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martedì 31 dicembre 2013

Esplosione demografica e picco alimentare




Nel suo libro “L’aumento della popolazione nell’era moderna” il demografo Mc Keown attribuisce un ruolo determinante nella crescita demografica alla quantità e al livello dell’alimentazione, riprendendo le tesi malthusiane sul rapporto tra popolazione e disponibilità di alimenti. Molti demografi contestano questa relazione diretta tra alimentazione e popolazione, tra cui l’italiano Livi Bacci che riconosce l’importanza del fattore alimentare solo sui brevi periodi, mentre sui tempi lunghi intervengono altri fattori come quello culturale, religioso o le aspettative economiche. E. Wrigley e R. Schofield studiando le dinamiche demografiche in Inghilterra mettono in relazione la crescita demografica più con il regime nuziale e riproduttivo connesso con le condizioni di vita dei lavoratori, piuttosto che con le risorse alimentari. Ma quale è la situazione e come si stanno modificando i rapporti tra demografia e nutrizione in un mondo di sette miliardi di abitanti, i quali richiedono sempre di più l’accesso a cibi abbondanti, di qualità, ricchi di proteine, raffinati nei gusti e nelle preparazioni? Oggi il pianeta si sta avviando ad una situazione in cui i suoli destinati all’agricoltura saranno sempre di meno per il cambiamento climatico, la modificazione della distribuzione delle piogge, la cementificazione, la desertificazione, la salinizzazione e l’inaridimento dei suoli, l’esaurimento delle risorse idriche; nuovo suolo disponibile potrà esserci, come sta avvenendo in Africa e in Asia, solo distruggendo le foreste fluviali e l’habitat silvestre di numerose specie animali. Un esempio di distruzione ambientale per esigenze alimentari è quello che avviene  in Brasile, dove migliaia di ettari di foresta amazzonica vengono sacrificati ogni anno per riconvertirli a colture cerealicole o a pascolo per la produzione di carne. Soltanto ulteriore deforestazione, distruzione di ambienti naturali, uno sfruttamento più intensivo di suoli, un uso più massiccio di pesticidi e veleni chimici potrà assicurare il sostentamento per ulteriori masse di umani. Ci sono limiti all’uso di fertilizzanti sia per l’esaurimento dei suoli sia per problemi di costi e di produzione di prodotti azotati. L’azoto, principale componente dei prodotti chimici per aumentare la resa produttiva dei suoli, è presente in abbondanza nell’atmosfera in una forma libera molecolare (N2), una forma stabile che non è in grado di essere assorbita dal metabolismo degli esseri viventi. Per una sua utilizzabilità come nutrimento di piante e animali, l'azoto deve essere convertito nella forma fissata ad altri elementi, in particolare l’idrogeno. Per produrre fertilizzanti abbiamo a disposizione il processo Haber-Bosch che permette di combinare l’azoto con l’idrogeno per formare ammoniaca in presenza di un catalizzatore ferroso. Ogni anno si producono centinaia di milioni di tonnellate di ammoniaca, e la richiesta continuerà a crescere con l’aumento della popolazione mondiale per la necessità di fertilizzanti azotati. Per far combinare l’azoto libero con altre sostanze è necessario fornire al sistema irriducibili quantità di energia. C’è in pratica un limite termodinamico alla quantità di ammoniaca e altri prodotti azotati che possiamo produrre. Allo scopo di scindere il triplo legame che lega i due atomi di azoto nella molecola si richiede molta energia dall’esterno. Si deve inoltre fornire ulteriore energia per formare i composti azotati. Nel processo Haber l’energia libera deve essere fornita dall’idrogeno gassoso, la cui produzione è possibile industrialmente solo ricorrendo agli idrocarburi. La disponibilità di petrolio e gas per la produzione di composti azotati è sempre più limitata dal picco del petrolio e dai prezzi crescenti. Nuovi metodi basati sulla produzione con catalizzatori organo-metallici che cercano di riprodurre i sistemi enzimatici dei batteri, produttori naturali di composti azotati, è costosa e lenta, e non adatta per l’utilizzo su vasta scala. E’ prevedibile che in presenza di una maggiore richiesta di cibo da parte della popolazione mondiale in crescita (si parla di 10-11 miliardi di abitanti per la fine del secolo) assisteremo ad un picco alimentare che, secondo alcuni demografi, ci costringerà a mangiare le alghe e gli insetti. Senza contare che i prodotti azotati sono inquinanti delle acque e producono nitrificazione, eutrofizzazione, ipossia e tossicità per la vita marina.

