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venerdì 22 aprile 2016
La trasformazione delle città
Un raffigurazione iconica della trasformazione del mondo al tempo della sovrappopolazione è l'aspetto generale che stanno assumendo le grandi città. Se guardiamo alle città europee vediamo un centro storico limitato in estensione e ricco di arte e opere architettoniche di valore, una prima area intorno al centro occupata sia da abitazioni che da servizi e poi una grande periferia fatta di costruzioni che, a seconda del grado di civiltà del paese, possono essere urbanisticamente regolate e di buona qualità oppure sregolate urbanisticamente e di qualità architettonica scadente (come in Italia). Ma dopo l'accelerazione demografica degli ultimi decenni, in seguito all'aumento esplosivo della popolazione e al connesso spostamento di masse umane dalle campagne nelle città, si assiste ad una crescita ugualmente esplosiva delle periferie cittadine e ad un generale scadimento della qualità architettonica che va di pari passo allo scadimento della qualità della vita. Ad aggravare il fenomeno ci sono gli epocali spostamenti immigratori in atto che sembrano anch'essi accelerare negli ultimi anni in seguito all'esplosione demografica in tante zone del pianeta. Assistiamo così allo sviluppo di gigantesche megalopoli in India, Cina, Asia, Africa, Sud America e, per quanto concerne l'Europa, alla nascita delle bainleu a Parigi o ai veri e propri ghetti etnici di Londra e di Stoccolma e Berlino. Un fenomeno analogo è quello che avviene in alcune grandi città italiane ed in particolare a Roma dove si stanno creando vere enclave (città nella città) senza alcuna regola e senza infrastrutture adeguate che stanno modificando sia l'aspetto urbanistico che l'assetto sociale e culturale. Nello sviluppo delle megalopoli quello che forse è l'aspetto più rilevante è la perdita del significato storico e culturale della città che accompagna questi fenomeni dovuti alla sovrappopolazione. Insieme con l'espandersi delle periferie grigie e prive di un senso che non sia quello della mera sopravvivenza, si perdono i riferimenti storici e spirituali che erano all'origine della città: riferimenti spesso sintetizzati dal coesistere in uno stesso luogo o in luoghi limitrofi della cattedrale (significato religioso), del palazzo del governo (significato politico), delle grandi opere artistiche (significato culturale). La presenza di valori culturali guida e della certezza politica e del potere costituito era spesso ben rappresentata dall'ordine urbanistico che assumeva lo sviluppo graduale della città nelle varie epoche storiche. Ma con l'attuale esplosione demografica si è assistito alla polverizzazione di queste regole strutturali di crescita e all'irrompere di un vero caos edilizio e sociale. I nuovi centri di aggregamento intorno a cui avviene la crescita delle periferie non sono più le piazze, le chiese o i palazzi del potere, ma puri elementi funzionali come i centri commerciali, gli snodi stradali , i servizi (i poliambulatori, gli uffici ecc.). A volte l'unico motivo di aggregazione è la disponibilità di spazi per la speculazione edilizia. Si perdono così completamente tutti i significati storici, culturali, religiosi, di appartenenza e di amore dei luoghi che avevano per secoli dettato lo sviluppo cittadino. Con l'aumentare del numero di abitanti la città si trasforma da unità storica e culturale, di cui elemento portante erano tra l'altro le tradizioni locali e il dialetto, ad insieme caotico puramente funzionale dove contano le "facilities", le funzioni, l'aspetto puramente residenziale abitativo e di sussistenza. I trasporti nelle grandi periferie divengono sempre più difficili e la vita dei cittadini vede consumare una gran parte del tempo sui mezzi di trasporto, aumentando stress e fatica. Quando, come nel caso di alcune città italiane o di grandi città del terzo mondo, mancano le autorità politiche a dare un minimo di regole e una gestione sociale e urbanistica, il senso di pura residenzialità si degrada ulteriormente a occupazione di sopravvivenza di un'area, che comporta scadimento edilizio e infrastrutturale fino a sfociare nella creazione di vere bidoville in preda a criminalità e illegalità diffuse. Le cause