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mercoledì 6 gennaio 2016

La rivincita di Marx: l'ecosocialismo

L'economista Daniel Tanuro, autore del volume "L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo" (Alegre, Roma 2011, pp. 224, € 16,00) prova a rivalutare il marxismo in chiave ecologista. L'autore critica Latouche e l'economia della decrescita che demonizzano lo sviluppo tecnologico e propugnano un puro ritorno ad una economia agricola e a fonti di energia esclusivamente rinnovabili. La critica ai consumi da parte dei fautori della decrescita è esclusivamente culturale e non prevede alcun progetto politicamente realizzabile di società. Latouche sembra anche credere che una strategia di decrescita sia compatibile con un capitalismo che veda solo una ridefinizione delle priorità. Ma questa impostazione non può condurre a nulla perché le logiche del sistema capitalistico portano a massimizzare la produzione e a ripercorrere le vecchie strade dello sviluppo non appena si allentano i controlli, fenomeno inevitabile in società che si vogliono ancora presentare come libere e democratiche.
L’impossibile capitalismo verde
Di fatto, l’allarme globale sul riscaldamento del pianeta giunge dopo due secoli di massiccio sviluppo capitalistico dell’economia. Secondo Tanuro, e del resto si tratta di un fatto abbastanza evidente a chiunque voglia considerare seriamente la questione, le ragioni del “sovraconsumo” di materia e di energia che caratterizzano le società capitaliste avanzate e quelle emergenti vanno ricercate nella sovrapproduzione, cui il sistema è costretto in virtù del suo ossequio a determinate leggi. Il capitalismo consiste nella produzione generalizzata di valori di scambio, altrimenti detti merci. L’astrazione del valore di scambio, che, spinta alle estreme conseguenze, si esprime nel denaro, è in questo sistema lo scopo e la misura di tutto. La legge del valore genera tre caratteristiche ben precise del modo di produzione capitalistico, che cozzano frontalmente con l’esigenza di regolare razionalmente e in maniera non nociva per chi verrà dopo di noi gli scambi fra esseri umani e ambiente: “[…] la produzione per il profitto, la tendenza all’accumulazione e la concorrenza tra capitali (che si manifesta anche nella rivalità fra Stati)”. Il capitalismo non è nemmeno concepibile senza una rincorsa continua all’accumulazione e alla sovrapproduzione di merci, ed è precisamente questa sua caratteristica a renderlo un nemico giurato dell’ecosistema: la rincorsa del profitto grazie alla tecnologia implica inevitabilmente quantità sempre crescenti di merci, che si mettono in circolazione alla ricerca di una domanda solvibile. Certo, il progresso tecnologico può, in una certa misura, portare ad una riduzione della quantità di energia e materia necessarie a produrre una data unità di Pil (cioè ad una diminuzione dell’“intensità energetica” del sistema), ma questa diminuzione viene presto compensata dall’aumento del volume della produzione. Nel campo del consumo, si parla di un “effetto rimbalzo”: le lampadine a risparmio energetico consumano di meno, ma proprio per questo vengono tenute accese più a lungo, aumentando così il consumo complessivo di energia. Tuttavia, sostiene giustamente Tanuro, il fenomeno ha la sua origine nel campo della produzione. L’unico modo che il sistema ha per ridurre, di tanto in tanto, la pressione che esercita sull’ambiente sono le sue periodiche crisi di sovrapproduzione. Ma queste, com’è ben noto, comportano miseria sociale, sperpero di ricchezze e aumento delle disuguaglianze. Alla legge del valore non sfuggono