leggere tutto messo per bene, in biblioteca e nemmeno su una poltrona delle nostre comode case iperriscaldate. Lo devi leggere quando ti senti incazzato, sei trasandato, magari con un bicchiere in mano di rosso o di grappa. Lo devi leggere quando sei pronto a "percepire" un livello di realtà più profondo o più alieno. Bukowski è un ermeneuta, uno che va giù al nocciolo della vita, ma non ci va da filosofo con i ragionamenti astratti. Ti porta davanti i fatti, spesso quelli più banali e volgari, spesso visti attraverso la lente di una psiche tormentata. Ma se intendi bene quel fatto, se sai leggerlo ti si apre l'orizzonte della mente, un'esplosione di galassie. Si tratta in fondo di fenomenologia, di interpretazione dei fenomeni per come essi sono portandosi dietro tutta una interpretazione del mondo. Bukowski non fa analisi psicologiche, non costruisce niente, lascia parlare la realtà. Va nel centro di tutto senza bussare alla porta, passando per quella di servizio, anzi per quella che porta alla toelette, ai cessi dell'esistenza. Però ci va dentro fino a tirarne fuori l'essenza. I versi di Bukowski hanno un po' di follia? Forse, ma è quella follia che nasce dalla lucida presa di atto che è il mondo ad essere impazzito: la società ci costringe ad un mostruoso conformismo, ad una esistenza programmata e incasellata da un meccanismo che stritola le nostre individualità e ci rende tutti replicanti. L'unica possibilità di salvezza è l'estraneità e la follia, la lucida follia visionaria che ci fa vedere quello che gli altri non vedono. Sono versi che ci toccano nell'animo come pochi poeti sanno scrivere.( Poeta? Se Bukowski sentisse questa definizione di se scoppierebbe a ridere con la sua risata rauca, tossigena). La poesia che riporto qui sotto è metafora del nostro mondo. E' interpretazione profonda, sentita, lucidissima del mondo al tempo della sovrappopolazione, del mondo delle megalopoli, delle periferie urbane intossicate dai fumi, dallo stress, dalla depressione, dalla inumanità che solo l'uomo, l'uomo moderno sa mostrare nella sua efferatezza. Onore a un grande poeta. agobit




john dillinger e le chasseur maudit

è un peccato e non è questo il modo, ma chi se ne frega:
le ragazze mi ricordano capelli nel lavandino, le ragazze mi
ricordano intestini,
e vesciche e movimenti escretori; è anche un peccato che
i campanelli dei gelati, i neonati, le valvole dei motori, i
plagiostomi, le palme,
i passi nel corridoio...mi eccitino tutti con la fredda calma
di una pietra tombale; da nessuna parte, forse, trovo rifugio
tranne
nel sentire che c'erano altri uomini disperati:
Dillinger, Rimbaud, Villon; Babyface Nelson, Seneca, Van Gogh,
o donne disperate: donne wrestler, infermiere, cameriere,
poetesse
puttane...sebbene,
immagino che la preparazione dei cubetti di ghiaccio sia
importante
o un topo che annusa una lattina di birra vuota -
due vuoti svuotati che si contemplano,
o il mare notturno bloccato da navi luride
che entrano nella cauta ragnatela del tuo cervello con le loro luci,
con le loro luci salate
che ti toccano e ti lasciano
per l'amore più solido di qualche India;
o guidare per lunghe distanze senza ragione
rimbambito dal sonnocon i finestrini aperti che
ti strappano e ti fanno sventolare la camicia come un uccello
impaurito,
e sempre i semafori, sempre rossi,
fuoco notturno e sconfitta, sconfitta...
scorpioni, brandelli, fardelli:
ex lavori, ex mogli, ex facce, ex vite,
Beethoven nella tomba morto quanto una barbabietola;
carriole rosse, sì, forse,
o una lettera dall'Inferno firmata dal diavolo
o due bravi ragazzi che si pestano a sangue
in uno stadio scalcinato colmo di fumo urlante,
ma più che altro non frega niente a me, che sto qui
con la bocca piena di denti marci,
che sto qui a leggere Herrick e Spencer e
Marvell e Hopkins e Bronte (Emily, oggi);
che ascolto Midday Witch di Dvorak
o Le Chasseur Maudit di Franck,
in realtà, non me ne frega niente, ed è un peccato:
ho ricevuto lettere da un giovane poeta
(molto giovane, sembra) che mi dice che un giorno
sarò certamente riconosciuto come
uno dei migliori poeti del mondo. Poeta!
una malversazione: oggi ho camminato nel sole e nelle strade
di questa città: senza vedere niente, senza imparare niente,
senza essere
niente, e tornando alla mia stanza
ho incrociato una vecchia che ha sorriso di un sorriso orribile;
era già morta, e dappertutto mi sono ricordato di cavi:
cavi telefonici, cavi elettrici, cavi per facce elettriche
intrappolate come pesci rossi nel vetro che sorridevano,
e gli uccelli erano spariti, nessuno degli uccelli voleva cavi
o il sorriso dei cavi
e ho chiuso la porta di casa (finalmente)
ma dalle finestre era la stessa cosa:
un clacson ha suonato, qualcuno ha riso, un water ha scaricato,
e stranamente in quel momento
ho pensato a tutti i cavalli con i numeri,
che sono passati tra le urla,
passati come Socrate, passati come Lorca,
come Chatterton...
preferirei immaginare che la nostra morte non sarà molto
importante
se non per un problema di smaltimento, un problema,
come gettare la spazzatura,
e anche se ho conservato le lettere del giovane poeta,
non credo in esse
ma così come guardo
le palme malate
e la fine del sole
a volte le guardo.

(Charles Bukowski, 1966: so benissimo quanto ho peccato. Guanda 2011. Pag.87-91)

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