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giovedì 3 gennaio 2013

MENO NATALITA’ PER SALVARE LA TERRA



A  firma di Sandro Modeo è apparso su “La Lettura”, inserto letterario del Corriere della Sera, un articolo che –in controcorrente rispetto a tanti articoli del Corrierone nazionale- indica nella eccessiva natalità della specie Homo il principale problema del pianeta, da cui derivano tutti gli altri come l’inquinamento, l’effetto serra, la devastazione del paesaggio e della natura, le megalopoli e la vita stressante dell’uomo contemporaneo.
Modeo ricorda il famoso rapporto del Mit sui «limiti dello sviluppo», uscito nel 1972 e commissionato dal Club di Roma di Aurelio Peccei, manager di Fiat e Olivetti, come uno dei primi documenti che riportano ad una nuova sensibilità verso la salvezza del pianeta minacciato dalla sovrappopolazione umana.
“Una sensibilità assente, al contrario, in tanti «analisti» carismatici come Serge Latouche, che nel suo ultimo libro sulla spremitura del pianeta (Limite, Bollati Boringhieri, pp. 113, € 9) riesce a eludere totalmente — pur citando il rapporto del Mit — la «questione demografica». Con poche eccezioni — come i refrain di Giovanni Sartori —, nessuno allarga il campo visivo dalle «crisi» attuali, economiche, sociali e ambientali, all’impatto della popolazione mondiale: allargamento che invece aiuterebbe a decifrare le cause rimosse e profonde di tante emergenze, materiali e psicologiche."
 L’articolo prosegue riportando i dati e le riflessioni dell’ormai classica “Storia minima della popolazione mondiale” di Massimo Livi Bacci (Il Mulino) –vedi post sul libro in questione in questo blog- che denuncia la spaventosa esplosione demografica in atto sulla Terra nell’ultimo secolo, paragonandola alla lenta crescita nei secoli passati. Decisiva per questa aberrazione è stata la risposta scientifico-tecnologia e bio-medica che ha influenzato  la dialettica tra biologia e ambiente, fuori dagli schemi classici della natura. Già nel neolitico, quando i cacciatori-raccoglitori inventarono l’agricoltura e l’allevamento si ebbe l’ampliamento artificiale del ventaglio alimentare, premessa a ciò che sarebbe accaduto dopo in termini demografici.

Ma lo vediamo bene anche oggi, in una fase che forse non è il semplice prolungamento della transizione industriale, ma un’ulteriore transizione in sé. Da un lato, è evidente come proprio la tecnoscienza e la medicina possano rispondere a crisi di produzione agro-alimentare (con gli Ogm), al bisogno di nuove soluzioni energetiche in rapporto al riscaldamento globale, (con tecnologie sempre più sofisticate) o alle nuove emergenze epidemiologiche (antibiotici di nuova generazione contro batteri più plastici e aggressivi). Dall’altro, i dati impressionanti non solo sulla crescita demografica, ma soprattutto sulla concentrazione urbana (arrivata nel 2010 al 50,5%, il famoso «sorpasso» sulle campagne), spiegano tante accelerazioni-metamorfosi come l’«informatizzazione» postindustriale. Per inciso, la densità urbana — insieme al mismatch, cioè alla «dissonanza» che si crea tra comportamenti adattativi acquisiti al tempo della caccia/raccolta e i contesti attuali — spiega problemi e patologie in modo più profondo, svelandone la genesi remota. Come un’alimentazione ipercalorica (necessaria in un contesto di fuga e predazione) diventa, in una società sazia e sedentaria, fonte potenziale di diabete/infarto, così un cervello «tarato» per interagire in comunità di 100-150 individui, gerarchiche ma molto solidali, ha difficoltà in folte comunità claustrofobiche e alienanti, all’origine sia di disagi lievi come l’impossibilità di gestire troppe amicizie su Facebook, sia di varie psicopatologie ansioso-depressive.”
L’Autore riconosce la necessità assoluta di includere nella pianificazione del futuro la “questione demografica”. Per far questo sono necessarie a volte strategie controintuitive. Il controllo volontario delle nascite (che resta il timone operativo, ma deve scontrarsi con attriti ideologico-religiosi trasversali) può essere infatti perseguito, specie nei paesi in via di sviluppo, soprattutto diminuendo la mortalità infantile, cioè spingendo a una riproduzione “di economia” anziché “di dispendio” (a non fare tanti figli per aumentare la possibilità di sopravvivenza). Un altro pilastro di una strategia denatalista è la diffusione di istruzione e consapevolezza, più importante della ricchezza nell’esercizio del contenimento demografico civilizzato (non più legato a pratiche come l’aborto selettivo sulle femmine). Conclude Modeo che la partita è aperta perché la spinta primordiale a figliare è provvista di una forza di inerzia difficile da combattere. Ma non affrontare subito il problema  ci porterà a scenari che già si prefigurano concretamente nel mondo contemporaneo, scenari sempre più simili a quelli previsti nel rapporto del Mit del 1972.
L’articolo mi sembra interessante perché esprime una presa di coscienza importante anche da parte del Corriere, che finora –con l’eccezione degli articoli di Sartori- ha dato troppo spazio alle posizioni della Chiesa e a quelle iper-nataliste della politica italiana (compresa l’ultima veramente deprimente del premier uscente Monti). La consapevolezza lentamente si fa strada, nonostante le afasie di Latouche e di tanti ambientalisti.

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