neanche le tecnologie verdi (incluse le energie rinnovabili) e i tanti stratagemmi messi in opera dalla comunità internazionale, nel quadro del protocollo di Kyoto, per contrastare il riscaldamento climatico senza uscire da una logica capitalistica e di mercato, ovvero per ottenere un’impossibile quadratura del cerchio. L’effetto fotovoltaico è stato scoperto dal fisico francese Edmond Becquerel nel 1839, eppure lo sviluppo di questa tecnologia è pesantemente in ritardo rispetto a quelle che ne sarebbero le potenzialità. Bruciare carbone, gas naturale e petrolio costa molto meno, mentre il nucleare risulta favorito perché ha un interesse anche militare. Inoltre i combustibili fossili e l’uranio costituiscono un’energia di stock, della quale gli investitori possono impossessarsi costituendo un monopolio e quindi una sorta di rendita. Il sole, al contrario, è diffuso su tutta la superficie terrestre. Quanto al mercato delle emissioni e a simili stratagemmi, non è possibile, in questa sede, seguire nel dettaglio l’analisi che l’autore fa della loro totale inefficacia sul piano del loro fine dichiarato, ovvero quello di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera; basterà dire che essa è strettamente connessa al predominio del fattore quantitativo (il valore) su quello qualitativo: il mercato delle emissioni, proprio perché è un mercato, si basa solo su considerazioni quantitative, mentre non tiene nella dovuta considerazione gli elementi qualitativi indispensabili a pilotare la transizione energetica.
Ecosocialismo o barbarie
E allora? Se né la critica dell’ipertrofia dei consumi del mondo sviluppato, né il puro e semplice affidamento alle logiche capitalistiche di mercato costituiscono una risposta adeguata alla crisi ecologica e al problema del riscaldamento climatico, sorge spontanea la domanda: che fare? Come evitare di “sprofondare nell’abisso”, secondo le parole usate dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon? La risposta è abbastanza semplice, purché la si voglia ascoltare. Se l’iperconsumo è dovuto a iperproduzione, e se quest’ultima è a sua volta intimamente connessa con le leggi capitalistiche del profitto e dell’accumulazione, ne consegue che sono quelle leggi a dover essere messe in discussione. Si tratta cioè di sottrarre la sfera della produzione e del consumo alla legge del valore, cosa che necessita la chiamata in causa dell’idea di una trasformazione socialista della società. Marx, sostiene Tanuro, è molto più “eco” di quanto non pensi la maggior parte dei marxisti. La nozione chiave per dare una risposta efficace ai problemi ambientali è quella di “metabolismo sociale”, cioè di “regolazione razionale degli scambi uomo/natura”, espressa con estrema chiarezza dal filosofo di Treviri nel terzo libro del Capitale. Nel quadro di una discussione del problema dell’impoverimento dei suoli determinato dall’urbanizzazione capitalistica, Marx arriva, in linea con le teorizzazioni ambientaliste più avanzate di oggi, a porre il problema generale dello scambio di materia fra il genere umano e l’ambiente: “La libertà […] può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa” [2]. Nel passo appena citato, per “libertà” Marx intende la possibilità che l’essere umano ha di affrancarsi dal lavoro materiale. Questa viene esplicitamente condizionata alla “regolazione razionale” degli scambi fra l’uomo stesso e la natura. “Razionale”, per Marx, e anche per noi, ha qui evidentemente il doppio significato di “in linea con i progressi della scienza e della tecnica” e di “assennato”, “ragionevole”, tale cioè da non pregiudicare il futuro