Nel 1958, quando già sapeva di essere gravemente ammalato, Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrisse un racconto, La Sirena, che fu pubblicato nel 1961. (…) Ecco un passaggio del suo racconto:
Sei stato mai ad Augusta, tu …? E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline …? Certo è il più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi. La costa è selvaggia, … completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno di quei luoghi nei quali si vede l’aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole.
Quel posto è Priolo: venti chilometri di costa, tra Catania e Siracusa, devastati dalle politiche di sviluppo del mezzogiorno. Una successione di edifici industriali costruiti negli anni cinquanta del secolo scorso, dove sono state collocate le produzioni più insalubri: dall’amianto alla petrolchimica, dalla raffinazione del petrolio allo stoccaggio dei prodotti di raffinazione, con il contorno delle piattaforme logistiche per i camion e degli attracchi per le petroliere. Venti chilometri di mare non più balneabile, di capannoni in parte degradati, con travi di ferro affioranti da muri di cemento scrostati, finestre arrugginite, vetri rotti, cumuli di rifiuti. Dall’altro lato della strada statale paesi i cui i centri storici, per modesti che fossero, la piazza con la chiesa e il municipio, sono stati avvolti da successive concrezioni di condomini bisognosi da subito di manutenzioni mai fatte, di casette squadrate a un piano spesso intonacate solo in parte, da cui affiorano tondini di ferro in attesa di sopraelevazioni, di strade dall’asfalto sconnesso bordate da file ininterrotte di automobili. Luoghi in cui un antico saper fare, connotato qualitativamente e finalizzato all’autoproduzione di beni è stato annientato da un’arroganza tecnologica finalizzata alla produzione di quantità sempre crescenti di merci e dalla omologazione sui modelli di comportamento consumistici. Dove l’aria è diventata irrespirabile, l’acqua imbevibile, molti terreni agricoli sono stati abbandonati, le percentuali dei tumori e delle deformazioni infantili hanno valori superiori alla media.
Il 27 ottobre 1962, quando per cause non ancora accertate che, senza essere profeti, si può dire non lo saranno mai, il piccolo aereo dell’Eni su cui viaggiava Enrico Mattei precipitò al suolo nei pressi di Bascapè, il presidente della compagnia petrolifera italiana tornava da un viaggio lampo in Sicilia, dove dal balcone del Municipio di Gagliano Castelferrato, attorniato dai deputati siciliani del Parlamento e dell’Assemblea regionale, aveva annunciato il ritrovamento di importanti giacimenti di gas metano nelle campagne circostanti e l’inizio, ormai imminente, di uno sviluppo industriale che avrebbe portato in quei luoghi ricchezza e benessere. Alla fine del discorso scese nella piazza, dove fu accolto al lancio di coriandoli da una folla festante che lo accompagnò in una sorta di processione fino all’automobile. Del resto, che le sue non fossero semplici promesse ma fatti, acta non verba, era appena stato dimostrato dalla realizzazione a Gela di un grande impianto petrolifero, petrolchimico e chimico che aveva stravolto, in modo non dissimile dalla costa di Priolo, il tratto di costa su cui greci nel VII secolo avanti Cristo avevano fondato la più importate delle loro colonie sull’isola.
Questi processi, devastanti e irreversibili, di trasformazione del paesaggio, ossia dei luoghi lentamente antropizzati nel corso dei secoli e, insieme ad essi, del sistema dei valori delle generazioni che li stavano abitando e di quelle che li avrebbero abitati in futuro, non si sarebbero potuti realizzare se non fossero stati vissuti come fattori di progresso, se non avessero avuto il consenso di tutti gli strati sociali, se tutti gli strati sociali non fossero stati convinti che avrebbero comportato miglioramenti alle loro condizioni di vita. Se Mattei non fosse stato accolto come un benefattore dalla popolazione e dai politici di tutti i colori.
Appena un anno dopo il discorso di Gagliano Castelferrato e la morte di Mattei, nell’ottobre del 1963, sempre in Sicilia ma questa volta a Palermo, un gruppo di intellettuali italiani diede vita a un movimento di avanguardia che, per sottolineare la sua volontà innovativa anche rispetto alle avanguardie storiche del novecento si autodefinì neo-avanguardia: il Gruppo 63. Rievocando lo spirito che li animava, uno dei principali esponenti di quel movimento, Renato Barilli, nel 2007 ha scritto: «L’Italia del dopoguerra voleva crescere, lasciarsi alle spalle le miserie della civiltà contadina, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo», liberarsi dai vincoli di un «mondo riduttivo, chiuso al progresso».

L’Italia del dopoguerra voleva crescere, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo, il progresso. Questi sono stati in sintesi i moventi del processo che, con l’apporto di una potenza tecnologica sempre maggiore, in poco più di cinquant’anni ha distrutto i paesaggi a cui gli esseri umani che li hanno abitati avevano aggiunto col lavoro di secoli bellezza alla bellezza originaria.

Questi sono stati i capisaldi della cultura che lo hanno reso desiderabile e connotato positivamente nell’immaginario collettivo.
Cosa significa il verbo crescere quando viene applicato alle attività economiche e produttive?
La crescita non è, come si fa credere e si fa finta di credere, l’aumento della produzione di beni che migliorano la qualità della vita, perché il parametro che la misura, il prodotto interno lordo, può calcolare soltanto il valore monetario degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro, cioè le merci, ma non può dare nessuna indicazione sulla loro qualità, sulla loro utilità, o sui danni che causano agli ambienti e alle persone nei modi in cui vengono prodotte, quando vengono utilizzate e quando vengono smaltite, come una bilancia può misurare soltanto il peso e non può dare nessuna indicazione sulla qualità di ciò che pesa.