Il declino economico e culturale dell’Occidente ha riportato l’interesse degli studiosi
sul crollo dell’Impero Romano, in cerca di analogie e strategie di rientro.
Perché cadde l’Impero Romano? Le ipotesi sono molteplici, alcune addirittura
fantasiose come quella che vedeva una delle cause nel ritardo mentale dei
romani procurato dall’uso massiccio del piombo nelle tubature dell’acqua, nei
recipienti di stoccaggio del vino ecc.
Quelle più in voga tra gli studiosi sono però tre: quella
della crisi culturale, quella della crisi economica, e quella della decadenza militare. La prima,
propugnata da Gibbon nel suo
monumentale “Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano”, vede nel
diffondersi del cristianesimo la causa del venir meno di quella identità romana
che era stata alla base dell’espansione militare e del dominio culturale della
civiltà di Roma. La crisi economica vede nell’esaurimento delle risorse auree e
di argento e nella conseguente crisi della moneta romana (il “soldus” con cui
venivano pagate le truppe – da cui il nome soldati dato ai legionari cittadini
romani – e con cui venivano assicurati i pagamenti delle merci e delle spezie
di importazione) la causa del venir meno della qualità e della consistenza
numerica dell’esercito romano, ridotto ad una preponderanza di truppe auxiliae
( arruolati tra i popoli alleati e assoggettati) con una minore motivazione e
preparazione al combattimento. Secondo questa ipotesi la crisi delle
importazioni in seguito alla minor moneta disponibile determinava un minor afflusso di grano, di cibi e di
prodotti (una specie di crisi energetica come quella petrolifera odierna, visto
che allora l’energia si identificava con i prodotti agricoli) con una conseguente minore efficienza
delle strutture difensive delle città romane.
Lo storico inglese Peter Heather nel suo recente “La
caduta dell’Impero Romano – Una nuova storia” (Garzanti) riporta le nuove ipotesi avanzate in
seguito a studi archeologici recenti basati sui nuovi ritrovamenti di
materiali, su nuove documentazioni di testi, e sulle nuove
tecniche come la ricognizione aerea delle aree occupate da insediamenti
antichi.
Le nuove ipotesi sono sorprendenti e per certi versi ci
riportano a situazioni e dinamiche che riguardano molto da vicino la crisi
epocale che l’Occidente si trova ad affrontare al giorno d’oggi. E’ addirittura
possibile una comparazione tra la crisi strutturale dell’Impero romano del IV-V
secolo d.C. e quella dell’Occidente industrializzato del XXI secolo. In base ai
recenti ritrovamenti e alle nuove rilevazioni sul territorio, Heather contesta
le tre ipotesi più in voga dichiarandone la falsità:
Prima ipotesi. L’Impero romano d’occidente è caduto per
la debolezza dell’esercito dovuto alla minore qualità combattente, minore
disponibilità di mezzi e
minore consistenza numerica.
Nulla di più falso. L’’esercito romano dei secoli III-IV
e gran parte del V era un esercito forte, ben addestrato, fornito di tutte le
migliori risorse della tecnologia bellica di quei tempi. Le truppe si
suddividevano in truppe di campo, quelle per le battaglie strategiche campali,
e in truppe di confine (meno numerose ed addestrate, destinate al controllo dei
confini nei periodi di pace o per crisi limitate). Dal punto di vista numerico,
a parte limitati periodi temporali, il numero complessivo delle truppe fu
sempre alto e sufficiente alle necessità strategiche e tattiche. A Treviri
stanziava il grosso delle truppe dedicate al controllo del confine orientale, e
tra legionari e ausiliari il numero di soldati era in genere vicino ai 350.000
con punte temporanee di 500.000. A differenza di quello che si riteneva in
passato il numero di truppe si è
mantenuto sempre alto fino al V secolo a partire da quando fu
stabilito e fortificato il confine sul Reno, subito dopo la disfatta di Teutoburgo con il massacro delle legioni al comando di Quintilio Varo. Anzi la stretta convivenza dei legionari e dei funzionari con le popolazioni locali, durata circa cinque secoli, con frequenti scambi
commerciali e sociali, ha contribuito alla formazione linguistica e culturale delle popolazioni
germaniche ed ha influenzato l’organizzazione politica degli stati tedeschi fino all'epoca moderna (ad esempio la mentalità precisa e “militare” dello stato prussiano).
Seconda ipotesi. Il cristianesimo ha indebolito lo
spirito romano.
