A firma di Sandro Modeo è apparso su “La
Lettura”, inserto letterario del Corriere della Sera, un articolo che –in
controcorrente rispetto a tanti articoli del Corrierone nazionale- indica nella
eccessiva natalità della specie Homo il principale problema del pianeta, da cui
derivano tutti gli altri come l’inquinamento, l’effetto serra, la devastazione
del paesaggio e della natura, le megalopoli e la vita stressante dell’uomo
contemporaneo.
Modeo ricorda il famoso
rapporto del Mit sui «limiti dello sviluppo», uscito nel 1972 e commissionato
dal Club di Roma di Aurelio Peccei, manager di Fiat e Olivetti, come uno dei
primi documenti che riportano ad una nuova sensibilità verso la salvezza del pianeta
minacciato dalla sovrappopolazione umana.
“Una sensibilità
assente, al contrario, in tanti «analisti» carismatici come Serge Latouche, che
nel suo ultimo libro sulla spremitura del pianeta (Limite, Bollati
Boringhieri, pp. 113, € 9) riesce a eludere totalmente — pur citando il
rapporto del Mit — la «questione demografica». Con poche eccezioni — come i
refrain di Giovanni Sartori —, nessuno allarga il campo visivo dalle «crisi»
attuali, economiche, sociali e ambientali, all’impatto della popolazione
mondiale: allargamento che invece aiuterebbe a decifrare le cause rimosse e
profonde di tante emergenze, materiali e psicologiche."
L’articolo
prosegue riportando i dati e le riflessioni dell’ormai classica “Storia minima
della popolazione mondiale” di Massimo Livi Bacci (Il Mulino) –vedi post sul
libro in questione in questo blog- che denuncia la spaventosa esplosione
demografica in atto sulla Terra nell’ultimo secolo, paragonandola alla lenta
crescita nei secoli passati. Decisiva per questa aberrazione è stata la
risposta scientifico-tecnologia e bio-medica che ha influenzato la dialettica tra biologia e
ambiente, fuori dagli schemi classici della natura. Già nel neolitico, quando i cacciatori-raccoglitori inventarono
l’agricoltura e l’allevamento si ebbe l’ampliamento artificiale del ventaglio
alimentare, premessa a ciò che sarebbe accaduto dopo in termini demografici.
“Ma lo vediamo bene anche oggi, in una fase che forse non è il
semplice prolungamento della transizione industriale, ma un’ulteriore
transizione in sé. Da un lato, è evidente come proprio la tecnoscienza e la
medicina possano rispondere a crisi di produzione agro-alimentare (con gli
Ogm), al bisogno di nuove soluzioni energetiche in rapporto al riscaldamento
globale, (con tecnologie sempre più sofisticate) o alle nuove emergenze
epidemiologiche (antibiotici di nuova generazione contro batteri più plastici e
aggressivi). Dall’altro, i dati impressionanti non solo sulla crescita
demografica, ma soprattutto sulla concentrazione urbana (arrivata nel 2010 al
50,5%, il famoso «sorpasso» sulle campagne), spiegano tante
accelerazioni-metamorfosi come l’«informatizzazione» postindustriale. Per
inciso, la densità urbana — insieme al mismatch, cioè alla «dissonanza»
che si crea tra comportamenti adattativi acquisiti al tempo della
caccia/raccolta e i contesti attuali — spiega problemi e patologie in modo più
profondo, svelandone la genesi remota. Come un’alimentazione ipercalorica
(necessaria in un contesto di fuga e predazione) diventa, in una società sazia
e sedentaria, fonte potenziale di diabete/infarto, così un cervello «tarato»
per interagire in comunità di 100-150 individui, gerarchiche ma molto solidali,
ha difficoltà in folte comunità claustrofobiche e alienanti, all’origine sia di
disagi lievi come l’impossibilità di gestire troppe amicizie su Facebook, sia
di varie psicopatologie ansioso-depressive.”
L’Autore riconosce la
necessità assoluta di includere nella pianificazione del futuro la “questione
demografica”. Per far questo sono necessarie a volte strategie controintuitive.
Il controllo volontario delle nascite (che resta il timone operativo, ma deve
scontrarsi con attriti ideologico-religiosi trasversali) può essere infatti
perseguito, specie nei paesi in via di sviluppo, soprattutto diminuendo la
mortalità infantile, cioè spingendo a una riproduzione “di economia” anziché
“di dispendio” (a non fare tanti figli per aumentare la possibilità di
sopravvivenza). Un altro pilastro di una strategia denatalista è la diffusione
di istruzione e consapevolezza, più importante della ricchezza nell’esercizio
del contenimento demografico civilizzato (non più legato a pratiche come
l’aborto selettivo sulle femmine). Conclude Modeo che la partita è aperta
perché la spinta primordiale a figliare è provvista di una forza di inerzia
difficile da combattere. Ma non affrontare subito il problema
ci porterà a scenari che già si prefigurano concretamente nel mondo
contemporaneo, scenari sempre più simili a quelli previsti nel rapporto del Mit
del 1972.
L’articolo mi sembra
interessante perché esprime una presa di coscienza importante anche da parte
del Corriere, che finora –con l’eccezione degli articoli di Sartori- ha dato
troppo spazio alle posizioni della Chiesa e a quelle iper-nataliste della
politica italiana (compresa l’ultima veramente deprimente del premier uscente
Monti). La consapevolezza lentamente si fa strada, nonostante le afasie di
Latouche e di tanti ambientalisti.
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