In
cinquant’anni è scomparsa una cultura, un paesaggio, un’idea, persino
l’immagine interiore del bel paese, lasciando un ricordo amaro e struggente in
chi visse quel cambiamento drammatico. In cinquant’anni è scomparsa l’Italia
rurale, l’Italia di piccoli paesi, delle cittadine, delle campagne, delle
piccole comunità, dei dialetti, dei mille campanili. Il paese è stato
stravolto sia nell’antropologia che nel paesaggio. Si è persa la varietà delle
popolazioni e dei dialetti (segno di appartenenza e tradizione legata ai luoghi), si è persa un'Italia fondata sull'agricoltura e la campagna. Al verde paesaggio, ricco di prodotti e tradizioni secolari, si
è sostituita una uniforme distesa di case, palazzi, capannoni, tralicci,
strade. Le residue campagne sono per lo più abbandonate, stanno lì quasi per
caso in attesa di una prossima colata di cemento e asfalto. Le città, un tempo
piccole e diverse una dall’altra, ciascuna con le sue peculiarità, ognuna
raccolta intorno ad un centro religioso o al palazzo del potere, costruite nei secoli con pietra locale, sono
divenute uniformi e grigie di cemento, estese alle campagne intorno in una edificazione
piatta, spaventosamente brutta, di pessima qualità, omologata nello squallore.
La gente è cambiata, economicamente in meglio (almeno fino a poco tempo fa) ,
ma appiattita su una vita monotona, in una cultura del consumo fine a se stessa.
Ricordo la straordinaria descrizione di questo cambiamento antropologico,
sociale e ambientale fatta da Pasolini nel testo famoso delle lucciole.
"Nei
primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in
campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge
trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato
fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora
un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un
tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque
non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel “qualcosa” che è accaduto
una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”.
Prima
della scomparsa delle lucciole. La continuità tra fascismo fascista e fascismo
democristiano è completa e assoluta…La democrazia che gli antifascisti
democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi
strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale
gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente
repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per
il fascismo: la Chiesa, la patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina,
l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il
fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e
concrete che costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma
nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che
perdere ogni realtà, e divenire
atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato…
Durante
la scomparsa delle lucciole…sia il grande paese che si stava formando dentro il
paese- sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti
che “le lucciole stavano scomparendo”. Essi erano informati abbastanza bene
dalla sociologia ( che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo
dell’analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza
formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato
l’immediato futuro: né identificare quello che allora si chiamava “benessere”
con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta
pienamente il “genocidio” di cui nel Manifesto parlava Marx.
Dopo
la scomparsa delle lucciole. I "valori”, nazionalizzati e quindi falsificati,
del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più.
Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano
più. E non servono neanche più in quanto falsi. A sostituirli sono i “valori”
di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina
e paleoindustriale… In Italia sta succedendo qualcosa di simile a quello
avvenuto in Germania al tempo di Weimar: e con ancora maggiore violenza, poiché
l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva
anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte,
come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia
umana: di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era
impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico.
Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel Centro-sud) un popolo degenerato,
ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo…Ho
visto dunque con i miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi
ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino ad una
irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo
fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla
coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche:
la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere,
da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come
prima.Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei
potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere
funebri…in realtà essi sono appunto delle maschere…La spiegazione è semplice:
oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Come siamo giunti a
questo vuoto? O meglio, “come ci sono giunti gli uomini di potere”? La
spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono
passati dalla “fase delle lucciole” alla “fase della scomparsa delle lucciole” senza accorgersene. Per
quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su
questo punto è stata assoluta: non hanno sospettato minimamente che il potere,
che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale”
evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura.
Essi
si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale; che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi
che il potere, che essi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più
che farsene del Vaticano quale centro di
vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter
contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori
fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a
detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in
quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di
continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere
dei consumi imponeva ad essa cambiamenti radicali, fino ad accettare il
divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno
fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che
totalitario in quanto violentemente totalizzante). Gli uomini del potere
democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo. Non si
sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta
una forma di civiltà…Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno
più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale
nient’altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia
nella storia il “vuoto” non può sussistere…E’ probabile che il vuoto stia già
riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non
sconvolgere l’intera nazione. Quasi che si trattasse soltanto di “sostituire”
il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trent’anni,
portando l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste “teste di legno” con altre “teste di
legno” (non meno, anzi più funereamente carnevalesche) non servirebbe a niente.
