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sabato 31 agosto 2013

CONSUMISMO E DEMOGRAFIA






“Ogni dollaro speso per il controllo demografico equivale a dieci dollari risparmiati in aiuti e conflitti” – Lyndon Baines Johnson, Presidente Usa, 1964-.


Scenari di complessità tra mercato globalizzato ed esplosione demografica.


C’è un subcontinente fatto di isole galleggianti sparpagliate e semisommerse che nessuno conosce e che nessuna carta geografica riporta, situato al centro del Pacifico. Ha circa 50 metri di spessore e si estende frastagliato in isolotti, per un’area grande come gli Stati Uniti. E’ un silenzioso mostro ambientale che si accresce giorno per giorno nel silenzio dei media e nel disinteresse dei governi: è  il subcontinente della spazzatura che ormai intossica gli oceani e altera irreversibilmente la superficie marina. Il subcontinente della spazzatura è la nuova emergenza della produzione di rifiuti, i quali   provengono dalle aree urbanizzate del pianeta, quelle aree megapolitane che stanno anch’esse crescendo come un cancro che sta invadendo e corrodendo la superficie terrestre. Sette miliardi e mezzo di umani producono montagne e montagne di rifiuti urbani che non hanno più smaltimento e finiscono per accumularsi sulla terra e nei mari. La civiltà che si sta sempre più caratterizzando come la civiltà dei rifiuti è quella che sta attualmente globalizzandosi su tutto il pianeta: la civiltà dei consumi. Ci sono nel mondo sette miliardi e mezzo di consumatori attuali o potenziali. Tutti aspirano a diventarlo, non esistono più differenze di ideologie o di religioni sotto questo aspetto: tutti vogliono consumare e due sono i poteri planetari che dominano e dirigono il fenomeno: la finanza ed il mercato. Il potere dei consumi si è rivelato in tutta la sua efficacia dopo il 1989. Per decenni il mondo occidentale e l’Unione Sovietica si erano fronteggiati con armi, aerei da guerra, navi e missili nella cosiddetta “guerra fredda”. Poi inaspettatamente due aspetti della civiltà consumistica, i supermercati e la televisione, hanno in pochi anni distrutto l’ideologia socialista e comunista  che sembrava fino a pochi anni prima inarrestabile e sempre più diffusa. Il trionfo consumista travolse  la cortina di ferro e e i  regimi dell’est , provocando la fuga , verso l’occidente alla ricerca delle merci e dei consumi,  di milioni di cittadini del socialismo reale. Il consumismo ha però come effetto collaterale l’aumento dei costi della crescita  dei figli  ed in genere lo sviluppo economico, dopo alcuni anni, si accompagna ad una minore natalità delle popolazioni interessate. I paesi sottosviluppati mantengono invece alti tassi di natalità, e lo sviluppo economico - nei casi in cui arriva-  spesso non basta a cambiare la mentalità se non si accompagna a politiche efficaci di rientro demografico. L’effetto complessivo a livello di demografia planetaria è  quello di un boom demografico inarrestabile che l’Onu nel suo ultimo rapporto quantifica in una previsione di sviluppo della popolazione mondiale fino a  9,6 miliardi nel 2050 e addirittura di 11 miliardi a fine secolo. Questa crescita avverrà per la maggior parte nei paesi arretrati o in via di sviluppo, in particolare 49 paesi situati in Africa, India, Indonesia, Pakistan, Filippine, e America del Centro-Nord. Accanto a questa esplosione vi è l’imponente processo di urbanizzazione: si prevede che nel 2050, ben  6,5 miliardi di umani vivranno in città megapolitane, più di tutta la popolazione dell’intero pianeta del 1970. Particolarmente preoccupante è l’esplosione demografica nell’Africa sub-sahariana dove si va strutturando una dimensione demografica con forte prevalenza di giovani, elemento che porta ad escludere una diminuzione dei tassi di natalità nei prossimi anni.

 Mancanza di strategie
Il problema che si pone al mondo occidentale è drammatico perché non ci sono strategie per affrontare questa situazione che sta ponendo a grave rischio l’ambiente e la sopravvivenza stessa del pianeta: mancano istituzioni che studino il fenomeno, che elaborino strategie, che affrontino i pericoli immediati. L’Onu latita, perso in diatribe e conflitti di potere su aspetti irrilevanti e secondari. Mancano strategie e politiche adeguate anche a livello dei singoli paesi; gli Stati Uniti che al tempo di Kennedy e Johnson avevano affrontato il problema specie in America Latina con interventi volti allo sviluppo economico e al controllo della natalità (ma le iniziative furono interpretate al tempo come colonialismo), dopo l’avvento di Reagan e del liberismo hanno interrotto ogni politica di contenimento demografico anche per favorire le strategie di mercato che considerano la popolazione come target di consumi. Il commercio e la finanza americana non accetta politiche di controllo delle nascite. L’UE,da parte sua, non ha più una politica estera, e subisce passivamente gli effetti della globalizzazione e del trionfo della ideologia unica consumista in una afasia disperante priva di idee e di visioni strategiche. Il mondo sta cambiando in maniera del tutto incontrollata in un caleidoscopio in cui prevalgono interessi finanziari e consumismo che porta a stressare le risorse ambientali e all’esaurimento delle risorse fondamentali  fino a prospettare un prossimo disastro ambientale planetario.

Le Megalopoli
Uno dei principali effetti indotti dal boom demografico e dal trionfo del consumismo nelle nuove aree di sviluppo è il fenomeno delle Metropoli megapolitane marginali ( diversamente denominate: Slum, Calampas, Bidonville, ecc.), città-baraccopoli che crescono senza freno come organismi o alveari non controllabili senza infrastrutture adeguate (strade, fogne, acquedotti, servizi ecc.) . Un esempio è quel che sta avvenendo al Cairo in cui convivono 15 milioni di abitanti nel più completo caos urbanistico. Non vi sono analisi del fenomeno che possano consentirne una regolamentazione. Si assiste inoltre al fatto potenzialmente dirompente della convivenza in queste aree urbane “in via di sviluppo” della stretta vicinanza tra zone ricche e bidonville in cui l’unica cultura unificante è quella di un insensato consumismo senza scopi e senza una guida politica consapevole. Vediamo quello che sta avvenendo nel comprensorio Deli-Calcutta nel bacino del Gange: un’area di urbanizzazione sregolata e caotica in cui vive e sopravvive una popolazione composta da 500 milioni di persone. Un enorme nube di smog, gas e particolati staziona su tutta l'area nella rilevazione dei satelliti. Un disastro ambientale e umano spaventoso e senza precedenti nella storia del pianeta Terra. Strutture umane di questo tipo non possono essere assolutamente governate, non esistono istituzioni o mezzi adeguati a regolamentare i fenomeni sociali: unico criterio spontaneo  sono le appartenenze etniche e religiose e un malinteso sfrenato desiderio di consumismo (frutto di una distorta visione dell’occidente ricco)  che si scontra con arretratezza economica e un mercato sregolato. Presto l’India supererà la Cina dal punto di vista demografico: attualmente viaggia su un miliardo e 350 milioni di abitanti e non si può immaginare quale politica, quale organismo possa fare qualcosa. Le megalopoli saranno i centri del futuro sviluppo dell’India, ma anche delle altre grandi aree di crescita demografica come l’Africa. I motori pseudo-ideologici di questo nuovo fenomeno non sono però solo la finanza ed il mercato con il sogno consumista. In un mix incredibile e dagli sviluppi imprevedibili nelle megalopoli in formazione giocano   anche le appartenenze etniche e religiose, le culture tradizionali o rivisitate dopo l'irrompere dello sviluppo. Una megalopoli cinese ( in Cina nel 1949 c’erano 500 milioni di abitanti, oggi 1,5 miliardi) è diversa da una megalopoli africana o Indiana e questa è diversa da una grande città dell’America latina. Le etnie e la religione  influenzano la convivenza, si creano nuovi conflitti, nuove separazioni, ghetti e prevaricazioni. Allo stesso tempo si estremizzano nuove differenze: nuovi ricchi e nuovi poveri, nuove opportunità in cui giocano nuovi fattori. La produttività di un’area urbana è superiore a quella delle aree rurali ma la povertà urbana è più dura di quella delle campagne. La povertà dentro le slum e le baraccopoli non è gestibile, a differenza di quella delle aree rurali in cui la produzione del suolo e le minori esigenze delle famiglie riducono il disagio . Tuttavia le megalopoli riescono a modificare  realtà consolidate da secoli: in Africa la nascità delle nuove città riduce   la mentalità tribale consentendo coabitazioni prima impensabili (sinecismo) ed   i modi di vita atavici vengono stravolti in pochi anni dalla nuova civiltà dei consumi generando di converso  una fragilità culturale che lascia le persone spaesate e a volte vittime di corruzione, illegalità e violenza. Molto istruttivo è l’esempio di ciò che è avvenuto a Lagos in Nigeria: qui si è assistito alla convivenza di popolazioni di diverse etnie in aree metropolitane in forte espansione. Lagos è passata nel periodo che va dal 1950 al 2000 da 288.000 abitanti a 13 milioni di abitanti. Si tratta di fenomeni esplosivi dirompenti senza precedenti nella storia della civiltà  ( e della biologia) umana. Non ci sono forze o centri studi o istituzioni in grado di affrontare fenomeni di questo tipo. Nell’area di Lagos si è generato spontaneamente un mix tra forze che agivano localmente come l’islam, gli afflussi di denaro provenienti dal petrolio, lo sfruttamento intensivo, il consumismo nella versione deteriore e altamente devastante per l’ambiente naturale e sociale dei suburbi africani. L’Onu si è completamente disinteressato al problema, così come il governo locale dedito alle spartizioni corruttive dei proventi petroliferi. Si è cercato di studiare una Weltstadt (cultura delle megalopoli) in grado di collegare la visione delle metropoli occidentali a forte industrializzazione e con strutture  telematiche  alle submegalopoli ingovernabili delle aree arretrate, ma manca ancora un paradigma in grado di guidare il processo ed il progetto è rapidamente fallito. 50 anni fa, ai tempi di Kennedy e Johnson c’era più capacità di capire, oggi non ci sono né visioni politiche, né studi in grado di affrontare il livello di complessità delle megalopoli in crescita. Le cinque grandi civiltà rimaste nell’epoca della globalizzazione, quella occidentale, l’Islamica, l’Indiana, la cinese e l’africana affrontano i cambiamenti epocali ciascuna con moduli diversi. Tutte però si rapportano con il fenomeno globale del consumismo e del mercato, interpretandolo secondo le varie visioni, senza parametri condivisi. Gli studi odierni sono settoriali, incapaci di visioni complessive. Sarebbe necessaria una nuova civiltà dei limiti dello sviluppo e del controllo demografico, ma non c’è nessun centro studi, nessuna organizzazione internazionale o governativa che si faccia avanti con proposte concrete, questo è la situazione attuale – un vero dramma considerando i dati recenti del World Population Project dell’Onu sull’accelerazione dell’esplosione demografica in atto.