mercoledì 25 dicembre 2013

L’Affare Immigrazione



Una notizia la possiamo dare. I fenomeni migratori nei prossimi anni non si arresteranno, anzi aumenteranno. E insieme alle migrazioni aumenterà la natalità delle zone di origine dei flussi. Il perché di queste certezze si può capire da alcuni dati che mostrano gli enormi interessi economici che sono alla base del fenomeno migratorio e le cifre gigantesche in gioco. L’immigrazione economicamente conviene ai paesi di origine, alle popolazioni locali, ai governi corrotti delle zone da cui partono i “disperati”, ai trafficanti e alle potenti organizzazioni che vi sono dietro, ma non solo; il flusso di migranti sta arricchendo anche molti speculatori dei paesi di arrivo che hanno fatto del fenomeno migratorio e della demagogia che lo sostiene una fonte diretta di guadagno, per non parlare dei palazzinari che vedono nelle masse immigrate occasioni di sviluppo dell’edilizia, ai datori di lavoro che si vedono rifornire di manodopera a basso prezzo, al grande capitale che ci vede nuovi potenziali consumatori.
Come afferma Virginia Abernethy nel suo famoso saggio “Ottimismo e sovrappopolazione”, l’emigrazione è uno dei fattori chiave che influenzano la natalità:

Anche l’immigrazione può influire sulla popolazione mondiale complessiva. Studi relativi all’Inghilterra e al Galles del XIX secolo e alle popolazioni Caraibiche moderne, evidenziano che in comunità già nel pieno di una rapida crescita della popolazione, la fecondità rimane elevata fino a quando esiste la possibilità di emigrare, mentre declina rapidamente nelle comunità prive di questa valvola di sicurezza… Questo effetto sulla fecondità è coerente con studi indipendenti secondo i quali l’emigrazione accresce le entrate sia tra coloro che emigrano sia tra coloro che rimangono. In sostanza, è vero, anche se scomodo, che gli sforzi per alleviare la povertà spesso stimolano la crescita della popolazione, così come fa il lasciare aperte le porte all’immigrazione. I sussidi, le ricchezze inattese e la prospettiva di opportunità economiche rimuovono l’immediatezza del bisogno di preservare. I mantra della democrazia, della redistribuzione e dello sviluppo economico innalzano le attese e i tassi di fecondità, incoraggiando la crescita della popolazione e quindi rendendo più ripida una spirale ambientale ed economica discendente.

Le rimesse delle grandi masse di emigrati –cioè il denaro che mandano a casa alle famiglie di origine- sono quasi triplicate, tra il 2000 e il 2013, da 180 a 511 miliardi di dollari. Se si considera la parte di denaro (il 77% contro il 60% del 2000) che va ai Paesi a basso o medio reddito (la cui media pro-capite è sotto i 12.615 dollari l’anno, secondo la definizione della Banca Mondiale), si  tratta di tre volte quanto gli aiuti internazionali destinano loro. Un motore essenziale per lo sviluppo di queste economie se si considera che per i paesi a basso reddito le rimesse degli emigrati rappresentano circa il 10 % del Prodotto lordo, per alcuni casi limite persino il 20-30%. I dati, basati su statistiche della Banca mondiale, sono stati elaborati in uno studio del centro di ricerche americano Pew Research. E’ interessante notare come siano i Paesi a reddito medio (come per esempio Cina, India e Messico) a giocare una parte sempre più consistente nel fenomeno migratorio. Su 232 milioni di migranti, il 58% è nato in Paesi oggi a medio reddito e una percentuale minore in nazioni a basso reddito. Così gran parte delle rimesse raggiungono i Paesi a reddito medio. Le rimesse degli immigrati dall’Italia verso i paesi di provenienza , secondo una stima che riguarda il 2011, sarebbero dell’ordine di 7 miliardi e mezzo. Viene da pensare che le rimesse abbiano giocato un ruolo molto rilevante nella crescita economica ( e non solo, anche demografica) dei paesi  oggi giudicati emergenti. In questo quadro i governi di molti paesi a basso e medio reddito si sono già da tempo resi conto che non conviene incrementare il controllo delle nascite, ma al contrario favorire la natalità per mantenere alto il tasso di migranti e le conseguenti ricadute positive sul Prodotto interno e sul commercio. Nei paesi in rapida crescita come Cina e India inoltre mantenere alta la natalità significa aumentare i consumi interni oltre che le rimesse dall’estero. I governi corrotti di molti paesi africani o asiatici vedono nelle rimesse occasione di arricchimento personale  e favoriscono il fenomeno anche appoggiando organizzazioni religiose e fondamentaliste che propugnano famiglie numerose e la conquista migratoria delle terre occidentali.
Ma come dicevo a guadagnarci sul fenomeno migratorio non ci sono solo interessi locali.
Sulle speranze di miglioramento economico e di cambiare la vita propria e dei propri familiari speculano i trafficanti di carne umana.  Guardiamo ad esempio al ruolo della mafie negli sbarchi dei migranti nel sud Italia. Secondo uno studio dell’Università di Messina (M. Centorrino e P. David) il flusso di migranti  e profughi sulle coste italiane alimenta le organizzazioni mafiose di varia nazionalità, consentendo profitti non lontani da quelli del narcotraffico.  Continuano i due autori:

 “Gli sbarchi sono la fase finale di un processo con diversi passaggi. Non nascono da una imprenditoria della clandestinità improvvisata, ma dal lavoro di una organizzazione complessa, che da questa attività ricava utili consistenti, ripartiti nella filiera di tratta, dall’offerta del transito allo sbarco. Si tratta spesso di una filiera lunga, anche dal punto di vista della durata nel tempo e quindi richiede azioni ben concertate”.

Citando alcuni rapporti, gli autori dello studio fanno emergere che il flusso di migranti e profughi

si alimenta e alimenta organizzazioni mafiose. Sono composte in prevalenza da soggetti di nazionalità straniera (molti dei quali stabilmente residenti in Italia) con permesso di soggiorno o cittadinanza italiana, con forte caratterizzazione etnica, poco propensi alla collaborazione con cittadini italiani o di differente etnia”.






mercoledì 18 dicembre 2013

Bonus bebè

Il governo inserisce il bonus bebè nella Legge di Stabilità 2014

Il governo ha presentato un emendamento alla legge di stabilità che sblocca fondi per il bonus bebé, lo rendono noto fonti dell'esecutivo aggiungendo che la cifra sbloccata dovrebbe valere intorno ai 30 milioni di euro.

La deputata Binetti (Scelta Civica) parla in favore del Bonus (di cui lamenta la scarsità dei fondi) e della necessità di combattere l'"Inverno demografico" della penisola.

La popolazione italiana è passata da 40 a 62 milioni di abitanti in 50 anni. Se questo è l'inverno demografico cosa sarà l'estate demografica?

Ovviamente la maggior parte dei fondi andranno agli immigrati, che hanno tassi di natalità doppi o tripli rispetto agli italiani.

Le speranze di salvare il suolo verde e il paesaggio italiano dalla cementificazione sono inutili con questi politici. Tutto continuerà come prima, anzi peggio di prima. 



lunedì 16 dicembre 2013

sabato 14 dicembre 2013

Il Secolo Inutile




 “Si vede bene com’è che brucia un villaggio, anche a venti chilometri. Era allegro. Un borgo da niente che non si notava nemmeno durante il giorno, in fondo a una campagna meschina, eh bè, si ha mica idea la notte, quando brucia, l’effetto che può fare! Potrebbe essere Notre-Dame! Ci mette anche tutta una notte a bruciare un villaggio, anche uno piccolo, alla fine si direbbe un enorme fiore, poi, nient’altro che un boccio, poi più niente. Fuma, allora è mattino.” 
(Celine: Viaggio al termine della notte)