Il potere reale che da una decina di anni le “teste di legno” hanno servito
senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver
riempito il “vuoto”. Di tale
“potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non
sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente
ai servi che lo hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad
ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro:
io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola."
(Pier
Paolo Pasolini, Scritti corsari (1970), Mondadori I Meridiani pag 404 e seg.).
La
lucidità e l’acume visionario di Pasolini è sorprendente: riesce a cogliere
magistralmente il cambiamento culturale e antropologico del popolo italiano, a
percepire la crisi irreversibile della politica e della rappresentanza, della
democrazia stessa in Italia più che in altri paesi europei, forse anticipando
una tendenza generale in occidente
che oggi sta evidenziandosi sempre più con l’espropriazione della
politica tradizionale a vantaggio di nuovi poteri sovranazionali di tipo
finanziario e tecnocratico. Ma in Italia il processo è più doloroso e
distruttivo per la mancanza di classi dirigenti e forme istituzionali di
governo adeguate. Lo scempio del territorio, preda di mafie e speculatori, ne è una tragica conseguenza. Un popolo
si riflette nel paesaggio che abita e quel paesaggio è lo spirito di quel popolo.
La spoliazione brutale del territorio durante gli anni che vanno dal dopoguerra alla fine del secolo e proseguono
fino ad oggi, l’inquinamento generalizzato dell’ambiente, l’esplosione
demografica degli anni 50-70, il fenomeno immigratorio successivo senza regole e caotico, l’illegalità
diffusa, la speculazione, le sanatorie a raffica, l’impunità dei potenti e
degli arroganti, la depredazione del pubblico, la corruzione del privato, tutto
ha concorso ad un degrado e una devastazione di un paese che ha pochi
precedenti e nessun eguale al mondo. Riferendosi a Roma, Antonio Cederna così
descriveva, già alla metà degli anni Cinquanta, il processo di degrado in atto (e poi proseguito per decenni fino ad oggi) in luoghi storici e di grande
bellezza ambientale, che avrebbero dovuto essere protetti e tenuti in ben altro
modo in un paese con un minimo di civiltà:
La
distruzione d’italia è il riflesso di tutti i mali che affliggono il nostro
paese. Rovina chiama rovina, fino a che le rovine particolari e disperse si
saldano in una rovina generale e continua: a parte i casi più clamorosi, è in
atto lo smantellamento metodico, la degradazione costante, a corrosione lenta e
minuta del patrimonio artistico e naturale delle nostre città. Valga per tutti
il caso della via Appia Antica, di cui pochi ancora hanno capito l’esemplare
gravità. Ogni nuova villa tra i ruderi, nata dal gusto cafonesco degli
arricchiti e dalla colpevole incompetenza delle autorità, ha man mano
legittimato l’invasione edilizia di tutta la campagna: le case si addensano in
quartieri, in sudice o sfarzose borgate:vengono tracciate nuove strade,
allargate le esistenti, ogni proprietà viene cintata e chiusa; l’Appia da
regina della campagna diventa un meschino corridoio murato. I monumenti vengono
sgretolati, limati, sfregiati, rapinati dei loro frammenti decorativi, usati
come materiale da costruzione: le selci della pavimentazione vengono strappate,
i marciapiedi demoliti, gli orli erbosi ridotti a terra bruciata; in qualche
anno la via illustre è decaduta più che in tutti i secoli precedenti.L’ambiente
dei ruderi, il panorama, l’orizzonte scompare: una delle meraviglie del mondo è
stata inutilmente, stupidamente, allegramente liquidata. La campagna
meridionale di Roma, che prima entrava fin nel cuore della città (dall’Appia
antica alla Passeggiata Archologica al Celio al Palatino al Foro), e che
costituiva, avanzi antichi a parte, una riserva naturale e salutare di verde,
si è ora trasformata in una squallida, turpe periferia. Basta mascherare le
case con filari di cipressi , dicono gli interessati imbecilli; e intanto
i mercanti di aree ingrassano, le proprietà si frazionano, le lottizzazioni
aumentano, e perfino lo Stato incrementa lo scempio, finanziando decine di
cooperative, autorizzando la costruzione di grossi quartieri: dietro
l’ufficiale spinta dello Stato, si precipitano sull’Appia ordini religiosi,
società immobiliari, speculatori di ogni razza: si costruiscono conventi,
pagode, castelli, piscine; l’ultima parvenza di rispetto crolla, e si progetta
la costruzione di uno stadio olimpico sulle Catacombe. Uno dopo l’altro, se ne
va un tratto della Via, come un castello di carte; nuovi problemi si presentano,
congestione del traffico, necessità di collegamenti, di trasporti, di servizi
pubblici, con nuovo aggravio, disordine e disdoro per le pubbliche
amministrazioni…si addensano nuove borgate, la città dilaga senza soluzione di
continuità, come un’infezione. Scompare il distacco tra città e colli, tutto
diventa una ininterrotta serie di sciatti, lerci sobborghi: una nuova immensa
escrescenza si propaga al sud, con tutti i suoi deleteri effetti sulla città,
conferma dell’anarchica espansione a macchia d’olio, scomparsa di tutte le zone
verdi sotto un’unica colata cementizia, congestione e minaccia di distruzione
del centro storico, sconfitta di ogni impegno di razionale pianificazione, ecc.