 L'Africa
Una analisi utile quale esempio dei problemi emergenti è lo studio di  quello che sta avvenendo in Africa, proprio per evidenziare come siano in gioco  dinamiche e forze assolutamente nuove e senza precedenti che stanno portando a situazioni socialmente, economicamente e culturalmente inesplorate. Edwuard French sul settimanale The Atlantic in un recente articolo passa in rassegna i cambiamenti in atto nel continente africano dove esistono Stati-nazione assolutamente inventati a tavolino senza ragioni oggettive se non quelle dei colonizzatori per assicurarsi un buon sfruttamento dei territori o per procurarsi accordi vantaggiosi con le tribù dominanti al momento. Guardiamo la Nigeria. È stata assemblata 100 anni fa mettendo insieme popolazioni diverse, culture e religioni diverse. Poi c’è stato il boom petrolifero con uno sfruttamento intensivo, l’arruolamento schiavistico di maestranze e lavoratori e la devastazione della foresta pluviale, l’inquinamento delle acque dei laghi e dei fiumi, l’immissione di sostanze chimiche inquinanti sui suoli. L’affare petrolifero ha dato luogo a lotte intestine, a colpi di stato ripetuti, a massacri, alla corruzione, ad un paese con forti disuguaglianze e con l’80% della popolazione sotto la soglia della povertà. Su questo si è innescato il boom demografico più grande del pianeta con una popolazione attuale di 280 milioni avviata a diventare a fine secolo di circa 900 milioni. In Nigeria questo sviluppo abnorme si è incentrato sull’espansione dell’area megapolitana di Lagos che ha profondamente alterato la struttura tribale e culturale precedente. Tutta l’Africa si sta avviando ad uno sviluppo che si va strutturando su queste grandi città, superando le divisioni artificiali in Stati, le appartenenze etniche, creando da un lato stress geopolitico, dall’altro corridoi urbani che generano centri di attrazione e aggregazione, mercati, scambi, trascinano sviluppo, fondano città nuove, sviluppano vecchi villaggi come Abijane in Costa d’Avorio anch'essa avviata a divenire megalopoli. Nuovi conflitti, spesso violenti, sono il prezzo inevitabile di questi rapidi cambiamenti. Intorno ad alcune vie di comunicazione, come la strada di  Bathacri, si interconnettono economie di stati diversi, aree urbane, vere e proprie città-stato, le nuove realtà  dell’economia e della politica africana. Le tradizioni locali e l'idea di stato sono talmente deboli che basta una strada a cambiare l'economia e  gli interessi politici dell'area. 

 L'Area euromediterranea
Se applichiamo la logica delle megalopoli vediamo come si delinea la nuova geopolitica con ciò che sta avvenendo nell’area euromediterranea. Nella visione eurocentrica si va delineando una nuova fortezza politico-economica composta dal pentagono metropolitano: Londra-Parigi-Milano-Monaco- Amburgo, dove dominano una tecnologia avanzata e strutture economico-finanziarie forti. Più ci si allontana dall’area del pentagono più ci si trova in aree con economie fragili e stagnazione industriale (ad esempio Madrid, Roma, Atene, Lisbona) fino a delineare una riva sud dell’Europa con economia debole e una politica eterodiretta. Ancora più a sud c’è un vero cambio di paradigma. La frattura passa in corrispondenza del bacino del mediterraneo: la crescita demografica sulla sponda africana supera di molto quella europea. L’economia cambia totalmente nell'area nord africana  e diviene di sussistenza con carenze strutturali e arretratezze  industriali e tecnologiche.  C’è una vera e propria faglia che divide il mediterraneo in due. A sud  l’area instabile in cui l’Islam   presenta una evoluzione estremista che fa pendant con  la  fragilità di fronte alla penetrazione del modello consumista. L'Islam aveva rivestito un ruolo di sviluppo e di rilevanza culturale dalle origini fino al XV secolo. Ma dal 1500 ha iniziato una involuzione e  progressivamente ha perso contatto con la rivoluzione industriale europea e ha mancato lo sviluppo  verso una visione politica liberale. L'arretratezza culturale ed economica non si è giovata che in minima parte del mercato petrolifero ed inoltre l'esplosione demografica ha comportato problemi fino all'attuale instabilità politica.  A nord l’Europa ipertecnologica ha conservato il know how ma ha perso posizioni in campo industriale ed economico  ed attualmente sta assistendo ad una stagnazione che vede  lo sviluppo spostarsi verso nuove aree   del pianeta. Tra queste due aree sarebbe necessario un dialogo anche a livello istituzionale che consenta di affrontare i problemi, con nuove visioni politiche e culturali in grado di creare aperture e determinare i limiti. Tutto invece viaggia per suo conto senza guida e senza regole. Il mix tra consumismo (spesso elaborato sulla base della realtà virtuale appresa da internet o dalla tv) ed estremismo religioso, unito all’esplosione demografica, crea le basi per conflitti sempre più violenti.






lunedì 26 agosto 2013

Il Fracking: l'utopia delle rinnovabili e la realtà petrolifera




Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive
                                               (Giacomo Leopardi) 


Gli ambientalisti si cullano con l'idea che le rinnovabili stanno avanzando ovunque, ma la realtà è ben diversa dai sogni: il petrolio ha una nuova giovinezza e lo shale oil e lo shale gas stanno riportando in alto le curve di consumo degli idrocarburi, insieme all'esplosione del carbone in Cina. In America e Canada si aprono ogni giorno nuovi pozzi che utilizzano la tecnologia del fracking per estrarre petrolio e gas naturale  dagli scisti bituminosi  a forti profondità. Si prevede che nei prossimi anni gli Stati Uniti diventeranno il primo produttore al mondo di greggio. Questo, lungi da riguardare solo la sfera dell'economia, si sta già da qualche anno ripercuotendo sugli equilibri geo-politici. Gli Stati Uniti si stanno ritirando dall'influenza diretta  sui regimi nelle aree dell'oro nero: si sono ritirati dall'Irak, hanno tolto l'appoggio ai regimi arabi del nord Africa, hanno allentato la presa sul medio oriente, permettendo la caduta dei dittatori con cui fino a pochi anni fa avevano controllato l'area strategica. Con una forte iniezione di real politik hanno così lasciato la patata bollente dell'approvvigionamento energetico all'Europa, alla Cina e al Giappone che ora se la debbono vedere da soli. 