1914 – 2014  E’ passato un secolo dallo scoppio della prima Guerra Mondale, un secolo in cui illusioni, speranze e disperazione si sono alternate a guerre e scontri ideologici, per finire poi in uno sfrenato consumismo all’arrembaggio di una nave ormai sovraccarica di umani e pericolosamente inclinata sul mare del nulla. Il romanzo di Celine sembra riassumere su di sé questa disperazione di un intero secolo, preveggente e sensibile a ciò che stava più o meno sotterraneamente accadendo e che avrebbe poi trasformato ogni cosa, compreso la vita stessa degli uomini. La Grande Guerra fu definita la “guerra dei materiali” la prima grande guerra tecnica. Per la prima volta artefice della guerra erano i mezzi, le nuove armi prodotte sulla scorta del progresso tecnico-scientifico degli anni precedenti: gli uomini erano quasi un contorno, un accessorio destinato ad essere sacrificato per una cosa più grande.
Era l’epoca del positivismo, c’era grande speranza nella scienza e si pensava che tutti i problemi dell’umanità sarebbero stati risolti dal progresso scientifico.
Sui campi di battaglia della Somme e di Verdun si sarebbero bruciate anche molte di quelle speranze. Lì la tecnica mostrò il suo volto peggiore, una belva rombante assetata di sangue umano. Per la prima volta furono  usati i gas –un mezzo invisibile ed infido, metafora di un avvelenamento generale delle coscienze- per annientare altri uomini. I cannoni a lunga gittata, i radiotelefoni, l’aviazione consentivano per la prima volta di uccidere uomini senza avere alcun rapporto con loro, neanche quello di vicinanza fisica. Tutte le leggi, scritte e non scritte,  delle guerre precedenti furono stravolte.
Era solo l’inizio, la trasformazione tecnica ed economica in atto stava cambiando profondamente non solo la società, ma l’uomo stesso. L’illusione della scienza di poter guidare la tecnicizzazione del mondo in modo da costruire una società a dimensione di un certo tipo di uomo, come il marxismo e i vari altri ismi hanno tentato di fare, è durata pochi decenni. Alla fine è emersa la verità che già dagli anni 20 e 30 del novecento molti avevano indicato: è la tecnica a gestire l’uomo e non viceversa. Marcuse parlerà dell’uomo ad una dimensione, altri di alienazione della vita moderna. La nascita delle megalopoli, la riduzione della vita umana ad una serie di atti ripetitivi all’interno di meccanismi stereotipi, i sistemi di controllo sempre più centralizzati e astratti, disumanizzati,  sono tutti fenomeni mai visti in precedenza. Certo il novecento è stato il secolo della comodità, delle auto, dei frigoriferi, della televisione, dei riscaldamenti, della cura di malattie sempre nuove e dell’allungamento della vita media. Ma il prezzo da pagare è stato altissimo. Dopo il 1945 si pensava che il mondo sarebbe stato distrutto dalla bomba atomica; nessuno aveva previsto che la bomba che oggi lo sta distruggendo sarebbe stata di altro tipo: la bomba demografica. Quello che Hosbawm ha definito il “secolo breve” è stato il periodo della più grande esplosione demografica che si sia mai vista. La scienza, la tecnologia, la medicina e l'economia avevano fatto un "miracolo". Dal 1900 il pianeta è passato da 1 a 7 miliardi di umani facendo impennare tutte le curve economiche oltre che demografiche: sono spaventosamente cresciuti i consumi, il prodotto interno lordo, la combustione di carbone,gas e petrolio, l’immissione di CO2 in atmosfera, l’uso e l’inquinamento delle acque. Soprattutto si è trasformato il concetto stesso di uomo. L’uomo è divenuto lui stesso merce come tutte le altre; da consumatore a prodotto e da prodotto a consumatore, il cerchio si chiude. Nel massimo delirio antropocentrico si è attuata  la più grande massificazione che svuota Homo di ogni significato. Hanna Arendt definisce con il termine risentimento la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno. Risentimento contro “tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza”; risentimento contro “il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di sé stesso”. Spinto da questo risentimento fondamentale a “non scorgere alcun senso nel mondo quale gli si offre”, l’uomo moderno “proclama apertamente che tutto è permesso e crede segretamente che tutto sia possibile”. 
Tutto è possibile: questo assioma ha rivelato la sua forza devastatrice sia nei crimini perpretati in nome dell’umanità universale sia nel disinteresse verso l’ambiente, la natura e le altre specie viventi ridotte a magazzino dei propri appetiti di consumatore. Tutto è possibile è il motto dell’antropocentrismo egoistico dominante ormai su scala planetaria alla fine del secolo inutile. Con questa delirante visione di potere assoluto dell’uomo abbiamo dimenticato l’appartenenza, l’amicizia, la distinzione del vicino e del lontano. E’ l’epoca del turismo generalizzato, del fruire senza sentire, del parlare con tutti (anche con i cellulari) senza colloquio, senza uscire da campo limitato dei propri interessi. In tutto questo abbiamo dimenticato il mondo comune, l’idea vera di umanità come parte della natura, il rispetto per le altre specie, la gratitudine per ciò che da senso, in quanto natura, a noi stessi.

"Il processo segue il suo corso. Gli eventi non hanno fatto abbastanza da scuotere l’uomo moderno. Il regno del sentimento e la disfatta –forse solo provvisoria- dell’ideologia non hanno messo fine al regno del risentimento. Inutilità del XX secolo?"
(Alain Finkielkraut: L’umanità perduta. Lindau editore).

venerdì 13 dicembre 2013

Il Corriere e la follia demografica

Il Corriere della Sera, il maggior quotidiano nazionale controllato dai poteri economici forti, continua ad assecondare la folle corsa alla devastazione demografica di questo nostro disgraziato paese. In una risposta della sua rubrica di lettere del 7 dicembre scorso, il giornalista ed ex ambasciatore Sergio Romano rappresenta questa posizione maggioritaria nella redazione del giornale (l'unico contrario è l'editorialista Giovanni Sartori). Riporto alcuni passi:

...Questa tendenza a combattere l'immigrazione coincide con una fase in cui l'incremento della popolazione di molti Paesi europei è garantita soltanto dai nuovi  arrivati. Secondo studi recenti, promossi dall'Istituto Universitario Europeo di Firenze, l'Ue sembra condannata a perdere entro il 2025 un sesto della sua popolazione giovanile in età di lavoro. Accompagnato dall'emigrazione di giovani europei verso altri continenti, il blocco dell'immigrazione avrà l'effetto di rendere l'Europa sempre più vecchia. Sempre secondo lo stesso studio, l'Europa potrebbe conservare gli equilibri demografici del 2010 soltanto se accogliesse almeno 21 milioni e mezzo di nuovi immigrati...