della natura stessa né quello, in essa, dell’essere umano. Tutto ciò, sembra chiaramente alludere all’idea, propria dell’ambientalismo più serio e consapevole, che il progresso tecnologico non è qualcosa da incensare o da demonizzare a seconda dei casi, ma semplicemente da svincolare dalla legge del valore, per metterlo al servizio dello sviluppo (che non è sinonimo di crescita economica) del genere umano nel rispetto dei limiti naturali. È senz’altro un grande merito dei teorici della decrescita quello di aver evidenziato tali limiti, contro l’idea, espressa a suo tempo da George Bush Jr. e condivisa per ovvi motivi dall’establishment economico e finanziario globale, secondo cui “la crescita non è la causa dei problemi ambientali, essa ne è la soluzione”. Ma il problema non può essere risolto se, dal lato del consumo, non ci si sposta a considerare quello della produzione, optando per una coerente visione anticapitalista. Attenzione, però. La consapevolezza ecologica di Marx compare solo qua e là (sia pure in maniera molto chiara) nelle sue opere, e si accompagna ad un’altra visione, ad essa antitetica, di tipo più “produttivistico”. Questa entra in gioco se, dal problema dei suoli e dell’agricoltura, ci si sposta ad osservare il modo in cui Marx considera le fonti energetiche, omettendo cioè di fare una distinzione fra quelle di stock (ad es. il carbone) e quelle di flusso (ad es. il legno). Le prime sono esauribili, le seconde no. In sostanza, accanto ad uno schema ciclico evolutivo (quello, molto moderno, che Marx mostra di preferire quando considera la questione dei suoli) sembra coesistere uno schema lineare (risorsa>utilizzo>rifiuto) che è poi quello dell’economia classica. La questione energetica, secondo Tanuro, costituisce un vero e proprio “cavallo di Troia” nell’ecologia di Marx, ed è alla base del produttivismo e dell’ottimismo tecnologico dei marxismi, che infatti sono stati colti impreparati dall’esplodere del problema ambientale oramai quarant’anni fa. In buona sostanza, l’alternativa socialista è l’unica possibile, ma va esplicitamente ridefinita in senso ecologico. Provocatoriamente, Tanuro sostiene che non si tratta di “comprendere l’ecologia nel socialismo, ma di integrare il socialismo all’ecologia”. In termini marxisti, ciò significa che, oltre all’ostacolo del profitto, c’è da rimuovere anche quello dell’accumulazione, ovvero della tendenza del sistema alla crescita economica illimitata e al crescente consumo di risorse. Per venire definitivamente alle prese con la crisi ecologica, non è sufficiente sottrarre l’economia e la produzione alla dittatura del profitto: bisogna anche rivedere tutta una serie di consumi, collettivi e individuali, per diminuire considerevolmente la quantità di energia necessaria a far marciare il sistema. Ciò è particolarmente evidente nel caso del riscaldamento globale, e l’autore lo dimostra con dovizia di argomentazioni tecniche. Da questo punto di vista, i sostenitori della decrescita hanno tutte le ragioni, pur non rendendosi conto che i problemi da loro posti sono risolvibili solo in una prospettiva socialista e anticapitalista. Inutile dire che, quando Tanuro delinea tale prospettiva, non ha in mente l’esperienza storica dello stalinismo, che anzi critica aspramente da un punto di vista politico, economico e ambientale, ma quella, tutta da costruire, di una forma di organizzazione umana che individui nei “produttori associati”, ovvero nell’economia pianificata in stretto rapporto dialettico con il controllo operaio della produzione, i “regolatori razionali” della società e della natura che verrà.