Sulla nuova realtà del Fracking negli Stati Uniti riporto la seguente personale rielaborazione di un bell'articolo sulla febbre dell'oro nero  nel North Dakota apparso su National Geographic del marzo 2013 a firma di Edwin Dobb. 

mercoledì 21 agosto 2013

Il Racconto del Vucumprà



OSTIA LIDO-ROMA. Un giovane Vucumprà che vende le sue cianfrusaglie sulla spiaggia di Ostia dopo pochi convenevoli, racconta la sua storia. E' la storia di un clandestino, immigrato su un barcone che lo ha portato sulle coste italiane dopo un lungo e faticoso viaggio per terra e per mare. Un viaggio dove molti hanno speculato e guadagnato sulla disperazione umana: loschi trafficanti che impongono di pagare a chi spesso non ha di che cibarsi. Proviene da un piccolo paese del nord della Nigeria, vivono di quel poco che da la terra, non ci sono scuole, l'ospedale in un'altra regione, lontanissimo. Si sposano tra cugini, tra affini, tra parenti più o meno lontani, tutti sono parenti con gli altri in una sorta di mondo familiare allargato. Lui, a quindici anni, è già sposato per procura con una cugina di 14. Anche i suoi genitori sono cugini. La madre ha 34 anni e 12 figli. L'unica attività produttiva è fare figli, non c'è altro. Per le donne esiste questo dovere: debbono fare più o meno un figlio all'anno, lo impongono la tradizione, la consuetudine, il volere dei vecchi uomini che comandano, lo vuole dio secondo la religione, lo pretende l'imam, lo desidera il padre. Una donna è schiacciata, non può fare altro che obbedire, non ha i mezzi materiali e culturali per opporsi, non è possibile nessuna forzatuta sociale. Forse lo vuole lei stessa, perché la sua vita è stata tutta dentro il potere opprimente del maschio. La donna non ha alcuna vita indipendente, è un'animale da riproduzione. Finito il periodo di allattamento del figlio appena nato, debbono pensare al figlio successivo. Una gravidanza segue l'altra, c'è appena il tempo di riprendersi dopo il parto e l'allattamento. Poco meno di un figlio all'anno. E questa è una mentalità diffusa in tutto il nord delle Nigeria, ma anche in gran parte del sud. Solo nelle periferie delle grandi città come Lagos c'è qualche piccolo segno di cambiamento: si trovano donne con solo quattro o cinque figli. Ma è una lotta impari. E lui, il piccolo vuccumprà, è stato costretto a scappare a cercarsi altrove dei mezzi per sopravvivere. Anche lui è diventato carne per i trafficanti come tanti altri.

Sulla situazione in Nigeria, e in generale di tutta l'area dell'Africa sub-sahariana riporto qui di seguito l'articolo ben documentato apparso sul New York Times nell'aprile 2012 a firma di Benedicte Kurzen. E' un documento che conferma quanto racconta il giovane vucumprà di Ostia, e ci da un'immagine della situazione disperata di quel paese e delle difficoltà a cambiare culture e costumi atavici e implementati dalle religioni nataliste come islam e cattolicesimo. A speculare su queste popolazioni non sono solo criminali trafficanti, ma anche sedicenti uomini di chiesa e di moschea. Purtroppo alla situazione demografica esplosiva contribuiscono anche le politiche di potenza di alcuni stati nazionali che vedono nei tassi di natalità altissimi un mezzo di potere e di espansione di interessi. Di fronte a tutto questo spicca il silenzio dell'Onu, dei governi delle grandi e medie potenze sia su scala mondiale che locale. Tacciono le organizzazioni non governative, tacciono gli organizzatori dei vari protocolli di Kyoto, delle conferenze sull'ambiente e di quant'altro, dediti ai pannicelli caldi delle emissioni nocive senza vedere da dove originano le emissioni, senza prender atto dell'enorme richiesta di cibo, consumi  e risorse ambientali di miliardi di umani in rapida crescita demografica. Tacciono i verdi e gli ambientalisti del "politically correct" che come i dannati danteschi guardano col collo torto e vedono solo i danni delle imprese e del mercato, senza guardare alle distese oceaniche di umani che chiedono più consumi a quelle imprese e a quel mercato, più produzione, più lavoro, più emissioni, più rifiuti, più energia, più acqua, più più...in un osceno e tragico circolo vizioso per tutti noi e per il pianeta. Spero che l'articolo del NYT qui riprodotto (traduzione personale) possa servire a risvegliare le coscienze.