Non ci sono parole. La posizione ricalca le stesse opinioni dei fautori  della crescita economica perpetua e dell'aumento costante del Pil. Secondo Romano anche la popolazione ha bisogno di una vigorosa crescita costante (evidentemente per supportare i poteri economici assetati di nuovi consumatori). Sembra che la Terra (ed anche la nostra povera Italia...) sia -secondo la visione paranoide di costoro- ancora una terra vergine e sconfinata in cui l'arrivo di milioni di persone e la nascita di altri milioni di bambini porterebbe sviluppo e benessere. In Italia l'aumento demografico aggiunge ogni anno una città come Bologna ad un territorio devastato da cementificazione, periferie invivibili, terre dei fuochi, veleni chimici, acque inquinate, aria delle città irrespirabile, asfalto, fumi, amianto, particolati e tumori. Una terra che fino agli inizi del '900 era una delle più belle del mondo per paesaggi, campagna e piccoli borghi ed oggi è ridotta a cementificio sovrappopolato da 62 milioni di abitanti, con il suolo verde quasi completamente urbanizzato. Una terra che solo cento anni fa aveva 25 milioni di abitanti ed oggi si avvia ai 70 milioni, in presenza di future ancora più massicce immigrazioni. In questa situazione c'è chi piange per la ancora troppo scarsa crescita demografica...non ci sono parole.

martedì 10 dicembre 2013

Demografia e migrazioni: l’ombra di Darwin


  


E’ possibile che i fenomeni in atto nel mondo attuale come l’esplosione  della popolazione di Africa e Asia, la crescita economica di Cina, America  e India, i colossali processi migratori, il commercio mondializzato, la multietnicità culturale ecc. possano essere letti in chiave darwiniana?
Che i meccanismi della selezione naturale siano sempre in atto nella società contemporanea è un argomento di cui gli antropologi sono coscienti, ma che a livello politico e della cultura di massa si preferisce evitare. Non è politicamente corretto. Oggi domina la visione dell’assolutismo antropocentrico, in cui l’uomo è visto come depositario di diritti assoluti e “creatura culturale” al di sopra di ogni appartenenza alla natura ed alle sue leggi. Un antropologo dell’Università di Neww York, Gorge C. Williams, e un medico psichiatra,Randolph M. Nesse, scrissero alcuni anni fa un libro importante: “Why We Get Sick? The New Science of Darwinian Medicine” (Trad. italiana: Perché ci ammaliamo?  Einaudi) in cui spiegano come gran parte delle malattie della odierna popolazione siano tentativi di adattamento all’impetuoso sviluppo tecnologico e ai cambiamenti della vita materiale e immateriale succedutisi rapidamente in pochi secoli.

Il nostro corpo si è formato durante milioni di anni trascorsi nelle savane africane in piccoli gruppi dediti alla caccia e alla raccolta. La selezione naturale non ha avuto il tempo di modificarlo per affrontare alimentazioni ricche di grassi, automobili, droghe, luci artificiali  e riscaldamento centralizzato. La maggior parte delle malattie moderne, almeno quelle che è possibile prevenire, derivano da questa imperfetta combinazione tra l’ambiente e la nostra struttura. L’attuale diffusione di malattie cardiache e di tumori alla mammella ne è un tragico esempio” ("Perché ci ammaliamo", pag.14. Einaudi  1999).

