Andare in America suscita sempre un’emozione. Si tratta dell’emozione
che dovevano provare gli antichi abitanti dell’impero romano quando si recavano
a Roma. Lì c’è l’essenza della nostra civiltà: l’occidente siamo stati noi
europei, ma oggi l’occidente si chiama America. Lì ci sono luoghi, paesaggi,
città che danno sensazioni uniche, che non è possibile provare da nessun’altra
parte. La visita al cimitero di Arlington, ad esempio, è un’esperienza
emozionante. Si sente che la Storia è passata di qua e anzi ci si è fermata. Sono
rimasto a guardare in silenzio, come in un'atmosfera sospesa, la tomba di JFK, la tenue fiammella sempre
accesa, mentre lontano,
nell’azzurro del tardo mattino
primaverile, scintillava la punta dell’obelisco del Mall. Questa è l’america,
pensavo, qui sta il nostro destino.
Questo è il posto in cui tutti i nodi
vengono al pettine. Qui la scienza ha permesso all’uomo di arrivare sulla Luna,
qui la gente sente una forza che la spinge al meglio, all’affermazione
personale, al successo. E’ il segreto della potenza americana. Quella stessa
energia che, se malata, può degenerare
in follia e può portare alle stragi di studenti. Se l’occidente trova se stesso è qui che succede. Oppure se
l’occidente si perde, è qui che accade. Perché gli Us stanno cambiando. Qui il paesaggio è
talmente grande che gli uomini, per quanto si diano da fare, possono solo fare
ritocchi. Il cielo rimane il cielo, il deserto il deserto, le montagne azzurrine
lontane restano a guardare le città crescere in altezza, estendersi: ma le
distanze sono talmente grandi che nulla cambia nel paesaggio. Eppure anche qui i tempi stanno cambiando. Paradossalmente la cementificazione procede veloce anche qui. La pressione antropica sta facendo disastri. Lo sfruttamento delle risorse naturali è altissimo, ed è ancora recente la tragedia ecologica del golfo del Messico. Qui, come nella Sicilia del Gattopardo, cambiamento e immobilità si intrecciano fortemente. Nonostante tutta
la ricchezza e lo sviluppo possibile la distanza tra ricchi e poveri rimane
inalterata. E la sonnolenza della vita della provincia americana rimane
immutata come cinquant’anni fa. Passare dalla modernità frenetica di NY alla
tranquilla e noiosa vita dei piccoli centri della middle america è
un’esperienza che da l’idea di come passato e presente, storia e progresso
siano qui tutt’uno.
Bill Bryson in un bel libro del 1989
ci racconta di un suo lungo giro negli Stati Uniti alla ricerca di atmosfere
perdute, di quando lui bambino viveva a Des Moines nei fantastici anni ’50. Nel
1977 era emigrato in Inghilterra come giornalista corrispondente con giornali
americani, e a Londra, in quel clima piovigginoso e grigio, si era sviluppata
in lui il mito dell’america felix, l’america del periodo che va dal dopoguerra
e prosegue per tutti gli anni 50 fino all’assassinio di JFK, la tragedia che ha posto fine ad un’età memorabile
di speranza e di “perfetta” vita americana. Con l’assassinio del “presidente giovane” finiva una storia e
ne cominciava un’altra, nel modo peggiore: il Vietnam. Bryson ci riporta alla
nostalgia di quei tempi e alla coscienza di una perdita irrecuperabile per
tutti noi.
La mitologia della frontiera è stato
un mito fondante della mentalità e della cultura americana. Il confronto tra
l’uomo intraprendente e la natura, le grandi praterie, la conquista di
territori selvaggi e inesplorati ha plasmato il nuovo uomo occidentale, proprio
mentre la vecchia Europa entrava in un declino irreversibile e poi nel corso
del novecento distruggeva se stessa. L’ “uomo nuovo” americano è nato da un
incontro tra gli emigranti e gli avventurieri europei, in gran parte
protestanti, e la selvaggia natura americana. Dalla conquista del West si è
generata quella sete di miglioramento e di progresso che è divenuto, nel bene e
nel male, lo spirito stesso del nuovo Occidente.
Il West selvaggio ha sempre avuto un
doppio aspetto, come del resto tutta la realtà americana. Da un lato c’è
l’amore per la natura, la libertà, le cavalcate, le praterie, gli immensi cieli
azzurri. Dall’altra c’è la conquista, la colonizzazione, la trasformazione, lo
sfruttamento illimitato delle risorse, le miniere, la ricchezza conquistata. Le
nuove città sorte dal nulla. L’America è terra doppia: qui tutte le
contraddizioni si mostrano apertamente, ma sanno anche -inaspettatamente- armonizzarsi e dar vita a nuove realtà.
Raggiungendo La Vegas dalla California in auto si traversa un deserto nel Nevada di estrema bellezza, se poi si viaggia al tramonto il rosso del cielo si armonizza con i colori sfumati tra il verde e l’arancio scuro delle scarsa vegetazione e delle rocce. Ad un certo punto, raggiunta la sommità di un altopiano la vista rimane incantata di fronte allo sfavillio di un mare di luci che si apre improvvisamente e inaspettatamente. E’ Las Vegas con le mille luci delle insegne e della frenetica modernità che appare come una visione miracolosa e metafisica sul far della notte. Ripensando a quello spettacolo si è portati a riflettere sul fatto che l’America è il luogo in cui la modernità tecnologica riesce, con un’alchimia ardita, ad armonizzarsi con una natura che rimane in gran parte selvaggia e bella, nonostante tutto. Nel paesaggio americano, anche i grattacieli, che qui sono nati, riescono ad farsi accettare come parte del paesaggio.