Incompetenza di autorità, disordine amministrativo, strapotenza dei più retrivi
interessi economici, viltà di politici, imprevidenza sociale, invadenza
clericale, illegalità, ignoranza corruzione: dalla distruzione di un
meraviglioso complesso antico e naturale derivano all’intera comunità
conseguenze disastrose, nel presente e nell’avvenire. Ma dalla rovina in atto i
vandali e i loro fiancheggiatori
prendono pretesto per perseverare: e qualunque tentativo di arginarla,
restaurando il prestigio tramortito delle leggi, appare un attentato illegale,
sedizioso ed eversivo contro i sacri ed inviolabili diritti della speculazione.
Moltiplichiamo
questo per mille: la situazione in
Italia si avvia a diventare disperata. Abituati a intimidire e corrompere i
vandali si trovano sconcertati di fronte all’inflessibile denuncia: la loro
potenza è fatta di viltà altrui. Abituati a violare, impuniti, la legge e a
spacciare per “esigenze tecniche” la loro avidità, non sanno che fare contro
chi svela pubblicamente i loro raggiri.
(Antonio
Cederna: I Vandali in casa (1955), da Brandelli d’Italia. Newton ).
Oggi si
sente la mancanza di un Antonio Cederna, oggi che la devastazione del paese è
giunta alle estreme conseguenze e continua immutabile.
Di questo
disastro ambientale ed umano, del cinquantennio dei vandali, noi siamo gli
eredi. I tempi sono cambiati ma gli imbecilli sono rimasti gli stessi. Oggi spariscono ogni giorno nel nostro paese centinaia di ettari di prezioso verde rimasto. Tutto continua senza imparare mai niente, senza neanche ammettere con umiltà gli errori, ma
rivendicandoli con protervia (alcuni politici orfani dei “bei tempi” si richiamano
ancora alla Dc come all’età dell’oro e si circondano ancora di palazzinari
incalliti e danarosi). Si continuano a costruire case, doppie case, triple
case, anche fuori da ogni mercato
quasi per forza di inerzia (ed interessi speculativi); si edificano nuovi
centri commerciali di cui nessuno ha bisogno. Ovunque strade, parcheggi, escavazioni, colate di
cemento, muri, capannoni, ponteggi, viadotti, gallerie. Eppure, in questo
brulicare umano, di una umanità afflitta e indaffarata da un fare continuo,
senza senso se non quello del denaro per il denaro, c’è qualcuno che piange
sulla natalità troppo bassa, sui bambini troppo pochi, troppo poca
l’antropizzazione di questa terra. Non basta il
carnaio delle periferie, la solitudine tra l’affollamento, la droga, la
depressione, l’alienazione di un’umanità che perdendo il contatto con la natura
perde il senso della propria vita. Non basta, in questo paese sovraffollato ci voleva,
benvenuto da molti, l’arrivo ogni anno di centinaia di migliaia di immigrati
clandestini che hanno portato in pochi anni, nonostante il calo delle nascite
degli autoctoni, a più di sessanta milioni la popolazione nazionale -solo a contare i regolari. Preti e
demagoghi, politici di tutte le tendenze e di tutte le risme continuano ad
invocare più gente, più consumatori, più consumi, più cemento, più rifiuti, più
merce, più supermercati. Parola d’ordine: cementificare tutto.