Non c’è solo la biologia, anche a livello culturale agiscono meccanismi selettivi. In passato la diffidenza per le persone di culture ed etnie diverse ha rivestito un ruolo centrale nella difesa delle comunità locali e delle tradizioni culturali. Eliminare questa difesa avrebbe potuto avere in certi periodi  conseguenze catastrofiche; oggi con i moderni mezzi di spostamento e con la possibilità di avere a disposizione grandi quantità di risorse locali mediante commercio e tecnologia, questo meccanismo innato di difesa delle popolazioni locali di cultura omogenea, ha perso gran parte della sua funzione.  Ma esso, se pur depotenziato, è sempre presente nel sottofondo culturale di molte popolazioni e sopravvive come  sentimento di ostilità verso culture ed appartenenze estranee, che spesso viene sfruttato da forze politiche nazionaliste per i propri scopi. Gli stress di una convivenza ad alta densità demografica e con molta tecnologia, come quella presente nella grandi megalopoli contemporanee, è una situazione che si è venuta a sviluppare negli ultimi secoli e  mai sperimentata in passato dalle popolazioni di Homo. Anche in questa nuova situazione stanno agendo meccanismi selettivi che   sui tempi brevi hanno effetti a livello culturale e delle tradizioni sociali e, almeno in via teorica, potrebbero agire in senso biologico nei tempi lunghi, anche se non è possibile prevedere come.
Se prendiamo come esempio l’Europa contemporanea vediamo che i fenomeni antropici in atto la stanno profondamente trasformando in qualcosa che , alcuni decenni fa, non avremmo mai potuto prevedere. Se pensiamo che questi cambiamenti sono intervenuti in pochi decenni possiamo immaginare gli effetti sui tempi lunghi. La crescita delle grandi città europee sta trasformando irreversibilmente la vita, l’organizzazione sociale, la cultura, la politica, la tecnologia, il paesaggio, la percezione stessa della città e con essa aspetti materiali e psicologici che fanno di un cittadino europeo attuale un soggetto umano molto diverso da quello di un secolo fa.


Possiamo vedere che analoghi cambiamenti stanno interessando il continente 
nordamericano. La giornalista Chiqui Cartagena, immigrata naturalizzata americana, ha descritto la profonda trasformazione che gli Stati Uniti stanno subendo da alcuni decenni  sotto l’influsso della massiccia immigrazione dei Latinos. Oggi gli immigrati ispanici rappresentano il 17% della popolazione totale nordamericana e presto si avviano a diventare il 20%. Tutto sta cambiando in america: aspetti materiali come le merci in vendita, il lavoro, l’intrattenimento, il marketing, la pubblicità, ma anche aspetti culturali come l’arte, la lingua, il modo di fare dibattiti, la politica stessa. Romney ha perso le ultime elezioni anche perché ha ignorato il peso rappresentato dalla parte ispanica degli elettori.  Gli industriali ad esempio, che all’inizio avevano ignorato il problema, si sono accorti che se vogliono continuare a vendere i prodotti debbono adattarsi alle esigenze e alle richieste della nuova popolazione. Gli ispanici, racconta la giornalista, stanno creando un nuovo Baby Boom negli Stati Uniti: ogni 30 secondi per ogni non ispanico che entra in pensione, c'è un ragazzo ispanico che compie 18 anni. Il boom demografico e l'immigrazione hanno aumentato in pochi anni di cento milioni la popolazione americana; si stanno modificando i paesaggi, le città si espandono, la cementificazione e l'inquinamento aumentano, le tensioni sociali anche. Sebbene non se ne parli molto da parte degli intellettuali e degli scienziati,  questi fenomeni che interessano comunque, in modi e condizioni variabili,  tutte le aree del pianeta, fanno parte di processi della selezione naturale e della evoluzione darwiniana almeno a livello delle culture, delle organizzazioni sociali e su aspetti antropologici non marginali.

Forse l’effetto principale, percepibile nei tempi brevi della nostra esistenza individuale,  sarà a livello della cultura occidentale che si sta velocemente adattando ai nuovi cambiamenti. Già abbiamo assistito nel '900 all'abbandono pressoché definitivo della cultura contadina e delle tradizioni collegate: basta guardare qualsiasi foto che ritrae gruppi di persone delle nostre campagne  dedite all'agricoltura della prima metà del secolo scorso per accorgersi dei profondi cambiamenti dei tipi umani rispetto ad oggi. I cambiamenti culturali e del modo di vedere la vita sono stati anche maggiori di quelli fisici e antropologici.  Molti fenomeni contemporanei come la perdita del sentimento religioso, l’accettazione dei matrimoni gay, l’eutanasia, la svalutazione della nazionalità e dell’appartenenza, il trionfo dei diritti umani su tutti gli altri valori come il rispetto della natura, del paesaggio, dei luoghi e delle memorie locali, sono aspetti di questa visione del mondo come “campo aperto” all’espansione infinita dell’uomo e delle sue esigenze. In fondo è come se a livello politico e culturale la visione universalistica di Kant avesse prevalso su quella della cultura locale e delle appartenenze storiche tradizionali, aspetti su cui richiamavano l'attenzione pensatori importanti come Helder, Taine, Burke  e il nostro Vico. Solo che l’evoluzione darwinistica è imprevedibile: il nuovo tipo umano che sta definendosi dalla scomparsa del vecchio cittadino europeo e dall’emergere del nuovo cittadino globale, frutto di sradicamento, immigrazioni, caduta di vecchie barriere, crollo e scomparsa di culture, commercio internazionale, nuovi boom demografici ed espansioni economiche in aree prima depresse, sembra essere un mostruoso mix di qualità non esaltanti. Kant non avrebbe forse gradito gli effetti pratici delle sue ricette basate su una ragione universale e sull’esaltazione esasperata dei diritti dell’uomo rispetto al resto della natura. L’uomo nuovo prodotto dalla società tecnologica e antropocentrica contemporanea è molto diverso dai modelli teorizzati dagli illuministi: un egoista centrato sui propri interessi, assetato di guadagni e di consumi, sprezzante dell’ambiente, cementificatore, disinteressato alla sorte delle altre specie viventi. Un tipo umano completamente privo di senso estetico, abituato a vivere in suburbi e bidonville sovraffollati, a produrre rifiuti ed emissioni senza limiti, a soggiornare in mezzo a terre devastate da tossici e inquinanti, tra acque mortifere di colore giallognolo, fumi soffocanti e cancerogeni e in un clima caratterizzato da eventi estremi e riscaldamento globale. Perfino Darwin ne avrebbe avuto ribrezzo.