sabato 17 agosto 2013

PER UNA VISIONE NON ANTROPOCENTRICA DEL MONDO

Riporto di seguito l'intervento di Filippo Schillaci dell'associazione antispecista "Parte in Causa" al recente incontro che l'associazione ha tenuto con Radicali Ecologisti sul tema della visione del mondo antropocentrica che spesso riguarda anche chi si batte per il rispetto ambientale. Molti ambientalisti hanno infatti visioni settoriali del problema ecologico e non riescono ad uscire da una mentalità che vede l'uomo al centro di tutto mentre l'ambiente e le altre specie sono un puro sfondo, "risorse" o "patrimonio" come spesso vengono definite a cui l'uomo può liberamente attingere secondo le sue esigenze e necessità egoistiche. Al contrarrio la tutela degli animali e delle altre specie viventi è un modo fondamentale per ritrovare un equilibrio della natura, e se non si compie quella rivoluzione interiore che ci porta a vederci come parte della natura e NON come padroni di essa, la nostra battaglia per l'ambiente sarà persa in partenza. Schillaci denuncia apertamente le visioni antropocentriche di chi si batte ad esempio per la decrescita ma mette sempre al centro l'uomo e le sue necessità, come Latouche, facendo sì che un concetto giusto - la riduzione dell'impatto ambientale dell'uomo e delle sue attività- venga mistificato e ridotto ad una semplice riorganizzazione della produzione che non va ad incidere su fattori fondamentali come la crescita demografica eccessiva e l'antropizzazione massiccia di tutta la Terra. Diceva Terzani che l'uomo che ha ritrovato la coscienza del proprio essere parte della natura è quasi un illuminato in mezzo ad un mondo di uomini che si sono persi nel proprio egocentrismo di specie. Purtroppo i fautori (spesso inconsapevoli) dell'antropocentrismo sono oggi ancora la stragrande maggioranza. Aver preso coscienza dell'errore antropocentrico è' come una rivoluzione interiore religiosa. Chi sa, cambia il proprio sguardo sul mondo, e spesso proprio dallo sguardo gli "illuminati" si riconoscono. Essi sono ancora pochi, la battaglia per la salvezza dell'uomo e della natura è ancora lunga, ma ritrovare nello sguardo di un altro la stessa consapevolezza ci conforta nel proseguire la battaglia per ritrovare il giusto rapporto con la natura, che sempre è anche un ritovare la nostra appartenenza, e per il rispetto di tutte le specie viventi. Questo articolo di Schillaci è importante, e per questo lo riporto completamente.
"Il 5 luglio 2013 a Roma l’associazione antispecista Parte in Causa e l’associazione ecologista Radicali Ecologisti organizzarono un incontro pubblico comune per riflettere sulle diversità ma, soprattutto, sulle compatibilità e dunque sulle possibilità di incontro e dialogo, fra i due paradigmi. Io fui invitato a partecipare e quanto segue è il testo di quello che fu il mio intervento. La ripresa video completa dell’incontro, comprendente anche l’introduzione di Giovanna Devetag e gli interventi di Marco Maurizi e Fabrizio Cianci, è visibile nella pagina web: Ecologisti e antispecisti: un dialogo possibile?
Filippo Schillaci
Prima parte Alcuni anni fa, in una lettera aperta a Maurizio Pallante, paragonai il movimento alternativo a una bicicletta di cui abbiamo sì tutti i pezzi, però smontati e sparsi in disordine intorno a noi. È chiaro che con una bicicletta conciata così non andiamo da nessuna parte, affinché possa esserci utile dobbiamo ovviamente montarla cioè stabilire le relazioni funzionali fra i vari pezzi. È quello che oggi non accade. Eppure queste relazioni esistono, sono molto naturali e ci vorrebbe ben poco a vederle e trarne le dovute conseguenze. Qui cercheremo di capire quali sono le relazioni naturali fra l’antispecismo da una parte e l’ecologismo, cui aggiungerei la decrescita, dall’altra. Premetto che nel seguito metterò ecologismo e decrescita su uno stesso versante e antispecismo sull’altro. Questo perché ecologismo e decrescita hanno in comune il fatto di muovere una critica all’esistente senza mettere in discussione il modello di cultura antropocentrico. L’antispecismo ha il difetto perfettamente e disutilmente complementare di mettere in discussione l’antropocentrismo ma non tutto il resto. Vorrei iniziare raccontando due episodi. Il primo accadde un paio di anni fa a Canzo, un paese montano in provincia di Como dove fui invitato a parlare di decrescita. Ogni volta che parlo di questo argomento non manco mai di affrontare il tema dell’impatto ambientale del settore agroalimentare, perché è il settore a più alto impatto che esista. Quando affronto questo tema a sua volta non manco mai di parlare di quella che ne è la componente più pesante ovvero, sulla terra, la zootecnia (cui si aggiungono pesca e acquacoltura, che fanno ancora peggio nel mare). Stavo dunque parlando quel giorno di impatto ambientale della zootecnia quando accadde una cosa interessante. Ma per capire il significato di ciò che accadde è necessario prima esser certi che sia ben chiaro di cosa stavo parlando, cosa significa “impatto ambientale della zootecnia”, e l’esperienza insegna che non è così scontato. Apriamo dunque una breve parentesi su questo argomento. La zootecnia è responsabile del 18% delle emissioni mondiali di gas serra di origine umana, pari a 7,1 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. Il 70% di esse non vengono dagli allevamenti intensivi bensì da quelli estensivi, cioè quelli tradizionali, basati sulla terra, che sono tuttora molto diffusi nel mondo e in particolare sono prevalenti nell’allevamento dei ruminanti. Ciò è in contrasto con la diffusa convinzione secondo cui sarebbero solo gli allevamenti intensivi a fare danni mentre quelli estensivi sarebbero sostenibili quando non addirittura spacciati come “a impatto zero”. Un’altra cosa da dire è che di quei 7,1 miliardi soltanto 850.000 tonnellate (pari allo 0,012% delle emissioni zootecniche) sono prodotte nella fase dei trasporti, il che contrasta con la diffusa credenza che basti adottare il criterio dei “Km zero” per rientrare nell’alimentazione sostenibile. In realtà, nel caso dei prodotti zootecnici, non si intacca neanche la superficie del problema. Teniamo presenti queste contraddizioni perché ci saranno utili più avanti. La zootecnia inoltre è la prima causa assoluta di distruzione delle foreste primarie. In Amazzonia, quasi due terzi delle aree deforestate sono destinati a usi zootecnici, in prevalenza pascolo. L’allevamento al pascolo ha anche un ruolo determinante nel processo di desertificazione. Esso occupa due terzi delle aree aride e si è constatato che la velocità di avanzamento dei deserti è maggiore nelle aree soggette al pascolo che in quelle soggette a qualsiasi altro uso. Infine (ma siamo in realtà ben lontani dall’aver detto tutto), la perdita di suolo dovuta a erosione nel mondo è stimata in 75 miliardi di tonnellate all’anno. L’allevamento ne è ancora una volta il principale responsabile poiché vi concorre per il 55%.1 Stavo dunque dicendo tali cose quel giorno a Canzo quando una vecchietta interviene e obietta: «Ma io mi sento superiore agli animali!» Magnifico, ma… che c’entra? Le risposi in sostanza così quel giorno: che c’entra? Però mi sbagliavo, perché sì, la vecchietta aveva “ragione”: c’entra. E più avanti cercheremo di capire perché. Ma intanto passiamo al secondo episodio, che accadde circa un anno fa non in un luogo fisico bensì sul web dove, a margine di una discussione, alcuni lettori cominciarono a polemizzare sul tema dell’alimentazione vegetariana. Una lettrice che si era definita animalista scrisse: «a me basta che siano cibi vegetali, poco importa se biologici o no». Possiamo dire, come primo commento a questi due episodi, che l’inconscio della vecchietta specista di Canzo coglieva una connessione fra antropocentrismo e sostenibilità ambientale che invece sfuggiva alla ragione dell’animalista del web. Ed è inevitabile constatare che l’atteggiamento più diffuso, in tutti i contesti a vario titolo “alternativi”, è quello dell’animalista: la cecità nei confronti delle connessioni. Se proviamo infatti a leggere dei libri che si occupano di antispecismo, ecologismo e decrescita ne ricaviamo la netta sensazione che stiano parlando di tre temi completamente scollegati fra loro. Vediamo in dettaglio a cosa ci troviamo di fronte. Antispecismo. Protagonista: l’animale, ma discusso come un’astratta entità morale immersa in una sorta di etere costituito dall’insieme dello specismo visto come pregiudizio morale e dalle dissertazioni della filosofia morale che lo avversano2. Decrescita. Protagonista: l’uomo, ma che uomo è? È un’entità in relazione solo con se stessa che non si capisce bene dove viva, cosa la circondi: si percepisce soltanto la presenza di un’entità esterna chiamata “ambiente” che bisogna preservare come condizione necessaria alla preservazione dell’uomo stesso, ridefinendo totalmente (già a livello di fini da perseguire) l’insieme delle pratiche produttive e l’organizzazione dei rapporti interni alla società umana. Ma cos’è questo “ambiente”? Anche qui siamo di fronte a un’astrazione, un’entità impersonale e dunque priva di identità autonoma, al punto da essere spesso indicata col temine “risorse” o “patrimonio”. Un oggetto indispensabile ma nulla più3. Ecologismo. Protagonisti: gli ecosistemi, ma secondo una visione non molto lontana dal concetto di ambiente già visto parlando di decrescita. Piuttosto che come comunità di esseri viventi, quali essi sono, vengono descritti anche qui secondo una visione meccanica, impersonale in cui ci sono degli ingranaggi in perfetto equilibrio reciproco, esistente da sempre e da preservare per sempre. L’uomo è un’entità a essi estranea e, spesso, antitetica, da tenere a bada nelle sue manifestazioni più distruttive. A differenza della decrescita, per di più, l’ecologismo non pone una critica complessiva alle componenti materiale e sociale dell’assetto umano sulla Terra ma solo una critica puntuale a certe pratiche ad alto impatto ambientale, al punto che in una visione “di superficie” dell’ecologismo trova spazio anche l’equivoco concetto di sviluppo sostenibile. In ciascuno di tali contesti manca, dicevo, la visione delle connessioni fra le varie componenti della realtà. Ma di che natura sono queste connessioni? Ovvero, perché antispecismo, decrescita, ecologismo non possono essere né teorizzati né praticati separatamente? Potrà esserci utile notare preliminarmente che comune a ciascuno dei tre contesti è l’assenza di una visione storica del particolare “pezzo” del problema che essi esaminano mentre è proprio da una tale visione che l’unità di fondo potrebbe risultare visibile. Quando, come, perché nasce l’ideologia specista e con essa il dominio sistematico dell’uomo sulle altre specie animali? Quando, come, perché nasce la società della crescita? Quando, come, perché inizia lo scempio degli habitat naturali? Forse si scoprirebbe che queste tre domande hanno un’unica risposta e che dunque stiamo parlando di un processo unitario e inscindibile. Quello che accade oggi invece, come dicevo, è che non viene evidenziato nessun divenire storico. Ad esempio nei libri sulla decrescita una cosa che mi colpisce è che c’è una critica sempre molto esatta, precisa, inconfutabile del presente ma nessuna domanda sulla genesi di esso. C’è la società della crescita, e va bene. Ma come è nata, dove, quando? Se ne ricava l’immagine di un’umanità che per secoli è stata bella, buona, in armonia con se stessa e con la natura e che poi, improvvisamente, sessant’anni fa impazzisce e comincia a spaccare tutto. Non è andata propriamente così. Questa vicenda della crescita è in realtà un processo storico di lungo periodo iniziato già in epoca protostorica, in Europa con le invasioni dei Kurgan, il popolo pastorale che abbiamo