18 commenti:

  1. << Per venire definitivamente alle prese con la crisi ecologica, non è sufficiente sottrarre l’economia e la produzione alla dittatura del profitto >>

    Io aggiungerei "del profitto IMMEDIATO", perchè il problema principale, a mio avviso, è quello delle prospettive temporali dell'attività economica.
    Il punto, infatti, non sta tanto nel fare o non fare profitti, ma nell'evitare che, mentre si fanno i profitti, si finisca per segare il ramo su cui si è seduti.
    Può essere difficile organizzare un'attività economica efficiente e di lungo respiro, ma non credo che sia impossibile.

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    1. Osservi... Come fare profitto è legato all'accumulo...

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  2. Nel suo "La fine del capitalismo" Emanuele Severino argomenta che la sua fine è inevitabile in quanto il capitalismo deve investire sempre più risorse (profitti) per ridurre l'impatto ambientale della produzione. Fino al punto che il profitto si riduce a zero o pressapoco. A quel punto il capitalismo - la cui essenza e ragione di essere è il profitto, non il miglioramento delle condizioni di vita della gente, non essendo un organo di beneficenza - è superato o si estingue. Che cosa resta o cosa seguirà al capitalismo? Difficile ipotizzare la rinascita del socialismo o del comunismo viste le esperienze passate e la quasi universale avversione a questi sistemi. Però qualcosa di simile, a cui daremo un nome nuovo, è ipotizzabile. Se la produzione per la produzione ovvero per il profitto e l'inevitabile sovrapproduzione cesseranno - non tanto per il rinsavimento dei produttori quanto per gli ostacoli naturali (cambiamenti climatici, catastrofi, esaurimento del petrolio o di altre materie prime) e il calo del saggio d'interesse fin quasi allo zero - avremo una società stazionaria che avrà come obiettivo la sopravvivenza e anche un miglioramento delle condizioni di vita (sviluppo, non crescita) compatibile con l'ecosistema. La competizione si ridurrà a favore della cooperazione e a livello planetario. La parola può non piacere ma avremo una sorta di socialismo, sempre meglio della guerra totale di tutti contro tutti. Ma perché il socialismo ci fa schifo? Per gli esiti non esaltanti dei movimenti socialisti di circa un secolo e mezzo e anche perché molti di noi preferiscono la libertà al comunitarismo, alla giustizia (che non è nemmeno ben definibile). Del resto anche in una società stazionaria qualche forma di concorrenza - ma a bassa intensità - sopravvivrà, come pure lo spirito d'iniziativa che potrebbe essere anche incentivato (l'intelligenza serve a tutti!). Difficile immaginare o augurarsi una "società di eguali" in cui a nessuno sia permesso di avere più degli altri o in cui ogni iniziativa debba avere il bollo dell'intera comunità per essere avviata. Tuttavia nel formicaio prossimo venturo gli spazi si restringeranno inevitabilmente ed è impossibile immaginare dieci miliardi di piccoli imprenditori.
    È mai esistita un'età dell'oro come immaginavano i poeti fin dall'antichità? Probabilmente no, ci saranno stati periodi più o meno propizi alla nostra specie, e certamente alcune società, gruppi e individui avranno avuto una vita decente o persino felice (ma per i più la terra sarà stata la valle di lacrime). Ma forse l'età dell'oro è davanti a noi se non ci suicidiamo. La tecnica ha già alleggerito di molto per tanti il peso dell'esistenza ed Emanuele Severino oltre la fine del capitalismo vede nel nostro futuro anche il "paradiso della tecnica" che migliorerà la vita di tutti(grazie anche alle centrali nucleari auspicate da agobit, Zichichi e papa Francesco o il Vaticano). Spero che agobit non si offenda per essere citato con questi personaggi. Il Vaticano auspica le centrali perché ha capito che senza energia a sufficienza miliardi e miliardi di esseri umani non ce la possono fare. E visto che di controllo delle nascite non vuole tuttora sentire parlare (perché significherebbe sganciare la sessualità dalla procreazione), vai con l'energia nucleare.
    Lenin puntava sul comunismo e l'elettricità, papa Francesco sulla misericordia e il nucleare.

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  3. Caro Sergio mi risulta nuova questa posizione del vaticano sul nucleare. Non mi sembra neanche che il papa vi accenni sul recente documento pro-ecologia del vaticano. Tu sai di qualche documento ufficiale o dichiarazione?

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    1. Le dichiarazioni del papa sono un po' come quelle di Renzi: propaganda opportunista in libertà. Vale la pena prenderle in seria considerazione o sottoporle a "derisione preventiva"? Io opto per la seconda opzione, giusto perché non mi è possibile praticare opzioni più radicali.