riconducibili alla sovrappopolazione sono evidenti: l'esplosione demografica è alla base dell'inurbamento rapido di masse umane provenienti dalle campagne e dell'afflusso di popolazioni immigrate provenienti da aree del pianeta con alti tassi di natalità. La sovrappopolazione crea inoltre la necessità di nuove abitazioni con la connessa cementificazione, la necessità di nuove vie di comunicazione, nuove infrastrutture per i trasporti, per la sanità, per l'assistenza che vengono raramente assicurate in modo sufficiente o non lo sono affatto con gravi ricadute sulla qualità della vita. La risposta a queste esigenze, in presenza ad una crescita esplosiva, non può essere che frammentaria e caotica dettata da necessità contingenti e al di fuori di ogni programmazione a lungo termine. La storia della discarica di Roma è esemplare per studiare le necessità create, in questo caso riguardo allo smaltimento delle migliaia di tonnellate di rifiuti giornalieri, dalla nuova popolazione residente in crescita esplosiva. La più grande discarica d'Europa, quella di Malagrotta, si è rivelata insufficiente e fonte di massivo inquinamento ambientale. La ricerca di nuovi siti è stata non solo difficile, ma per ora impossibile: tutto il territorio della periferia romana è fortemente antropizzato e incapace di sopportare dal punto di vista ambientale (e politico-sociale) la presenza di una nuova gigantesca discarica. La disperazione di cittadini e amministratori, insieme ai rilevanti fenomeni corruttivi, ha portato per ora all'invenzione di mini discariche in luoghi assurdi che hanno sollevato proteste popolari e interminabili vertenze giudiziarie.
La sovrappopolazione non rende solo insostenibile questa crescita di cemento e di inquinamento, ma è alla base anche del degrado sociale e civile delle periferie. Le necessità dovute ai numeri crescenti di popolazione richiedono risorse economiche sempre maggiori, che vengono sottratte alla realizzazione urbanisticamente regolata della città, e deviate verso forme di pura sussistenza ed assistenza di natura parcellare e emergenziale. Le grandi opere di architettura, veri poli aggregatori di una idea di città vivibile, sono così rare per mancanza di finanziamenti adeguati. Il fenomeno corruttivo, diffuso in tutte le realtà megapolitane , contribuisce in modo significativo ad ulteriore degrado. Le opere una volta finanziate e iniziate perdono di interesse avendo già procurato guadagni ai corrotti, e spesso rimagono incompiute per mancanza di fondi (la funzione pubblica cui erano destinate avendo perso ogni importanza). L'edilizia abitativa per i nuovi residenti in rapida crescita e' spoglia, realizzata in economia, priva di riferimenti guida. Si costruisce per contenere nuove masse senza regole e senza significati che non siano banalmente consumistici, si creano così le condizioni per l'alienazione sociale delle periferie. Il nuovo mito aggregatore è il denaro ed il consumo a cui si accompagna la lontananza di ogni potere politico e civile, percepito come estraneo e ostile. La megalopoli diviene il simbolo della trasformazione massificante al tempo della esplosione demografica umana, l'essenza della incompatibilità tra ambiente e crescita umana eccessiva. Le periferie delle megalopoli sono centri attivi di immissione in atmosfera di migliaia di tonnellate di carbonio ogni ora del giorno. Ma su questo terreno non è solo la perdita ambientale a pesare. Un tempo la città racchiudeva in se il senso della convivenza di tante persone che si riconoscevano in una cultura, in una storia e in un luogo. Le opere d'arte che abbellivano la città erano un richiamo a tutto questo. Oggi queste sconfinate periferie che stanno crescendo sotto i nostri occhi sono senza storia, senza luogo (tutto è grigio come il cemento), e non esistono culture unificanti ma un insieme di culture diverse e contrastanti tra loro. In questo contesto ogni cultura viene degradata a individualismo; le megalopoli sono l'impero del nuovo individualismo parcellizzato, al massimo aggregato a lobby. Ogni aspetto della vita cittadina diviene rivendicazione di diritti (spesso con il risultato di dar luogo a conflitti continui tra titolari reali o supposti di diritti). Nello stesso tempo la perdita di obiettivi comuni e condivisi