conosciuto a scuola con il nome di Indoeuropei, processo che è andato avanti progressivamente, millennio dopo millennio fino a giungere oggi al suo compimento con la globalizzazione. È quella che Jeremy Rifkin chiamò l’espansione della cultura della bistecca. Nell’ecologismo l’unico testo a me noto che si pone il problema di un’analisi storica risale al 1965, è Prima che la natura muoia di Jean Dorst e la sua analisi è non a caso in perfetta sintonia con quanto abbiamo appena detto: anche Dorst identifica nel neolitico il momento in cui l’umanità cominciò ad avere un impatto sensibile sugli ecosistemi con l’irrompere dell’agricoltura e, soprattutto, dell’allevamento. Ma una tale analisi è del tutto scomparsa dai testi più recenti. Quanto all’antispecismo, andiamo ancora peggio perché l’impostazione filosofico-morale oggi dominante impedisce perfino un’analisi corretta del presente. Non mi dilungo a questo proposito rimandando alla distinzione fra antispecismo metafisico e storico fatta da Marco Maurizi. Ma anche senza immergersi in una analisi storica del presente e della sua genesi i legami di cui parliamo possono risultare evidenti sulla base di considerazioni per così dire “strutturali” sulla natura dei contesti che stiamo esaminando. C’è, a questo proposito, una storia indiana che ha raccontato anni fa Terzani e che ci pone di fronte a una situazione simile a quella in cui ci troviamo. Alcuni ciechi vengono messi di fronte a un elefante col compito di descriverlo. Ciascuno ne tocca una parte (la proboscide, un orecchio, la coda, una zampa…) e la descrive convinto che ciò di cui parla sia l’elefante nella sua totalità. In realtà l’elefante è l’insieme di tutte queste cose e come spesso accade l’insieme è più della somma delle parti. Analogamente antispecismo, decrescita, ecologismo non fanno altro che descrivere lo stesso oggetto osservato da tre punti di vista diversi. Ciascuno, dal suo punto di osservazione, ne vede solo una parte, ma ciò non toglie che sia un’unica cosa. Purtroppo accade che quando si vede un problema in maniera parziale le risposte che si danno a esso non sono risposte parziali, sono proprio risposte sbagliate. Sempre parlando di decrescita, un esempio di risposte sbagliate è quello di prendere le società tradizionali come punti di riferimento validi. Nulla di più errato perché se, come abbiamo detto, la società della crescita affonda le sue radici nelle fasi più arcaiche della storia europea, la cosiddetta “civiltà contadina” è in realtà la “civiltà industriale” in uno stadio precedente di evoluzione. Ma è la stessa società4. Adesso vorrei dividere il discorso in due fasi. Nella prima proverò a dimostrare perché l’antispecismo implica l’ecologismo e la decrescita; nella seconda farò la dimostrazione complementare: perché ecologismo e decrescita implicano una visione antispecista. Seconda parte Perché l’Antispecismo implica Decrescita ed Ecologismo? Cominciamo con alcuni esempi, partendo proprio dalla frase scritta dall’animalista sul web. Chi ha letto Primavera Silenziosa di Rachel Carson, il libro che mezzo secolo fa diede l’avvio al movimento ecologista, sicuramente non ha dimenticato le pagine impressionanti che l’autrice dedica alla descrizione degli effetti che i pesticidi hanno sugli animali, domestici e selvatici (oltre che sull’uomo, naturalmente). Potremmo aggiungere a ciò la recente notizia che le popolazioni di uccelli in Europa hanno subito negli ultimi decenni una drastica rarefazione, la cui causa primaria viene identificata nell’agricoltura industriale (nel cui ambito è da inserire anche la gestione intensiva dei pascoli), non solo attraverso l’uso di sostanze chimiche letali ma anche, forse soprattutto, attraverso la sistematica distruzione degli habitat. Secondo esempio: abbiamo parlato prima di deforestazione, ma cosa significa “deforestazione”? L’antispecista medio tipicamente sorvola con troppa facilità sul fatto, peraltro autoevidente, che la distruzione di una foresta implica la morte di tutti gli animali che vivevano in essa. Quando, come spesso accade se lo scopo è la creazione di un pascolo, la foresta viene non abbattuta ma bruciata, essi muoiono bruciati vivi nell’incendio, ma anche quando essa viene abbattuta l’esito finale non è diverso: quelli che non muoiono nelle operazioni di abbattimento muoiono successivamente di stenti poiché non esiste più l’habitat da cui traevano il loro nutrimento. La distruzione delle foreste dunque implica un gigantesco genocidio di animali. Potremmo anche parlare dei cuccioli di foca, che entrano nell’orizzonte morale di animalisti e antispecisti soltanto quando muoiono uccisi a bastonate in testa da un cacciatore di pellicce, ma da alcuni anni essi muoiono anche in un’altra maniera: annegati a causa dello scioglimento precoce dei ghiacci polari provocato dal riscaldamento globale di origine umana. Però, chissà perché, di questo non c’è animalista/antispecista che ne parli. Potrei continuare citando esempi, ma l’importante è che non si tratta di episodi occasionali e contingenti. Dietro ciascuno di essi c’è una causa unitaria, un fatto di validità del tutto generale. Allora, se la domanda è: perché l’antispecismo implica una visione ecologista?, a questo punto la risposta è ovvia, ed è che l’ “animale” non è quell’astratta entità morale che dicevamo prima bensì un organismo biologico che vive in un ecosistema (come lo siamo anche noi, anche se da 10.000 anni ce lo siamo dimenticato), cioè in un habitat ben preciso e quindi il riconoscimento degli animali come soggetti, e la loro conseguente tutela, implica la tutela degli ecosistemi in cui vivono, dei loro habitat dai quali sono indissolubili, di cui sono parte; di cui siamo parte. Non si può preservare i primi senza preservare i secondi. E cos’è un ecosistema, dicevo prima, se non un insieme organico di comunità di esseri viventi? Quanto ho finora detto ha una conseguenza coinvolgente il concetto di decrescita: è pensabile una società antispecista che sia anche una società della crescita? Ovvero che si espanda all’infinito? Ovviamente no, perché su un pianeta di dimensioni finite è chiaro che se una specie vivente pretende di crescere all’infinito non può farlo che a danno di tutte le altre. Se una parte cresce, qualche altra parte deve contrarsi, non si scappa. Quindi una società antispecista è inevitabilmente una società stazionaria, il che non significa stagnante ovviamente: una società quantitativamente stazionaria. Al contrario, affinché una società pretenda di espandersi indefinitamente, dovendo con ciò fare sua la pratica del dominio, essa necessita di una visione antropocentrica5 del mondo ovvero della riduzione a cosa di tutto ciò che è esterno a sé, e dunque oggetto di tale dominio. Non a caso infatti l’antropocentrismo è nato simultaneamente al nascere della società della crescita, dunque con il primo svilupparsi delle culture urbane, ed è nato come ideologia che legittima le loro pratiche. Queste ultime considerazioni ci introducono alla seconda parte del nostro problema. Perché ecologismo e decrescita implicano una visione antispecista? Da quanto ho appena accennato possiamo cominciare a capire che la pretesa di praticare il paradigma della decrescita – o analogamente dell’ecologismo – e allo stesso tempo di mantenere un modello culturale (antropocentrismo) che serve a giustificare e sostenere ideologicamente le pratiche produttive opposte non ha molto senso. Prima di approfondire questo concetto vorrei però fare anche qui il percorso di prima, ovvero prendere un esempio pratico e poi arrivare sulla base di esso a un criterio generale. L’esempio è il seguente. Io mi sono occupato negli ultimi tre anni dell’impatto ambientale del settore agroalimentare. Alcuni mesi fa, giunto quasi in fondo a questa ricerca6, mi sono chiesto perché ho dedicato tanto tempo a studiare un ambito tutto sommato parziale della realtà, e per di più sotto un solo aspetto: l’impatto ambientale, proprio io che da sempre pongo l’accento sull’importanza dominante delle connessioni. In realtà, a posteriori, vedo che un senso l’ha avuto: mostrare come perseguire la sostenibilità alimentare mantenendo inalterato un modello culturale antropocentrico conduca a contraddizioni interne che minano alla base il perseguimento della stessa sostenibilità. Non parlo di una dimostrazione teoretica ma, potremmo dire, di una ostinata evidenza fenomenica. Ora, quando qualcosa si verifica non occasionalmente bensì sistematicamente è inevitabile constatare che dobbiamo ritenerla non fortuita bensì strutturale. Ed è questo il caso. Vediamo ora di approfondire questo discorso passo dopo passo. Nell’ambito di questa ricerca abbiamo fatto un sondaggio fra i GAS, cui abbiamo inviato un questionario contenente, fra le altre, la seguente domanda, che era poi quella che più mi interessava. In una scala fra 1 (minimo) e 10 (massimo) quale importanza dal punto di vista della sostenibilità ambientale hanno per la maggioranza dei vostri iscritti le seguenti tre scelte? – Distribuzione su scala locale, non su lunghe distanze. – Produzione con metodi biologici, non chimico-industriali. – Scelte alimentari orientate verso i cibi vegetali, non verso quelli animali. Il seguente grafico mostra le medie aritmetiche delle risposte date dai GAS (barre azzurre) messe a confronto con voti ricavati dalle analisi di impatto ambientale da noi prese come riferimento (barre rosse). Al primo posto, nelle valutazioni dei GAS, troviamo la produzione biologica, al secondo, quasi a pari merito, la distribuzione locale e al terzo, nettamente staccate, le scelte alimentari. Come si vede dalle barre rosse invece queste ultime hanno importanza primaria mentre la distribuzione locale ha un’importanza vicina alla trascurabilità. C’è dunque una differenza enorme fra la realtà quale è e quale i GAS credono che sia. Analizzando poi il modello alimentare dei GAS, che è coerente con le loro credenze e in particolare caratterizzato da una percentuale di cibi animali solo di poco inferiore alla dieta italiana convenzionale, si giunge alla conclusione che esso rientra nella fascia dell’insostenibilità7. Ebbene, ad ogni tappa di questa ricerca sono inciampato, con una sistematicità ossessiva, in contraddizioni di questo genere. Già all’inizio, parlando di zootecnia, ne accennavo alcune: la credenza che l’impatto ambientale degli allevamenti sia concentrato su quelli intensivi mentre quelli “alla Nonna Papera” sarebbero perfetti, la leggenda del “ciboachilometrizero”, ecc. Non sono contraddizioni fortuite perché se così fosse sarebbero distribuite a caso. Al contrario, c’è in esse una precisa regolarità. Anche in queste risposte dei GAS: sono tutte sbagliate, ma tutte sbagliate nello stesso modo; non accade che un GAS dia certi voti, un altro ne dia altri completamente diversi: pur con un’ovvia varianza fra un GAS e l’altro, gran parte delle risposte seguono la struttura mostrata nel grafico. E mi sono accorto che tutte queste contraddizioni vanno in un’unica direzione: concentrare l’alternativa sulle modalità di produzione del cibo, sulle modalità di distribuzione del cibo, ma non sul cibo. Cioè mantenere inalterato il contenuto del piatto del signor Rossi “alternativo” rispetto a quello del signor Rossi convenzionale. Mi sono detto che la ragione di questo sta proprio nel fatto che si cerca di muovere una critica a certe pratiche produttive senza però muovere una parallela critica al modello di cultura, alla visione del mondo che è nata in funzione di quelle pratiche e dunque la presunta “alternativa” finisce con l’essere null’altro che un inconsapevole scimmiottamento di quelle stesse pratiche, riproposte sotto mentite spoglie. Qui però devo spiegarmi meglio perché per interpretare questo risultato e in particolare in