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    2. No, di dichiarazioni o documenti ufficiali non so, né credo ne esistano. Ma ricordo benissimo dichiarazioni pro nucleare di qualche esponente della gerarchia vaticana, non proprio del papa che deve tenere per forza un profilo basso sulla questione, anzi tacere, se no apriti cielo. Ma quella dichiarazione mi parve assolutamente in sintonia con l'ideologia vaticana tuttora ferma al crescete e moltiplicatevi. Per dar da mangiare a un'umanità in crescita demografica esponenziale ci vuole per forza energia - e su questo sei d'accordo anche tu.
      Papa Francesco sta indubbiamente innovando, fin dal nome che si è dato (perché non chiamarsi Ignazio I, non mi risulta che ci sia un papa con questo nome - ma forse sarebbe stata una mancanza di rispetto verso il fondatore del suo ordine, come nessun pontefice finora ha avuto l'ardire di chiamarsi Pietro). Sta innovando al punto che sta distruggendo quel che restava ancora di cristianesimo o cattolicesimo (Socci e anche Susanna Tamaro sono esterrefatti): non si parla più di fede, di inferno e paradiso, a parte qualche vago accenno alla Madonna e a Gesù. Dice persino che non è giusto fare proselitismo: sconfessa dunque la bimillenaria opera di proselitismo e anche la missione cattolica in parte benemerita. Pure sul sesso sta tentando d'innovare, presto avremo il matrimonio gay in chiesa di questo passo (vedrete, vedrete). A questo punto tanto vale benedire anche la contraccezione. Ma ci sono ancora forze contrarie, gli ultimi mohicani cattolici non ci stanno. È un papa bonario e pasticcione - a meno che non operi in combutta coi poteri occulti che vogliono l'omologazione mondiale. Pazzesca l'affermazione di Bagnasco di pochi giorni fa: "L'Europa apra le porte, non si possono fermare i popoli in marcia." L'alleanza delle fedi è ormai l'ultima carta della Chiesa cattolica per ripristinare il rispetto per i suoi dogmi. Ha tuonato per il p... d... in televisione e per la nuova vignetta di Charlie Hebdo.

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  4. @Lorenzo
    Da liberale sono stato anti-marxista e a-marxista fino a poco fa. Ma il pianeta sta precipitando a velocità sempre più forte verso l'abisso. Ora ascolto tutti...

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    1. In realta' state facendo, qui dentro, nei blog ecologisti-catastrofisti, lo stesso identico errore che ha fatto collassare l'unione sovietica: voler maniacalmente programmare e pianificare tutto basandosi, necessariamente, su dati approssimativi, inesatti, e sicuramente sbagliati quando estrapolati troppo nel futuro.
      Oltretutto, si da' corda e si fornisconio pretesti ai burocrati e ingegneri sociali che cosi' approntano, con la scusa dell'"ambiente", la societa'-termitaio da incubo ancora prima che si presenti la sua eventuale necessita', la quale a mio parere finira' per provocare davvero, per isteria sopravvenuta, i danni che dovrebbe parare, se non di piu'.
      Secondo me, siamo di fronte ad una manìa collettiva, per mancanza di cose serie a cui pensare. In questo Lorenzo non ha torto.

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  5. 1 - cos'e' la "legge del valore"? Queste disquisizioni caotiche partono tutte da un presupposto nascosto: di averne in tasca la definizione assoluta, che e' la propria, e neppure espressa esplicitamente. In realta' non esiste una definizione condivisa di valore, cosi' come non esiste una generazione che non metta in discussione la definizione di valore che si trova ad aver ereditato (ognuno ha il suo lungo respiro, Lumen, ed e' originale e diverso da quello altrui, se non altro per il bisogno di identificazione, che passa necessariamente attraverso la differenza - pretendere di determinare il futuro ben oltre la propria morte e' di un velleitarismo e di una arroganza smisurata, imho).