rende estranea ogni cultura dei doveri. La comunità nelle grandi periferie urbane diviene un insieme di individui e gruppi in conflitto tra loro, mentre il potere centrale è lontano e non più in grado di ordinare e regolare la vita civile. La densità demografica altissima unita alla mancanza di servizi adeguati genera un alto tasso di aggressività, dando ragione agli studi di Lorenz sulla conflittualità intestina nelle comunità altamente popolate rispetto ad un territorio degradato. In assenza di religione e politica, anche l'arte ha sempre più difficoltà ad assicurare una visione unificante e un futuro condiviso. Si perdono le mitologie che un tempo davano coesione sociale in un dato territorio; le antiche mitologie vengono sostituito da nuovi miti globali basati su internet e la Tv. I prodotti commerciali o i protagonisti della comunicazione virtuale diventano i punti di aggregazione culturale e sociale, aleatori come ogni prodotto basato sul consumo e sulla virtualità, ed incapaci di creare una visione d'insieme per il futuro della comunità. L'evoluzione delle grandi periferie megapolitane che si stanno creando sotto i nostri occhi sulla spinta della crescita demografica è aperta e imprevedibile. Sarà ancora possibile assicurare un ordine ed una convivenza civile tra popolazioni così eterogenee e disaggregate in presenza di crisi economiche durature ? E cosa avverrà in presenza di prevedibili futuri gravi problemi ambientali?
martedì 5 aprile 2016
Sul referendum del 17 aprile
Riporto il seguente articolo di Dario Faccini su ASPO riguardo al prossimo referendum sulle trivellazioni al largo delle coste italiane. Lo trovo serio perché non si fa illusioni ridicole sulle cosidette rinnovabili. Per tutte le demagogie che riguardano il referendum mi sembra chiaro il messaggio: una vittoria del si non cambierà nulla. Si importerà solo un po' più di gas dal Mozambico e petrolio da qualche altra parte. Faccini fa un richiamo alla necessità, che ci riguarderà in ogni caso, di diminuire il tenore di vita e di cominciare a pensare che bisognerà rinunciare a molte comodità "occidentali" tra cui il livello della previdenza e della sanità, l'uso dell'auto e delle tecnologie, la vita comoda, le case riscaldate e i viaggi e tutto il resto. Tuttavia a Faccini, come a molti altri ambientalisti non viene in mente (non viene neanche preso in considerazione magari solo per escluderlo...) che il consumo totale è il prodotto tra il consumo procapite medio e il numero dei consumatori(popolazione globale del pianeta). Che quindi oltre a ridurre i consumi pro capite, visto che molti di questi consumi nei prossimi anni aumenteranno per molti paesi attualmente arretrati e in via di sviluppo, bisogna cominciare a pensare a ridurre il numero della popolazione globale, se si vuole realmente salvare il pianeta. E bisogna affermare con forza che se noi occidentali dobbiamo certamente ridurre i consumi non si può consentire ad abitanti dello stesso pianeta di continuare a sfornare otto o dieci o dodici figli per donna. A ciascuno la sua responsabilità.
Il lato oscuro del referendum
… anche questa volta stai scegliendo per ripulirti la coscienza, come un Ponzio Pilato qualunque. Not in My Back Yard.
Perché se fossi così preoccupato dell’ambiente … ti impegneresti perché il tuo paese avesse un partito ambientalista degno di questo nome. Perché nella tua città ci fossero servizi pubblici più efficienti. E non frantumeresti i cabbasisi perché il sindaco ha ampliato le zone a traffico limitato. …
Perché di mettere una croce siamo capaci tutti.
Di Dario Faccini
Sono parole scritte da Marco Cattaneo, direttore del mensile Le Scienze, rivolte a chi intende votare SI al referendum del 17 Aprile contro il prolungamento indefinito delle concessioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa.
Sono parole dure, provocatorie, che hanno scatenato un vasto dibattito in rete.
E voglio dire subito come la penso.
Bravo Marco, ma devi avere il coraggio di dirla tutta. Perché così come hai scritto, sembra che la questione vera sia solo quella di essere un po’ più coerenti, più amici dell’ambiente, un poco più sobri, per evitare di importare poi dal Mozambico quel poco di produzione di gas che potremmo perdere in Italia con un SI al referendum.