Al contrario di quel che afferma Gibbon, il cristianesimo
sembra aver ricompattato il consenso politico intorno all’Imperatore e
all’autorità romana. Con la religione cistiana si rinnovò anzi quello che fin
dai tempi di Augusto l’imperialismo romano sosteneva: che fosse stato il cielo
ad affidare a Roma il compito di conquistare e civilizzare il mondo intero. Gli
antichi dei dell’Olimpo furono sostituiti dal Dio dei cristiani, e la miglior
condizione possibile per il genere umano divenne quella della conversione e
della salvezza cristiana. In pratica l’apparato di potere rimase invariato,
cambiò solo la nomenclatura. Analogamente gli imperatori, pur rinunciando alla
divinizzazione, mantennero un legame privilegiato con il divino anche nella
propaganda cristiano-romana, che dipingeva ogni singolo sovrano come scelto
direttamente da Dio per reggere l’ambito terreno del suo cosmo assieme a lui e
in suo nome. La potenza dell’esercito romano sotto i successori di
Costantino non fu per nulla sminuita dal nuovo credo. La volontà di
combattimento dei legionari era anzi esaltata dal ruolo di difensori della
nuova civiltà cristiana, come emerge dai numerosi testi scritti, dalle
epigrafi, dai monumenti funerari rinvenuti. L’affermarsi della religione
cristiana, con la creazione conseguente di una nuova e più estesa burocrazia,
dimostra in realtà che il centro dell’Impero non aveva perso la sua capacità di
vincolare le elite locali e le misure di cristianizzazione non furono imposte
ma recepite gradualmente.
Terza ipotesi. La crisi economica e monetaria ha
indebolito lo stato romano.
Una delle scoperte archeologiche più sorprendenti è il
ritrovamento (specie negli scavi eseguiti nel dopoguerra e negli ultimi decenni) di numerosi oggetti d’oro e di argento, di manufatti e di opere di alta capacità tecnica e artigianale tra i resti di villaggi
romani dell’europa centrale ed orientale, così come in Asia minore e nel nord
dell’Africa, risalenti al IV-V secolo. Sembra che l’Impero d'occidente negli ultimi due secoli abbia
subito, specie nelle regioni vicine alla frontiera con le popolazioni
barbariche, un vero e proprio boom economico , poiché l’economia locale era
sovrastimolata dalla presenza, poco lontano, di migliaia di soldati romani con
le tasche piene di soldi e da forti scambi commerciali con le popolazioni locali. Gli stati vassalli, cioè, tendevano a diventare più
ricchi che non il resto della Germania lontano dai confini dell’impero,
attirando perciò stesso incursioni e razzie che poi si spingevano verso il
territorio romano. Le rilevazioni aeree sono concordi nel mostrare in questo
periodo un generale ampliamento dei centri abitati e delle strade di collegamento, indizio sicuro di
espansione economica e commerciale, di una maggiore disponibilità di cibo, di
benessere.
Ma se le cause della caduta non sono né militari, né
religiose né economiche, per quale motivo l’Impero crollò improvvisamente alla
metà del V secolo? La risposta di Peter Heather è semplice e documentata:
l’Impero cadde in seguito alle invasioni dei popoli barbarici, tra cui
fondamentale fu quella degli Unni cominciata nel del IV secolo e che spinse
davanti a se popolazioni
germaniche più prossime ai confini dell’Impero. Per secoli il confine
romano-germanico si era retto in un equilibrio instabile in cui alle invasioni
di gruppi limitati di germani si erano alternati periodi di scambi economici e
di convivenza. Nel IV secolo questo equilibrio si era definitivamente rotto per
l’irrompere degli Unni. Per più di dieci anni, dal 441 al 453, la storia
d’Europa fu dominata da campagne militari di un ordine di grandezza mai visto
prima. Lo orde pagane di Attila infuriarono su tutta Europa, spazzando via come
fuscelli gli imperatori romani che ebbero l’ardire di pararglisi davanti. Nel
decennio successivo al 440 le attività predatorie ai danni dell’impero avevano
generato un flusso crescente di ricchezza dal mondo romano a quello unno.