Raggiungendo La Vegas dalla California in auto si traversa un deserto nel Nevada di estrema bellezza, se poi si viaggia al tramonto il rosso del cielo si armonizza con i colori sfumati tra il verde e l’arancio scuro delle scarsa vegetazione e delle rocce. Ad un certo punto, raggiunta la sommità di un altopiano la vista rimane incantata di fronte allo sfavillio di un mare di luci che si apre improvvisamente e inaspettatamente. E’ Las Vegas con le mille luci delle insegne e della frenetica modernità che appare come una visione miracolosa e metafisica sul far della notte. Ripensando a quello spettacolo si è portati a riflettere sul fatto che l’America è il luogo in cui la modernità tecnologica riesce, con un’alchimia ardita, ad armonizzarsi con una natura che rimane in gran parte selvaggia e bella, nonostante tutto. Nel paesaggio americano, anche i grattacieli, che qui sono nati, riescono ad farsi accettare come parte del paesaggio.
Qui sono nate le prime megalopoli con la nuova architettura per consentire una vita confortevole a
milioni di abitanti in spazi ristretti, le nuove tecnologie informatiche, i
maggiori progressi nella fisica e nella medicina. L’economia e il mercato,
sebbene nati in Europa e specialmente in Inghilterra, hanno avuto qui il loro
massimo sviluppo. Qui in America è
nata, allo stesso tempo, la nuova mentalità ambientalista, a partire dai botanici americani che all’inizio del secolo scorso
s’impegnarono per la creazione dei primi parchi nazionali. Qui , con la beat
generation, sono nate le prime
ribellioni ad uno stile di vita di una borghesia ingessata, dalla mentalità
ristretta in valori non più in
grado di reggere la modernità. Nel
romanzo “On the Road” di Keruac, due giovani della beat generation, esprimono il rifiuto della vita
tradizionale e iniziano un viaggio
in macchina alla scoperta dell’immensità del continente americano, scoprendo
un’america diversa e più vicina alla natura. Il romanzo è metafora di una nuova
sensibilità che avrebbe in seguito dato luogo ai movimenti giovanili di
protesta e di ritorno alla natura, come i figli dei fiori.
Oggi la partita si gioca ancora qui, in America. E’ qui che
all’inizio degli anni 70 fu scritto The Limits to Growth da parte di un gruppo
di ricercatori del MIT. E’ qui che
ancora prima –nel 1968- lo scienziato ed ecologo americano Paul Ehrlic scrisse
il testo chiave per comprendere lo scenario tragico cui si stava avviando il
mondo con l’esplosione demografica: The Population Bomb. Oggi l’ America ha di
nuovo, come sempre, in mano il destino dell’Occidente e dell’intero pianeta,
anche se grandi comprimari sono apparsi nel mondo contemporaneo, come la Cina e
l’India. Se la Terra ha una chance è da qui che probabilmente arriveranno le
proposte e le strategie. Non certo dall’Europa, dal “vecchio mondo” come
sprezzantemente ci definiscono. La vecchia Europa ha una visione ristretta,
schiava di mentalità incancrenite e di meschinità ideologiche. Non ha
l’apertura della mente americana, che forse viene dai vasti paesaggi di quella
terra. Ma l’America, anche lei, corre i suoi rischi. Oggi è uno dei principali
“inquinatori”, ai primi posti per l’immissione di carbonio in atmosfera e nella
produzione di rifiuti. E’ inoltre alle prese con cambiamenti demografici come
l’eccessiva immigrazione e i tassi di natalità in crescita. Tuttavia la coscienza
ambientalista è sempre più forte e sempre maggiori sono le prese di posizione
contro la devastazione del pianeta. L’ex vice presidente Al Gore e il suo
movimento hanno vinto il Nobel per la pace nel 2007 per le lotte contro i
cambiamenti climatici. Nonostante le resistenze, la coscienza del problema sull’eccessiva
pressione demografica si va ampliando. Se l’ambientalismo ha un futuro è qui che dobbiamo cercarlo.
E’ su questi temi che l’America deve ritrovare se stessa.
<< Se la Terra ha una chance è da qui (l'America) che probabilmente arriveranno le proposte e le strategie. Non certo dall’Europa, dal “vecchio mondo” come sprezzantemente ci definiscono. >>
RispondiEliminaCaro Agobit, anche io ho grande ammirazione per l'America ed il suo primato scientifico e tecnologico, ma su questo punto non sarei così categorico.
Forse l'America potrà essere ancora all'avanguardia nelle tecnologie da utilizzare per la gestione delle energie rinnovabili.
Ma quello che ci aspetta è anche (forse sopratutto) una riconversione CULTURALE dal "di tutto, di più" della società consumistica, al "di meno per necessità" della società ecologica prossima ventura.
Ed in questo, la vecchia Europa, che ha già vissuto sulla propria pelle molti cambi di paradigma, anche devastanti (come il crollo dell'impero romano), mi sembra più attrezzata.
Caro Lumen, forse sono pessimista, almeno su questo punto. Ma l'Europa mi pare invece poco attrezzata per i grandi cambiamenti che ci attendono. Ad eccezione di certe società nordiche, per adesso l'Europa politica è un grosso carrozzone burocratico che non mi sembra in grado di combinare gran ché. La devastazione ambientale procede inarrestabile, e dal dopoguerra ad oggi si è cementificato gran parte del territorio. Sulla sovrappopolazione si comincia ora a fare i primi passi: quelli che hanno cognizione del problema sono ancora pochi. Tocca a noi darci da fare...
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