E invece sappiamo benissimo che non è questa la vera posta in gioco. A te che dirigi la principale rivista di divulgazione scientifica è chiarissima la scelta che abbiamo di fronte. Se non la dici fuori dai denti è solo per un motivo: perché è troppo rivoluzionaria e la maggior parte dei lettori, semplicemente, non potrebbero accettarla (e alcuni neppure capirla).
GREENWASHING MENTALE
Questo referendum è un piccolo passo sul lungo cammino che dovrà svincolarci dai combustibili fossili, su questo punto la pensiamo allo stesso modo. E sono anche d’accordo con te che le motivazioni più diffuse per votare il SI, seppur legittime, forse mancano il vero problema: si evidenzia l’inquinamento dei fondali, il rischio di sversamenti in mare (c’è in ballo anche un 9% di produzione petrolifera), gli affari per i petrolieri (e da qualche giorno anche della politica), le alternative possibili come le rinnovabili che hanno raggiunto il 40% della produzione elettrica, la sfida del Clima che non può essere combattuta solo a parole.
Ecco partiamo proprio dal Clima. Le fonti fossili sono in declino? In Italia si, complice anche la bassa Crescita (si, ci vuole la “C” maiuscola), ma nel resto del mondo non è affatto così.
Nel resto del mondo, per i combustibili fossili, si vede al massimo un rallentamento dei consumi nel 2014, quasi certamente dovuto a cause economiche e metereologiche, non certo per la crescita delle nuove rinnovabili (in calo da un +16,5% a un +12%), che ancora forniscono solo il 2,45% dei consumi totali.
Se le fonti fossili sono ancora in crescita, allora le emissioni climalteranti sono ancora in crescita.
Si potrebbe obiettare che però ora la situazione potrebbe evolvere velocemente a favore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, spostando grandi finanziamenti nel settore green. In fin dei conti è questo il grande tema del cambiamento climatico: dobbiamo cambiare strada.
Già ma chi? Il 20% della popolazione mondiale agiata (si, ci siamo anche noi)? Forse. Di sicuro per l’80% che aspira a raggiungere quel 20% non è possibile.
Se quell’80% seguisse quei consigli che tu, Marco, hai dato nel tuo articolo (tenere basso il riscaldamento, comprare l’auto ibrida, tenere un po’ più spento lo smartphone) una volta che avesse raggiunto il nostro livello di benessere materiale, quei grafici che sono qui sopra schizzerebbero verso l’alto. E quell’80% non solo ha tutto il diritto di vivere come noi, ma si sta anche impegnando con tutte le sue forze per farlo, incoraggiato dal modello di Sviluppo che noi per primi gli abbiamo creato.
Si chiama Crescita Materiale Globale. Che vuol dire avere più oggetti, spostarsi di più, mangiare meglio e più variato, avere case più grandi e un’infinità di servizi mangia-risorse tra cui rientrano anche l’istruzione, la sanità e la salvaguardia dell’ambiente (che è roba da ricchi, ricordiamocelo). Tutte cose che consumano energia, risorse, suolo, e producono perdita di biodiversità inquinamento e gas serra, non solo nella loro normale attività o funzionamento, ma anche prima, quando vengono prodotti e costruiti. Un’auto nuova, ancora prima di fare un pieno, ha già consumato per la sua produzione l’equivalente in petrolio che consumerà in varie decine di migliaia di km (attorno ai 20000kWh di energia grigia per le auto tradizionali) e le auto elettriche o ibride non fanno eccezione. Per un computer ancora imballato è stato già usato circa un barile equivalente di petrolio.
Non c’è crescita delle rinnovabili e dell’efficienza energetica (la cosiddetta decarbonizzazione della società) che possa portare i poveri a livello dei ricchi mantenendo l’aumento della temperatura del clima sotto ai 1,5°C decisi alla COP 21 di Parigi.