mercoledì 4 dicembre 2013

Il pericolo dell’Ecologia di Stato





Hegel fa capolino anche tra i moderni ecologisti. L’impianto dirigista e costruttivista del pensiero “verde” è evidente nella pretesa di regolare i processi economici e sociali in funzione della salvaguardia dell’ambiente, ricorrendo a programmi razionali di “ingegneria” sociale.
Il ritorno massiccio alle filosofie politiche stataliste non riguarda solo gli Hegeliani di destra e di sinistra. Molti paesi che in passato avevano accarezzato l’idea liberista stanno facendo marcia indietro. E le economie in via di sviluppo seguono spesso modelli basati su di una sorta di socialismo appoggiato alle vecchie aristocrazie (di casta, di partito o militari, quando non addirittura familiari).
Anche il liberalismo non se la passa bene. Lasciamo stare quello classico di provenienza ottocentesca di ascendenza whig, in cui un governo illuminato esercita la propria funzione  limitato da norme di legge con valore generale, nonché da severe restrizioni dei poteri dell’esecutivo e da bilanciamenti tra poteri diversi. E’ la dottrina tipica del liberalismo inglese, che ha assicurato al suo tempo un grande sviluppo sociale  ma si basava su una classe, la borghesia ottocentesca, e su un sistema economico e industriale che non esiste più. Anche il neo-liberalismo così come teorizzato da Mises e Hayek e attuato da Tatcher e Reagan sembra aver esaurito la sua spinta. Di fronte al disastro ambientale dovuto alla pressione antopica sull’ecosistema e all’esaurimento delle risorse ambientali ed energetiche, il liberismo mostra tutti i suoi limiti non solo interni al modello economico ma   soprattutto in relazione al mantenimento degli ecosistemi del pianeta. Il libero mercato è infatti un sistema di capitalismo basato sulla libertà di produrre e vendere merci, sulla libertà di commercio, su una minore pressione fiscale e su una presenza limitata dello stato, relegato ad un ruolo di regolatore dei processi economici senza il potere e l’illusione di poterli dirigere secondo obiettivi prestabiliti (ad esempio la giustizia sociale o un minor impatto ambientale). I problemi rivelati dal liberismo sono numerosi, a cominciare dalla necessità di mantenere una moneta stabile. Affinché il meccanismo autoregolante del libero mercato funzioni non è necessario infatti solo una legislazione antitrust e assicurare le condizioni di una libera concorrenza. Ci vuole il mantenimento di un sistema monetario stabile. Sebbene il liberalismo classico ritenesse il gold standard capace di fornire un meccanismo automatico di regolazione dell’offerta monetaria e creditizia, tale da garantire un funzionamento soddisfacente del sistema di mercato, nel corso della storia è di fatto emersa una struttura creditizia in gran parte dipendente dalla regolazione attuata da un’autorità centrale.  In epoca recente, queste facoltà di controllo, che per qualche tempo erano state poste nelle mani di banche centrali indipendenti, sono state di fatto trasferite ai governi, soprattutto perché la politica di bilancio è diventata uno dei principali strumenti di controllo monetario. Purtroppo in questa maniera  è di nuovo “ricicciato” lo stato dirigista nel pieno dell’economia liberista di mercato. Con l’aumentare della frequenza e della durata delle crisi economiche all’interno del sistema di mercato, l’esigenza di un maggiore   intervento del governo ha messo definitivamente  in crisi il modello minimalista liberista. E, ad aggiungere un aspetto paradossale, vi è l’esempio del “mostro” cinese in cui una politica economica ultraliberista (almeno nel senso empirico del termine) si associa ad un molok statale che controlla la vita dei cinesi fin nei minimi particolari con aspetti autoritari tipici del comunismo. Il liberismo è dunque andato in crisi, ma non a causa di politiche di tipo diverso che accontentassero meglio i cittadini, ma proprio perché per poter funzionare il sistema doveva assicurare una crescita perenne, o al massimo intervallata da temporanei periodi di stagnazione. La crisi del 2008 si è rivelata invece strutturale, in quanto dovuta ad una insostenibilità di sistema. Basata ufficialmente sulle bolle del debito e sui titoli