che modo esso è collegabile al mantenimento di un modello di cultura antropocentrico manca ancora un concetto importante. Terza parte Una qualsiasi società umana si basa su tre pilastri: un insieme di pratiche produttive che hanno il compito di assicurarle la materiale sopravvivenza, un ordinamento sociale che ha il compito di consentire l’attuazione di quelle pratiche e infine un modello culturale, ovvero un’immagine della realtà e della posizione del gruppo sociale in essa (da cui consegue una scala di valori e un insieme di norme di comportamento) che ha il compito di legittimare “ideologicamente”, “eticamente” quelle pratiche produttive e quell’ordinamento sociale. Di creare cioè una visione delle cose che faccia apparire lecite le une e l’altro. Naturalmente questa visione del mondo non ha il compito di descrivere oggettivamente il mondo, e tipicamente non lo fa; essa appartiene con ciò più alla mitologia che alla sfera conoscitiva della realtà. Il suo compito, ripeto, è soltanto quello di giustificare davanti ai membri del gruppo le azioni che il gruppo stesso compie al suo interno e nei confronti del mondo esterno. E poco importa se assume, come spesso accade, connotati così alienati dalla realtà da essere assimilabile a un’allucinazione collettiva. A margine non sarà superfluo dire che, ferma restando la natura fondante delle pratiche produttive, la relazione fra i tre pilastri non è lineare bensì tipo anello di retroazione. Ovvero il modello di cultura deriva dai primi due pilastri ma al tempo stesso, nel giustificarli come naturali e ovvi, agisce su di essi rafforzandoli, sia direttamente motivando ogni azione che li mantenga e rafforzi, sia indirettamente inibendo ogni tendenza divergente. Per il modo stesso in cui li ho definiti è ovvio che questi tre pilastri sono inestricabilmente legati l’uno all’altro al punto che non è pensabile cambiarne uno senza cambiare gli altri. Invece è quello che oggi avviene, col risultato che nel momento in cui si cerca di cambiare una parte della realtà ma senza cambiare il modello di cultura che è nato in funzione di quella realtà, non si fa altro che riprodurre sotto mentite spoglie quella realtà stessa o viceversa nel momento in cui si cerca di cambiare il modello culturale senza porsi il problema di cambiare contestualmente le strutture produttive e sociali che quel modello sostiene ci si trova sistematicamente nel vicolo cieco di chi pretende di costruire un tetto senza aver prima costruito l’edificio sottostante. Nel primo caso, nel momento in cui si sottopone a una critica la prassi produttiva del presente (crescita) mantenendo il modello culturale nato per giustificare quella prassi (antropocentrismo), qualunque progetto alternativo che verrà in tal modo elaborato null’altro sarà che una versione camuffata di quella stessa prassi. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle scelte alimentari, in cui non si fa altro che sostituire la carne plastificata del signor Rossi stile Mc’Donalds con la carne in pizzi e merletti del signor Rossi stile Slow Food, ma senza far caso che è la stessa carne perché dà mazzate alla Terra nell’identico modo. Nel secondo caso si rimane rinchiusi nelle astratte elucubrazioni della filosofia morale ignorando il fatto che da ben altro è, da sempre, plasmata la Storia. Tutto ciò ci aiuta a capire la strana frase della vecchietta di Canzo da cui ha avuto inizio il nostro discorso. Una vocina inconscia notava in lei che il mio no a certe attività produttive (la mia critica della zootecnia), generava uno scollamento, una frattura fra una visione del mondo (l’uomo superiore agli “animali”) e una delle modalità attraverso cui questa visione trovava una corrispondenza nel mondo reale (l’“animale” reso cosa, materia prima e trasformato in cibo). Si creava insomma un’incoerenza fra una dimensione culturale che enunciava un certo rapporto con l’altro-non-umano (la sua negazione in quanto soggetto) e una situazione materiale che impediva l’esercizio di quel rapporto, e si veniva a cancellare con ciò tutta una fetta di funzionalità, dunque di ragion d’essere di quella visione del mondo. Sono superiore agli animali ma non c’è nessuna azione pratica in cui questa superiorità possa concretizzarsi, e allora a che serve? La vecchietta si era trovata di fronte a un vuoto di significato, quella visione del mondo rimaneva sospesa nel vuoto, priva di senso, di scopo, e si veniva così a creare quella sensazione di straniamento che sicuramente ella ha provato e che l’ha spinta a dire quella frase. È questa fra l’altro la ragione per cui un modello culturale nato per giustificare certe pratiche è anche la principale fonte di resistenza al loro cambiamento. Poiché esso, una volta formatosi, è rigidamente definito, rigidamente definisce anche quelle pratiche che legittima. Qualcosa di simile accade fra i GAS il cui modello alimentare, a livello di consumatore finale, riproduce molto da vicino quello della società della crescita nel cui ambito, non dimentichiamolo, si svolge il processo di socializzazione (cioè di assorbimento del modello di cultura dominante) di tutti noi, prima che intervengano quegli elementi di critica che hanno fatto di alcuni di noi persone portatrici di una “alternativa”. Poiché le scelte alimentari hanno un ruolo di primo piano fra le norme identitarie che definiscono l’appartenenza al gruppo sociale, tali scelte mutano solo entro i confini della critica che viene rivolta al presente. Se la critica è ristretta soltanto a certi suoi aspetti, ristretti saranno anche i confini dei mutamenti che a tale critica conseguiranno. Ora, noi sappiamo che l’antropocentrismo nacque come razionalizzazione (in senso propriamente psicanalitico) di certe pratiche produttive che implicavano uno sfruttamento e un dominio cruento delle forme di vita non umane, pratiche a loro volta strettamente correlate alla produzione alimentare8, e che tale prassi del dominio (e relativa cultura) fu la base di quella che ben presto sarebbe diventata la società della crescita. Ecco dunque che non mettere in discussione una visione antropocentrica dei rapporti con il mondo vivente non umano implica non mettere in discussione le norme di comportamento (in questo caso alimentari) che quella visione giustifica. Si gira intorno al problema evitando accuratamente di andare alla radice di esso. Anche a costo dell’incoerenza, che in ogni caso nessuno vede, senza che con ciò venga meno la buona fede, poiché la psiche umana mette a disposizione una nutrita serie di strumenti di difesa che garantiscono a priori tale cecità. Ebbene, tornando alla generalità del nostro problema, sta nell’indissolubilità fra i tre pilastri il legame e la necessità reciproca, strutturale e profonda, fra antispecismo da una parte, ecologismo e decrescita dall’altra. Il primo contesto concentra la sua critica sul modello culturale, gli altri due sulle pratiche e, limitatamente alla decrescita, sui rapporti sociali, ma nessuno di questi particolari punti di vista può tradursi in un’alternativa reale se non ci si rende conto che, come già detto, si sta guardando da tre punti di vista diversi uno stesso, indivisibile processo storico. Un’ultima cosa da dire è che i processi di formazione ed evoluzione dei modelli di cultura, su cui sono ormai convinto che dovremo concentrare in maniera prioritaria la nostra attenzione futura, non avvengono a tavolino, cioè non si tratta di processi che appartengono alla sfera razionale, ma che al contrario – non a caso prima ho citato l’inconscio – risiedono nelle parti sotterranee della nostra psiche, dove la razionalità non arriva, e la cui elaborazione si compie senza che l’individuo ne abbia alcuna consapevolezza. Non è che i GAS seguano la linea che ho prima descritto perché i loro membri sono ipocriti o stupidi né lo è l’animalista che ha scritto quella frase sul web: sono tutti persone in buona fede e intelligenti, ma la buona o la cattiva fede, l’intelligenza o la stupidità non c’entrano niente perché i meccanismi psichici che entrano in gioco bypassano le facoltà di analisi critica della nostra mente, e purtroppo l’essere umano funziona così. E questo probabilmente è anche il motivo per cui il movimento alternativo è a pezzi. Perché quando si aderisce a un’associazione, a un’entità che vorrebbe modificare un pezzetto della realtà, lo si fa probabilmente perché le proprie esigenze identitarie non vengono soddisfatte in maniera completa dal sistema dominante e allora si cercano altre realtà identitarie che compensino questa incompletezza e solo essa, ma che comunque sono anch’esse realtà identitarie, funzionanti dunque secondo quegli stessi meccanismi di coesione del gruppo sociale dominante. Per questo motivo qualsiasi ipotesi di cambiamento – e questo è alla fine il risultato fondamentale, e generalizzabile, della ricerca sul contesto agroalimentare che ho qui citato, – non va mai posta a livello di individuo bensì sempre a livello di gruppo, soprattutto quando il cambiamento riguarda quelle pratiche che ne definiscono l’identità. 1 Dati tratti da: AA VV, Livestock’s long shadow, FAO, Roma, 2006. 2 Occore precisare che qui parlo di ciò che Marco Maurizi definì antispecismo metafisico e che un primo passo verso il superamento dei suoi limiti può essere identificato nella visione storica dello specismo come prassi del dominio e conseguente giustificazione ideologica, che si deve a quest’ultimo (vedi M. Maurizi, Al di là della natura, Novalogos, Aprilia, 2011 e Cos’è l’antispecismo politico, Per Animalia Veritas, Roma, 2012). 3 Anche qui è necessario fare delle distinzioni. Questa concezione impersonale e in funzione umana della biosfera è più accentuata in Latouche, meno in Pallante. Cito di solito a tale proposito le seguenti due frasi, rispettivamente del primo e del secondo: «I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell’umanità.» (Latouche) «La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.» (Pallante) Si noti che mentre Latouche parla di “patrimonio” in quanto oggetto da preservare “per l’uomo” Pallante parla esplicitamente di “tutte le specie viventi” della Terra come cobeneficiarie dei vantaggi del nuovo paradigma e dunque come soggetti, socchiudendo con ciò una porta verso il superamento della visione antropocentrica che invece in Latouche sembra rimanere ben chiusa. 4 La società preindustriale è un valido punto di riferimento limitatamente all’elaborazione delle cosiddette “buone pratiche”, buone in quanto a bassa energia, che la crisi sistemica del pianeta rende oggi di pressante attualità, ma ha in comune con la società industriale la caratteristica di essere una società “calda” (Lévi-Strauss) e dunque intrinsecamente tendente al divenire storico. Se così non fosse la mutazione industriale non avrebbe mai attecchito su di essa. 5 Più in generale è necessaria una visione “centrica”, coinvolgente anche, inevitabilmente, i rapporti con le altre società umane: se una società pretende di espandersi infinitamente lo farà non solo a danno delle comunità viventi non umane ma anche delle altre comunità umane. Vale ancora una volta il concetto: “i confini della polis sono i confini dell’umano”. 6 F. Schillaci (a cura di), Un pianeta a tavola, Edizioni per la decrescita felice, Roma, in corso di pubblicazione. 7 Abbiamo poi fatto un altro piccolo test: abbiamo inviato questi risultati ai GAS che avevano partecipato al sondaggio e abbiamo chiesto loro di discuterli al loro interno e farci sapere quali tendenze sarebbero emerse da questa discussione. Non abbiamo ricevuto nessuna risposta significativa. 8 Mi riferisco ovviamente all’allevamento ma anche l’agricoltura, imponendo una contrapposizione fra selvatico e coltivato, implica l’elaborazione di una visione in qualche misura antropocentrica."