    2 - e' da un bel pezzo che il sovraconsumo viene imposto per legge, e viene imposto molto di piu' dalle lobby dei fornitori di "servizi", anche "ecologici", cioe' di "valore lavoro" puro, che non dall'esigenza del capitale (cos'altro e' la spesa pubblica? puo' deciderla il singolo contribuente che paga? NO, deve pagare e basta. E' lui che sovraconsuma? No, e' chi gli fornisce i servizi che glieli IMPONE a pagamento, al prezzo che decide lui, con la forza quando la persuasione mediatica non basta - e questi fornitori coatti oggi come oggi sono proprio le vestali dell'ambiente).

    3 - la "sovrapproduzione" ha senso nei sistemi di mercato, che sono quelli dove e' il consumatore che comanda e se una cosa non gli serve (= la giudica di valore scarso o nullo) non la prende, NON la consuma. E' invece nei sistemi dove a comandare e' il lavoro, cioe' il produttore, cioe' quelli di derivazione marxista, dove l'opinione del consumatore non conta un cazzo: deve consumare cio' che gli viene fornito, pagare e stare zitto.

    4 - che il mondo sia alle soglie di una crisi ecologica eccetera e' solo un'ipotesi, peraltro contraddetta dalle osservazioni sperimentali, dato che, adesso, il mondo non e' mai stato cosi' bene (le emozioni e intenzioni che sono attribuite alla natura sono solo proiezioni umane, troppo umane, la natura e' una immensa arena dove vige la legge del piu' adatto, e dove tutto muore e si trasforma. L'ossessione dell'omeostasi da mantenere ad ogni costo e' dell'organismo singolo, e dell'uomo in particolare nella sua immensa arroganza, nel suo porsi al di sopra e al di fuori della natura, quando invece non puo' che farne parte, anche quando sgancia l'atomica).

    Secondo me quindi si tratta di mistificazione, schermata da ragionamenti fumosi.

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  6. Per essere davvero credibile ed efficace, (anche) l'Ecosocialismo delineato nel post sulla base del libro di Tanuro dovrebbe esaminare e stigmatizzare anche il fenomeno della 'sovrappopolazione', questione (purtroppo) generalmente tabù (anche) a sinistra sin dai tempi delle fuorvianti critiche rivolte da Marx a Malthus...

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  7. Winston utilizza la critica (fondamentalmente giusta) che Hayek ha condotto contro il marxismo. Il marxismo come tutti i sistemi ideologici rigidi a priori è accusato di voler programmare e pianificare partendo da una posizione data, senza considerare le dinamiche complesse che governano una società le quali conducono in genere ad esiti imprevedibili e sovvertono ogni programmazione. Anche il concetto di valore elaborato da Marx come quantità di lavoro immagazzinato nella merce è un concetto ottocentesco, troppo semplificato. Tuttavia anche Marx nonostante i suoi errori, presenta una critica alla società di mercato che, riportata all'oggi, ci fornisce utili concetti per operare. Non solo per quel che riguarda la sovrapproduzione. Basti pensare al concetto di ruolo dello Stato nel regolare la produzione, la critica sui bisogni indotti dalla pubblicità e dal mercato ripresa da alcuni epigoni come Marcuse. Il concetto di accumulazione crescente del capitale. E le preveggenti tesi sul consumo delle risorse e la crisi ambientale del giovane Marx. Gli e conomisti e i filosofi del libero mercato, compreso Hayek, avevano giustamente individuato nel capitalismo e nel libero mercato il più efficace motore di sviluppo economico di una società, quello che assicurava il maggior grado di benessere, di libertà e di mobilità sociale. Inoltre, e qui secondo me sta il punto centrale che ha determinato poi il crollo del socialismo, una economia libera è l'unica che può supportare una libertà politica. Tuttavia i liberali non erano riusciti ad elaborare il concetto di limite. Tutto il capitalismo si basa su un Pil in crescita perenne. Se crolla la metafisica del Pil in crescita, crolla il nocciolo del capitalismo. Nessun economista liberale aveva introdotto l'ambiente in cui si opera: il capitalismo e il mercato non agiscono su un substrato infinito ma su un pianeta limitato. Finche la popolazione mondiale è stata di uno-due miliardi il sistema ha funzionato. Arrivati ai sette miliardi ed oltre il sistema distrugge il pianeta e se stesso. Che il mondo alle soglie di una crisi ecologica sia solo una ipotesi è una tesi nuova anche per te caro Winston. Non te l'avevo mai sentito dire. Mi sembra che tu confondi le ipotesi olistiche di Gaia, più o meno condivisibili, con fenomeni ben più reali e concreti che hanno persino costretto più di centosessanta governanti a riunirsi a parigi recentemente. Basta poco per convincersi che non sono ipotesi. Basta dare un'occhiata alle foto satellitari dei poli, o farsi un giretto a pechino o a new deli o girare per la periferia di una città italiana o visitare una discarica o valutare la deforestazione, o assistere ai disastri ambientali marini ecc. ecc.