tossici, la causa strutturale è invece centrata sui prezzi dell’energia per il raggiunto picco del petrolio e l’aumento dei prezzi di estrazione degli idrocarburi. Anche in presenza di una futura probabile ripresa, l’economia si dovrà ristabilizzare a livelli di funzionamento inferiori, in quanto si è modificata irreversibilmente la costellazione dei prezzi e le dinamiche dei salari e dei mercati delle merci e del lavoro, oltre che il quadro internazionale che ha visto lo spostamento in altre aree delle produzioni e delle risorse monetarie strategiche. I problemi generali di tenuta del sistema sono poi emersi da parte di una evidente devastazione ambientale, da un aumento degli inquinanti e dal fenomeno del global warming, potenzialmente letale per tutto l’ecosistema. Queste evidenze hanno mostrato che le esigenze di una produzione teoricamente in continua crescita, come teorizzata dai modelli neo-liberisti, è incompatibile con i limiti ambientali e delle risorse naturali. Le devastazioni dei suoli, le cementificazioni massiccie, l’esplosione delle megalopoli con le montagne di spazzatura che si accumulano intorno, le nubi di smog che sovrastano le aree del pianeta dove si concentrano le emissioni di gas e particolati , e le isole di materiale plastico che inquinano gli oceani inaciditi dal carbonio e intossicati dai veleni chimici e depredati della fauna marina,  fanno da corollario agli scricchiolii di tutto l’edificio basato sull’economia di mercato e gli alti consumi.
Pur a fronte  di questi scenari, teorizzare un ritorno all’economia di stato pianificata non è tuttavia sostenibile, né dal punto di vista politico né da quello ambientale. Non dimentichiamo quanto affermava Von Hayek: “Senza detenzione privata delle risorse, non ci può essere libertà di scelta”. La facilità con cui viene criticato, da parte dei neo-hegeliani, il sistema di libero mercato è infatti basata sulla sottovalutazione che il sistema riveste per il mantenimento della libertà. Finora, storicamente, il sistema di libero mercato è l’unico compatibile con un sistema politico che assicuri la libertà dei cittadini. Un libero cittadino può infatti avere ciò di cui necessita acquistandolo al libero mercato regolato da leggi contro i trust e con prezzi fissati dalla libera concorrenza; senza di esso un cittadino deve chiedere ciò di cui necessita o al Principe o al Funzionario del Partito, in un mercato non libero spesso monopolizzato dallo stato con prezzi artificiali. O è addirittura lo Stato stesso, nella figura del Burocrate, che stabilisce ciò di cui il cittadino ha bisogno. Ma è evidente che a questo punto ogni libertà è perduta. Né si può dimenticare che la libertà è dell’individuo o non è. Non esiste una libertà “del popolo” o una libertà di classe (come quella teorizzata dai marxisti) o  una libertà di razza o di nazione (come teorizzata dalla destra nazionalista). Questi sono tutti sinonimi di sistemi in cui la libertà del cittadino viene repressa da burocrati e funzionari di stato che decidono sulla vita delle persone in base alla propria ideologia e alle proprie opinioni, e poi infine provvedono al benessere personale e della propria famiglia con interventi autoritari a scapito del bene degli altri, come mostrato dalle vicende storiche del ‘900. Tutti i sistemi politici che prevedono l'uso di controllori delle libertà altrui, come sono in fondo quelli teorizzati da tanti difensori dell'ambiente in buona fede, non possono sfuggire alla domanda famosa di Popper: "Chi controlla i controllori?". 
Il dramma della vicenda politica ecologista sta dunque nel fatto che i movimenti politici basati sulle priorità ambientali si trovano di fronte al dilemma di quale strada intraprendere nel momento in cui  il liberismo ha mostrato i suoi limiti di sistema con la crisi di crescita dell’economia mondiale e la devastazione  ambientale, e un ritorno alle strade della pianificazione statalista è impraticabile per la concreta possibilità di far perdere la libertà ai cittadini, di creare nuovi tipi di burocrazie che per quanto si ammantino dei termini “green” o “ecosostenibili”, sarebbero pericolosamente simili alle burocrazie che hanno dominato negli stati autoritari del ‘900.