domenica 11 agosto 2013

LO STRANO AUMENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO




Lo shale gas americano sta producendo effetti a catena, tra cui il crollo del prezzo del carbone, divenuto tanto conveniente che tutte le centrali alimentate con esso in Europa vanno funzionando al massimo. In Cina si assiste all’apertura quotidiana di nuove centrali, e il consumo di carbone cinese è salito alle stelle.  Le rinnovabili non sono ancora competitive e i costi sono proibitivi per una vera concorrenza con le fonti tradizionali. Scaroni, ad dell’Eni, recentemente volato a Boston per discutere al Mit lo stato della ricerca, conferma che finché non si migliorano i rendimenti e i sistemi di stoccaggio dell’energia per restituirla quando richiesta, le rinnovabili sono out e sopravvivono solo per i sussidi.
Sul fronte del petrolio ci si aspetterebbe un calo dei prezzi, come per il carbone.  L'immissione sui mercati dello shale gas americano, la diminuzione della richiesta, gli effetti della crisi porterebbero in teoria ad una riduzione dei prezzi. La previsione del  prossimo sfruttamento di giacimenti di petrolio attraverso la tecnica del fracking dovrebbe contribuire a tener bassi i prezzi:    paesi come Cina, Brasile, Russia e soprattutto gli Usa e Canada si preparano ad estrarre con questo metodo immensi giacimenti.  Il petrolio  ha invece sfondato i 110 dollari al barile, un aumento non giustificato dalla situazione oggettiva della produzione. Parlare di picco del petrolio in questa situazione è fuori luogo: non si tratta di riduzione dei giacimenti i quali, con le nuove tecnologie, rimangono assai superiori alla richiesta.   Ci sono varie spiegazioni per il mancato calo: riduzione degli stock, domanda solida e timore che gli eventi in Egitto limitino le forniture. Una quarta ragione la riporta Carsten Fritsch, analista di Commerzbank: “Ci sono molti investimenti speculativi sul petrolio”. Sul calo dei depositi non ci sono spiegazioni chiare: in teoria il calo dei consumi dovuto alla crisi e la minore richiesta degli Usa per le politiche di efficienza energetica e la maggiore disponibilità di shale gas avrebbe dovuto aumentare gli stock. Le raffinerie lavorano al 92 % della capacità, quindi la fornitura globale è ai massimi: come si spiegano allora quei 20 milioni di barili in meno, visto che gli Usa hanno drasticamente ridotto l’import dall’Arabia Saudita e né Cina né Europa hanno necessità?
Gli analisti del settore rilevano un dato: l’aumento dei noli delle navi cisterna, capaci di trasportare fino a 2 milioni di barili. Lo confermano due indicatori: il Baltic Dry Index salito del 14 %, e il Baltic Tanker Dirty Index (Bdiy) dedicato proprio alle petroliere, che oscilla in area 612 punti. Un altro dato è l’aumento delle scommesse al rialzo del prezzo del petrolio nei mercati finanziari, in un periodo di minore richiesta e in cui l’instabilità politica non sembra mostrare accelerazioni impreviste. Dove è finito il petrolio in eccesso, tale da provocare scarsità di offerta?
Secondo alcuni analisti potrebbe essere sulle navi cisterna, messo a riposo per garantire un aumento artificiale del prezzo. Poi, con i future, come i dati Usa hanno confermato, lo si rimette sul mercato a prezzi più alti. Non sarebbe la prima volta che i grandi player usano stratagemmi simili. Nel 2008 Koch Industries, conglomerato Usa specializzato in trasporto, raffinazione e distribuzione di petrolio, diede vita alla “contango speculation”: comprò greggio quando costava poco e lo stipò in container a terra e sulle navi nei porti in attesa che salisse il prezzo. Nel dicembre 2008, Koch affittò quattro superpetroliere, stoccò greggio al largo del Golfo del Messico e attese l’aumento dei prezzi, avvenuto nei mesi successivi.
In un mondo dove si fanno queste speculazioni, in presenza tra l’altro di una situazione ambientale di alto rischio (cosa avverrebbe se ad una di queste superpetroliere capitasse un incidente?), nessuno prende provvedimenti, non c’è difesa per i consumatori e per i paesi energeticamente deboli che dipendono dal petrolio, e gli unici a fare e disfare il mercato sono i grandi interessi finanziari.
Per questo Scaroni, in una recente intervista rilasciata a Repubblica, auspica la diversificazione delle fonti come difesa dagli interessi speculativi. L’Eni importa gas dalla Russia ma cresce l’importazione anche da Azerbaijan e Cipro. Per il petrolio ci sono gli interessi su nuovi pozzi in Africa. l’Italia si prepara a sfruttare, tramite l’Eni, il giacimento scoperto in Mozambico che sembra avere grosse riserve e bassi costi di produzione. In Italia il fracking non sembra avere futuro, visto l’alto inquinamento ambientale che comporta. Cresce anche in Italia l’interesse per centrali a carbone pulite di ultima generazione (prevedono l’immissione nel sottosuolo della CO2 e il filtraggio del particolato). Ma Scaroni non esclude anche la necessità della riapertura del discorso sul nucleare: “La Germania ha detto che lo abbandonerà nel 2020: quando lanci la palla così avanti puoi sempre cambiare idea”.  Anche l’Europa si muove sul fronte del nucleare, basta leggere la seguente notizia riportata di recente dal Corriere della Sera:
Attuare i più rigorosi standard di sicurezza: è l’obiettivo dell’UE sul nucleare, annunciato dal commissario per l’Energia Guenther Oettinger, dopo le indiscrezioni di stampa circolate nei giorni scorsi su possibili aiuti di stato per la costruzione di nuove centrali.
La notizia era stata diffusa dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung che, venuto in possesso della bozza di una normativa del Commissario alla Concorrenza, Joaquin Almunia, ha parlato di futuri contributi nazionali per l’estensione degli obiettivi UE sul nucleare. Secondo il quotidiano tedesco, i piani per il nucleare contenuti nella bozza di Almunia, dovrebbero essere presentati nella primavera del 2014.”