IL NEMICO DIETRO LE TRIVELLE
Questa, come sappiamo entrambi, non è solo un’opinione di qualche complottista o scienziato un po’ estremista. Sono conclusioni scientifiche che vengono dagli anni ’70, quando ancora non si sapeva che i gas serra fossero una forma di inquinamento, ma si era già chiamato il problema con il suo vero nome: I Limiti della Crescita.
Ed ora, che il Clima è entrato nell’agenda internazionale, gli studi che si basano su moderni modelli scientifici di previsione che considerano energia, clima e economia, giungono alle stesse identiche conclusioni. Il modello di Sviluppo basato sulla Crescita non può più essere seguito perché se continuassimo su questa strada:
la necessaria riduzione nel consumo di combustibili fossili sarebbe solo parzialmente compensata da rinnovabili ed efficienza, producendo nei prossimi decenni carenze di energia e black out, incompatibili con la Crescita;
se si provasse a mantenere la Crescita coprendo la quota di energia mancante ancora con le fonti fossili, l’esaurimento di quelle più pulite (Peak Oil and Gas) porterà ad utilizzarne di più sporche, come il Carbone, facendo allora comunque scoppiare la bomba climatica;
L’unica via d’uscita viene indicata dagli stessi ricercatori:
…i paesi più industrializzati dovrebbero ridurre, in media, il loro uso pro capite di energia almeno di quattro volte e diminuire il loro PIL procapite all’attuale livello medio globale
Tradotto per noi italiani: l’indicatore che misura (molto male) la “ricchezza” di ciascuno di noi, dovrebbe più che dimezzarsi.
In altro parole, in modo controllato dovremmo decrescere volontariamente ora per evitare di decrescere rapidamente nei prossimi decenni per le carenze di energia o per la bomba climatica.
Quindi, Marco, il discorso che tu fai sul referendum lo condivido in pieno:
…riguarda la necessità di assumersi la responsabilità di ciò che facciamo. Perché godere dei benefici senza assumersi i rischi è troppo comodo.
Siamo noi stessi il vero problema, il vero nemico, dietro le “trivelle”. Ma i rischi maggiori non sono quelli dell’inquinamento che potremmo spostare dall’Italia al Mozambico come hai scritto. I rischi di una decrescita incontrollata sono la povertà, l’insicurezza alimentare, le guerre, la fine dei servizi essenziali come sanità ed istruzione. Grandi rischi per noi e persino moltiplicati per i paesi più poveri come il Mozambico. Votare SI al referendum per far progressivamente chiudere meno di 1/6 della produzione nazionale di idrocarburi non ci porta avanti di una virgola nella soluzione di questi problemi se non si diffonde anche la consapevolezza della portata delle sfide (anzi no usiamo la parola giusta), delle Crisi che abbiamo di fronte.
Per questo dobbiamo dirlo con parole chiare.
Le rinnovabili e l’efficienza da sole non bastano. Persino cambiare le singoli abitudini di consumo di ciascuno di noi non sarà sufficiente. Ci viene chiesto di ristrutturare le società ricche, come quella italiana, decidendo quali beni e servizi siano meritevoli di esistere, quali debbano essere condivisi e quali debbano essere abbandonati.
Non è una cosa che si possa fare in 1 anno o in 10. E da qualche parte bisogna pur partire, per cui va benissimo tutto quanto hai scritto. Ma il vero fine è questo e dobbiamo iniziare a dirlo, perché l’abbiamo nascosto per troppo tempo. Anche se si aprono enormi problemi sociali come l’occupazione, la perdita di alcune tutele, la fine di alcune libertà di consumo, non possiamo tacere, perché l’alternativa è un baratro in cui potrebbe esserci tolto tutto.
Quindi, quando andremo a votare al referendum del 17 aprile e usciremo dal seggio, guardiamoci attorno. Guardiamo le case, le auto parcheggiate, i vestiti che indossiamo e magari giriamoci per guardare anche la scuola da cui siamo appena usciti. E chiediamoci, quanto di tutto questo ci serve veramente per essere felici e realizzati, o a quanto potremmo invece ragionevolmente rinunciare.
Perché a mettere una croce siamo capaci tutti, ma la scelta non si fermerà lì.
La scelta ci sta venendo incontro e ci troverà.
Anche se non andremo a votare.
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