Chi non ha letto gli Otto peccati capitali? Se c'è ancora qualcuno che non ha letto quel libretto così piccolo (come numero di pagine) eppure così grande per il messaggio che contiene, deve farlo al più presto. La sua capacità di analisi e previsione di ciò che sarebbe accaduto e che sta accadendo sotto i nostri occhi è strabiliante. Consideriamo che fu scritto nel 1973, quando la popolazione umana del pianeta era la metà di oggi. Capitoli come "La sovrappopolazione (il secondo), come la devastazione dello spazio vitale (il terzo), l'estinguersi dei sentimenti (il quinto), ebbero un impatto sconvolgente su lettori che non avevano ancora la minima idea di ciò che era la crisi ambientale determinata dalla pressione antropica che si andava delineando. Lorenz aveva dedotto queste verità dallo studio, fatto con amore e precisione scientifica, del comportamento degli animali in base alle situazioni ambientali diverse e alla influenza della densità di popolazione in un dato territorio. Il grande etologo rimane un Maestro per tutti i veri ambientalisti, ingiustamente e colpevolmente dimenticato dai falsi ecologisti che vogliono propagandare, dietro lo schermo di un ecologismo basato su pregiudizi ideologici, i diritti assoluti di Homo su tutta la natura. Riporto, da un intervento su questo blog pubblicato nel 2011, una sintesi di alcune pagine del secondo capitolo degli "Otto peccati capitali".
LA SOVRAPPOPOLAZIONE
Tutti i vantaggi che l'uomo ha ricavato da una conoscenza sempre più approfondita della natura che lo circonda, i progressi della tecnologia, delle scienze chimiche e mediche, tutto ciò che sembrerebbe destinato a lenire le sofferenze umane, tende invece, per terribile paradosso, a favorire la rovina dell'umanità. Questa, infatti, minaccia di soccombere a un destino altrimenti quasi sconosciuto ai sistemi viventi: l'autosoffocazione. Ma la cosa più terribile di questo processo apocalittico è che, con tutta probabilità, le prime a essere travolte saranno proprio le più elevate e le più nobili qualità e attitudini dell'individuo, proprio quelle che giustamente consideriamo e apprezziamo come specificamente umane.
Nessuno di noi, che viviamo in paesi civilizzati densamente popolati, o addirittura nelle grandi città, è ormai più consapevole della nostra carenza generale di affetto e di calore umano. Bisogna avere fatto una volta l'esperienza di arrivare all'improvviso, ospite inatteso, in una casa situata in una regione poco popolata, dove i vicini siano separati da molti chilometri di strade disagiate, per riuscire a valutare quanto ospitale e generoso possa essere l'uomo quando la sua disponibilità ai contatti sociali non viene sottoposta di continuo a eccessive sollecitazioni. Me ne sono reso conto tempo fa, grazie ad un episodio che non ho più potuto dimenticare: avevo ospiti presso di me due coniugi americani del Wisconsin, che si occupavano di protezione della natura e abitavano in una casa completamente isolata nel bosco. Mentre stavamo andando a tavola per cena, suonò il campanello della porta di casa e io esclamai infastidito: "Chi è che viene a disturbarci a quest'ora?". Se avessi pronunciato la peggiore sequela di insulti i miei ospiti non ne sarebbero rimasti meno sbalorditi. Che il suono del campanello potesse suscitare una reazione che non fosse di gioia, era per loro scandaloso.
E' in larga misura colpa dell'affollarsi di grandi masse nelle metropoli moderne se, nel caleidoscopio di immagini umane che mutano e si sovrappongono e si cancellano a vicenda, non riusciamo più a riconoscere il volto del nostro prossimo. L'amore per il prossimo, per un prossimo troppo numeroso e troppo vicino, si diluisce sino a svanire senza lasciare più traccia. Chi desideri ancora coltivare sentimenti di calore e cordialità per gli altri deve concentrarli su di un esiguo numero di amici; noi non siamo, infatti, capaci di amare tutti gli uomini, per quanto ciò possa corrispondere a una norma giusta e morale. Siamo quindi costretti ad operare delle scelte, dobbiamo cioè 'tenere a distanza' in senso affettivo, molte altre persone che sarebbero altrettanto degne della nostra amicizia. L'atteggiamento del not to get emotionally involved (non lasciarsi coinvolgere emotivamente) costituisce una delle preoccupazioni primarie per molti abitanti dei grandi centri urbani. Questa posizione, entro certi limiti inevitabile per ciascuno di noi, è però viziata da una componente di disumanità; essa ci richiama infatti alla mente il comportamento degli antichi proprietari di piantagione americani che trattavano molto umanamente i loro negri 'di casa' mentre gli schiavi delle loro piantagioni venivano considerati, nella migliore delle ipotesi poco più che animali domestici di un certo valore. Questo schermo deliberatamente interposto per impedire i contatti umani, sommandosi con il generale appiattimento dei sentimenti di cui tratteremo in seguito, finisce per condurre a quelle spaventose manifestazioni di indifferenza di cui parlano ogni giorno i nostri giornali*. Man mano che aumenta la massificazione delle persone, l'esigenza del not to get involved diviene per il singolo sempre più pressante, al punto che proprio nei grandi centri urbani possono oggi verificarsi episodi di rapine, assassini, violenze in pieno giorno e nelle strade più frequentate senza che alcun 'passante' intervenga.
L'accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto non solo provoca indirettamente, attraverso il progressivo dissolversi e insabbiarsi dei rapporti fra gli uomini, vere e proprie manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo. Molti esperimenti hanno dimostrato che l'aggressività intraspecifica viene incrementata se gli animali sono alloggiati in gran numero nella stessa gabbia. Chi non abbia conosciuto di persona la prigionia in tempo di guerra o analoghe aggregazioni forzate di molti individui, non può valutare a quale livello di meschina irritabilità si possa giungere in tali circostanze. E proprio se uno cerca di controllarsi impegnandosi a dimostrare quotidianamente e in ogni momento un comportamento cortese, cioè amichevole, verso altri uomini che tuttavia non sono amici, la situazione diventa un vero supplizio. La generale scortesia che si osserva in tutti i grandi centri urbani è chiaramente proporzionale alla densità delle masse umane ammucchiate in un dato luogo. Punte massime spaventose vengono raggiunte, ad esempio, nelle grandi stazioni ferroviarie o nel Bus-Terminal di New York.
La sovrappopolazione provoca indirettamente tutti quegli inconvenienti e quei fenomeni di decadenza che saranno l'argomento dei prossimi sette capitoli: la credenza che attraverso un adeguato 'condizionamento' si possa formare un nuovo tipo di individuo immunizzato contro le conseguenze nefaste del sovraffollamento mi sembra rappresentare un'illusione pericolosa.
(Tratto da: KONRAD LORENZ: GLI OTTO PECCATI CAPITALI DELLA NOSTRA CIVILTA', Adelphi, 1974, capitolo II).