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    1. "Nessun economista liberale aveva introdotto l'ambiente in cui si opera"

      Nell'economia classica i tre fattori di produzione sono il capitale, la terra e il lavoro, dove per terra si intendono le risorse naturali, che dei tre fattori sono quello con piu' limiti oggettivi, dato che sono "finite" per definizione.

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    2. Il capitalismo funziona benissimo anche con i "beni immateriali", che sono infiniti. Il problema, secondo me, e' semmai che una societa' che estende troppo il concetto di proprieta' privata ai beni immateriali (software, arte, expertise professionale), non puo' che diventare una societa' orwelliana.

      Oltre alla burocrazia dell'expertise professionale, il prossimo problema, di cui non ci rendiamo conto, perche' viene fatta la legge ma non viene applicata seriamente nei primi anni per non suscitare rigetto immediato nella popolazione, e' questo: nel nostro paese si dovrebbe andare in galera per 3 anni per la copia illecita di un dischetto. Non appena si spostera' sempre piu' PIL (e lo sta gia' facendo) ai beni immateriali, man mano che sempre piu' interessi si coalizzeranno attorno ad esso, l'esito sara' fatalmente quello, o qualcosa di forse peggiore e al momento imprevedibile.

      Che il "sofware" sia importante peraltro l'avevano capito paradossalmente molto in anticipo nei paesi materialistico-marxisti, smentendo peraltro smaccatamente la loro stessa dottrina, quelli dove si faceva l'ispezione vaginale alle donne per sequestrare eventuale stampa "reazionaria" (il corriere della sera rientrava nel novero).

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    3. Ve le ricordate le "quote latte"? Il ministro che le controfirmo' in europa, nei lontani anni '80, quando torno' in patria disse agli allevatori di non preoccuparsi, che era solo un proforma e che di eventuali multe si sarebbe fatto carico il governo. Poi cambio' il governo, arrivo' la crisi fiscale, e il resto lo saprete (a dire il vero io non mi ricordo, dell'intera mia vita, un anno in cui il nostro paese non sia stato ritenuto in crisi fiscale: solo la presunta evasione e' sempre andata, secondo la propaganda governativa, a gonfissime vele).

      Si parla da decenni di crisi, salvo poi correggere continuamente dicendo che non era quella di prima la vera crisi, e' quella di adesso. Da almeno 50 anni...

      Ma quelli ancora piu' evoluti dicono che, pur essendo la crisi in atto gia' da oggi, domani sara' ancora peggio, cosi' da far trangugiare, seminando paura, qualsiasi provvedimento legislativo che ha il principale scopo, secondo me, di rendere la crisi cronica. Un popolo impaurito lo si governa meglio.

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  9. Difficile trovare un'alternativa al lavoro per definire l'unità di misura del valore che abbia una dignità ontologica in campo antropologico. Ciò è vero nonostante tale dato di base della sopravvivenza umana sia ricoperto da strati spessi di tarocchi finanziari e politiche schiavistiche che passano sotto il nome di libero mercato.