Gli Unni avevano compreso che dal depredare e
terrorizzare i goti e altre popolazioni germaniche si potevano ricavare un certo numero di schiavi, qualche
oncia d’argento e alcune quantità limitate di cibi. Ma se le
stesse attività erano messe in atto vis-a-vis con l’impero romano, l’oro
cominciava ad affluire con una certa abbondanza, dapprima a centinaia di libbre
l’anno, poi addirittura nell’ordine di
migliaia di libbre, rivoluzionando il sistema economico-politico. A
contatto con l’impero romano il nomadismo degli Unni, basato sull’allevamento
di vari animali e di cavalli, divenne predatorio, una strategia di
sopravvivenza che non avrebbe potuto funzionare nella steppa sconfinata, dove
gli utili potenziali della guerra erano infinitamente minori. La relativa
crescita demografica delle popolazioni unne li aveva spinti verso occidente
alla ricerca di terre più ricche da depredare. Crescita relativa in quanto come
numeri assoluti non era enorme, ma riferita alla agricoltura
primitiva (non conoscevano i fertilizzanti e l'aratura in profondità) e alla economia basata
sul nomadismo, era comunque una crescita eccessiva rispetto alle risorse locali
disponibili (le aride stesse dell’Asia). Nel loro vasto movimento verso occidente
essi trascinarono (in parte per spinta violenta, in parte per effimere
alleanze) i popoli germanici che si trovavano ad ovest come i goti, gli
ostrogoti, gli svevi, gli
alamanni, gli sciri. Ad Attila non interessava la conquista di territori ma l’annessione
di popolazioni e soprattutto dei loro beni. Questi spostamenti di
numerose popolazioni, spinte dal movimento degli Unni verso occidente,
portarono a numerosi pesanti conflitti e al crollo del sistema di contenimento
che l’impero avera instaurato nel corso di secoli sulla frontiera orientale.
L’impero unno sarebbe crollato presto (gran parte delle popolazioni unne si stanziarono nell’odierna Ungheria),
ma ormai l’impero romano era minato dalle fondamenta, distrutti i principali
presidi militari, sconvolte e interrotte le comunicazioni, devastate le
campagne e gran parte dei centri abitati, rovinata l’agricoltura. Particolarmente
grave fu, dopo le devastazioni della Gallia e della Spagna, il fatto che
vandali e alani trasferirono il teatro delle loro operazioni in Nordafrica,
conquistando nel 439 le provincia più ricche e produttive di tutto l’occidente
romano. Si crearono così le
condizioni, dopo la caduta di
Attila, per nuovi equilibri politici in cui avrebbero svolto un ruolo l’impero
romano d’oriente e i principati barbarici come quelli degli ostrogoti in
Italia, i visigoti e i vandali in Europa. L’impero romano d’occidente era
ridotto ai minimi termini, senza forze militari, senza più una moneta
spendibile (in oro o in argento), senza più i sicuri rifornimenti di grano,
senza i fiorenti commerci, in preda alle popolazioni di invasori. Si può
parlare, tenuto conto che l’energia del tempo era l’agricoltura, di un mix tra
crisi energetica e immigrazione massiccia di popolazioni eterogenee.
Heather , respinge la teoria dell’implosione dell’impero
per esaurimento interno delle sue forze. Egli proponendo la sua risposta ci
riconduce ai dati obiettivi e all’evidenza che molti studiosi avevano dimenticato. Studiosi che per
adeguarsi alla corrente maggioritaria degli storici vedevano nella crisi
politica ed economica dell’impero la causa della sua caduta con l’intento di
accusare di essa l’impero
stesso. Heather ci documenta al contrario che l’Impero Romano è caduto nel pieno di una florida economia,
forte di una tradizione culturale e giuridica ineguagliabile, e con un esercito che era
sicuramente il più forte ed organizzato del tempo. E’ caduto per il fatto che
tutti gli scrittori contemporanei agli eventi
avevano adeguatamente e ripetutamente riferito (ma che avevano trovato
gli storici moderni perennemente scettici): l’afflusso inarrestabile di nuove
popolazioni, in parte stanziali e in parte nomadi, desiderose di appropriarsi
delle ricchezze dell’impero e di depredarne le popolazioni, il più delle volte
appropriandosi delle istituzioni e della cultura stessa delle popolazioni
originarie. Una verità che tanti studiosi “occidentali” e cattedratici hanno
volutamente ignorato attribuendo le cause della caduta alle ipotesi più
fantasiose. Heather ci riporta invece alla verità più evidente: Impero cadde perché fu invaso. Non si trattava di un invasore fornito
di una civiltà superiore e di un esercito più forte: al contrario era proprio
la differenza culturale ed economica a stimolare la violenza predatoria e i
lunghi spostamenti di massa di un numero enorme di popolazioni che cercavano
nuovi spazi, nuove risorse e nuove opportunità in seguito ad una crescita
demografica che non trovava più soddisfazione nelle risorse disponibili nei
luoghi d’origine. La rilevanza numerica, le masse delle popolazioni in campo ,
l’estensione spaziale dei territori interessati, la lenta preparazione e
reiterazione delle invasioni durante secoli, l’accelerazione finale in seguito
alla migrazione degli Unni, la fragilità del “sistema complesso” dell’organizzazione
imperiale, la debolezza politica del comando degli ultimi imperatori, portarono
al crollo finale.
C’è una qualche relazione tra la caduta dell’Impero
Romano e la crisi economica e politica che affligge oggi l’Occidente
democratico?