(Fonti: articoli da Milano Finanza, Corriere della Serra, Repubblica, siti web specializzati)


sabato 10 agosto 2013

HABERMAS: UN GOVERNO MONDIALE O IL PIANETA COLLASSA





Nell’ultimo libro di Jurgen Habermas  “Tra Scienza e Fede” (Laterza) il filosofo tedesco si chiede” Ma sono anche io un pezzo della natura?”  La risposta è SI,  ed allora nasce la riflessione sul rapporto fra libertà dell’uomo intesa sia in senso individuale che collettivo e i limiti imposti dalla natura (risorse, paesaggio, ambiente ecc.). Habermas parte da una impostazione neo-kantiana ma oggi sono evidenti i limiti della stessa ragione che non riesce ad assicurare al mondo progresso e giustizia, come si pensava alle origini del pensiero illuminista. Il ‘900 con le sue guerre e con la caduta delle ideologie non ha distrutto solo le vite di tanti giovani europei, ma anche le speranze e le stesse idee guida del pensiero occidentale con la sua fede incondizionata nella ragione, nel progresso e nella giustizia. Che resta dei grandi ideali delle Rivoluzioni di fine settecento e del pensiero degli illuministi? Habermas fa una analisi spietata della società contemporanea e denuncia la deriva minimalista della Scienza avviata ad un naturalismo senza prospettive. Non meglio sta  la cultura occidentale,   che proprio nel momento in cui viene globalizzata, è sempre più degradata e svuotata di valori, basata esclusivamente su un consumismo senza limiti e portato alla esasperazione dai grandi poteri finanziari. Di fronte al mondo contemporaneo la nozione normativa di una società ideologicamente pluralistica perde di senso, e con essa la nozione stessa di liberalismo, una nozione sempre più indeterminata e “polifonica”, declinata secondo realtà diverse e a volte contrastanti. Le democrazie occidentali, in crisi economica e ambientale, si rifugiano in politiche basate su idee e formalismi (i cosiddetti diritti universali o particolari) che rimangono periferici e succedanei rispetto alla forza del mercato e del consumismo totalizzante. In questo contesto, in cui il liberalismo democratico perde forza e si relativizza, irrompe l’11 settembre e ciò che esso significa nello scenario storico successivo al crollo sovietico: nuovi conflitti emergenti che vedono al centro movimenti religiosi, nazionalismi totalitari, nuovi integralismi. I nuovi scenari vedono in campo fenomeni che la vecchia politica internazionale non è più in grado di controllare: movimenti migratori di massa, conflitti regionali di difficile gestione da parte delle potenze rimaste, i nuovi nazionalismi, le rivolte popolari che sovvertono rapidamente vecchi equilibri e   spesso basate su masse di giovani in paesi con alti tassi di natalità. Il fallimento della gestione in senso democratico da parte di America ed Europa delle rivolte giovanili nei paesi islamici e del nord Africa è un esempio lampante di come la vecchia politica occidentale non riesce più a produrre effetti positivi per gli interessi occidentali e della debolezza delle democrazie liberali.   I problemi dell’instabilità geo-politica non sono ancora quelli che pongono a rischio la sopravvivenza del pianeta e della specie Homo. Habermas è cosciente che oggi, ed in futuro sempre di più, la vera emergenza è quella ecologica e ambientale. Il mondo è ancora preda di politiche consumistiche amorali, di integralismi religiosi, di scontri nazionalistici, mentre una silenziosa cappa di anidride carbonica  sta cominciando a dare i suoi effetti con il surriscaldamento della biosfera, lo scioglimento dei poli, l’innalzamento marino. Il mondo sembra guardare a meschini interessi locali, mentre scure nebbie di smog cariche di veleni e particolato si diffondono su vaste aree di Asia, Europa e America, in particolare intorno alle megalopoli. Il prossimo esaurimento di risorse (come il petrolio) o della stessa acqua, la desertificazione, la distruzione di foreste, tutto il problema ambientale presuppongono una presa di coscienza , a cui la specie Homo è ancora in gran parte estranea. Manca una cultura ecologica universalmente diffusa, proprio mentre si diffondono ovunque modelli consumistici e di sfruttamento senza limiti delle risorse ambientali. Crescono le megalopoli, crescono le discariche, crescono le emissioni, avanza ovunque la cementificazione e la deforestazione eppure le popolazioni di tante aree del pianeta sono irresponsabili, ignorano il problema, pensano a nuovi integralismi, a politiche nazionalistiche e di potenza, o a imitare il consumismo occidentale ponendosi in concorrenza con l’occidente per l’accaparramento delle risorse. Nessuno riesce a frenare i consumi di petrolio, gas e carbone, né a livello dei singoli stati ne a livello degli organismi sovranazionali. Punto centrale di questo problema è l’esplosione demografica di Homo,  nell’ultimo secolo divenuta  così devastante (oltre sette miliardi di umani mentre decine di migliaia di specie spariscono ogni anno) che le questioni connesse alla  democrazia liberale, all’economia, alla religione e al nazionalismo appaiono una follia senza senso di fronte ad una minaccia mortale. Qui ormai si tratta di salvare il pianeta.
Habermas cerca di proporre una strategia di uscita e allo scopo ricorre alla visione universalistica di Kant basata su una ragione etica che possa essere accettata da tutti i popoli. Le questioni di fondo oggi si possono così riassumere: la ragione soggiace alla natura, o se ne distacca? O se non vi soggiace la ragione è comunque implicata con la natura?  La nostra libertà è trascendente e va oltre le leggi naturali, secondo una antinomia kantiana,  o è condizionata dalla natura? Una ragione esclusivamente umanistica, distaccata dalla natura (natura considerata un semplice magazzino di risorse cui accedere per soddisfare i bisogni umani) abbiamo visto a cosa ha portato: si è rivelata una strada sbagliata. Bisogna uscire dall’antropocentrismo e riportare l’uomo ad un rapporto equilibrato con la natura. L’uomo, dice Habermas, è una parte di natura, e vive perché con-vive con essa,  non il suo padrone. Il filosofo propone organismi sovranazionali che impostino con maggiori poteri politiche di controllo delle economie delle varie aree, che stabiliscano priorità, ridistribuiscano risorse e benessere, assicurino equilibrio tra le varie zone del pianeta, riportino in limiti sostenibili le varie criticità. 

“L’esigenza di un’istituzione in cui non solo i funzionari governativi a ciò delegati, in possesso di competenze specialistiche e provenienti dalle sezioni specializzate di singoli comparti, ma anche i rappresentanti di governi ampiamente competenti, o gruppi di ministri, si incontrano per vedere i problemi nel loro contesto e poter decidere in maniera flessibile, si può intendere come una implicita risposta rispetto  alla difesa di un ordinamento mondiale disaggregato fatta in nome del pluralismo giuridico. Anche i G8, G20 ecc. non sono sufficienti ed è difficile che si sviluppi con tali mezzi una politica interna mondiale di lunga durata capace di incidere, ad esempio, sui problemi ambientali. Fatta eccezione per gli Stati Uniti e la Cina (forse anche per la Russia), gli odierni Stati nazionali non sono adatti al ruolo di partner capaci di agire politicamente su scala mondiale. Essi dovrebbero aggregarsi in ordini di grandezza continentali, o addirittura mondiali, elaborando politiche sostenibili senza perciò dover accettare sostanziali deficit di democrazia.”

Allo scopo nuove forme di legislazione internazionale dovrebbero essere studiate ed introdotte che obblighino i singoli stati, senza intaccare l’autonomia di scelte particolari salvando una parte del pluralismo giuridico.
L’ottimismo di Habermas su questo punto, che proviene direttamente dalla impostazione kantiana di una ragione universale in grado di controllare tutti i processi storici, mi lascia perplesso. Un esempio per tutti: quanto sono compatibili le idee di Kant basate sulla ragione etica e la fede laica nel progresso con la sharia proclamata da molte delle nuove “democrazie” islamiche?