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    1. Non credo: il lavoro puo' benissimo essere inutile, non avere nessun valore, o addirittura essere dannoso: l'ultimo caso e' cio' di cui ci si lamenta continuamente qua dentro, fra l'altro. Ed e' pure vera la controprova, esistono cose di grande valore che non richiedono alcun lavoro (vedi il terreno edificabile nel paese dei divieti), o ne richiedono pochissimo, o di grande abilita' che solo pochissimi possiedono. Il valore-lavoro si puo' imporre con la forza, ma non lamentiamoci poi se ci vengono imposte al consumo e fatte pagare care o carissime cose che per noi non valgono un c.

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    2. Peraltro, mi pare che associare il valore al lavoro sia quanto di piu' antiecologico: se non sbaglio, equivale a togliere alcun valore a cio' che non e' prima manipolato dall'uomo. Insomma, mi pare a tutti gli effetti un'idiozia che ha senso solo solo nell'ambito politico della redistribuzione del... "valore". Fra l'altro e' una definizione circolare spezzata: se definiamo in termini di lavoro, come definiamo poi il valore del lavoro? In termini di altro lavoro? Ma se rapportiamo i lavori uno all'altro in termini di valore torniamo al problema di partenza, che il lavoro non e' di per se' utile, e anzi abbiamo visto, coi problemi ecologici che ne possono conseguire, che puo' essere sommamente dannoso. La definizione marxista, onestamente, mi pare un non sequitur, che tanto successo ha avuto solo perche' sfruttabile politicamente, e conseguente peraltro alla rivoluzione borghese, non a quella, agognata, proletaria: e' con il sorgere della borghesia che il "lavoro" viene visto come un valore in se', per cui chi piu' lavora, piu' si agita, piu' risparmia, piu' produce ma meno consuma, piu' vale: prima mai furono cosi' balordi. E' un concetto del tutto borghese, non proletario, che basa il suo successo nell'ipotesi che basti superare in qualcosa il proprio vicino, per stare bene: l'importante appunto e' il successo nel superare continuamente qualche limite prefissato, mettere l'asticella sempre un po' piu' in alto (o piu' in basso, vedere il pm10).

      La critica a questi concetti secondo me dovrebbe andare ben oltre la critica del capitalismo, e quindi smettere di riferirsi a vecchi arnesi della contestazione che si riferiscono ad un mondo che non esiste piu', ammesso che sia mai esistito in quella forma.

      A parte il fatto che ci sono definizioni di capitalismo come quella di Thornstein Veblen, che mi sembrano molto piu' appropriate alla situazione contemporanea di quelle ancora riferite al padronato delle ferriere, che peraltro oggi come oggi e' sempre piu' spesso privilegio statale, oppure di gruppi di potere fornitori di servizi coatti (vedi la burocrazia sempre piu' demenziale e soffocante, anche di origine ecologica) che con gli interessi dello Stato si confondono:

      Thorstein Veblen (definizione di capitalismo, da wikipedia).

      Un diverso punto di vista, o se si vuole una diversa definizione di capitalismo, la abbiamo in Thorstein Veblen, un economista statunitense del New Deal della scuola istituzionalista. Veblen è uno dei pochi che fornisce una definizione esplicita di "capitale", e dunque implicitamente di "capitalismo". Per Veblen il capitale non ha necessariamente una manifestazione monetaria: esso consiste nelle conoscenze, nei saperi, nelle tecniche, nei metodi di produzione, di una determinata società. In ogni società determinati gruppi sociali si appropriano di questo "capitale" sociale per il proprio tornaconto particolare (prestigio, potere, non necessariamente reddito o danaro) con i più svariati mezzi. Per Veblen, dunque, ogni società è in questo senso "capitalista". La sua definizione non coincide affatto con quella di Marx, e non lo si può dunque definire correttamente un "marxista" (come talvolta si è invece erroneamente fatto); semmai, la sua è una generalizzazione della nozione di Capitale in Marx, che ne sarebbe solo una specifica determinazione legata ad uno specifico momento storico.

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