Dagli inizi del novecento il Giappone
aveva assorbito molti elementi provenienti dalla cultura occidentale. Ma
fondamentalmente fino allo scoppio della seconda guerra mondiale era rimasto un
paese attaccato alle proprie tradizioni e costumi, pur essendo affascinato
dalle innovazioni scientifiche importate dall’occidente. Poi
Il
mattino del 6 agosto
1945 alle 8.16 la
modernità occidentale
presentò il suo biglietto
da visita sul cielo di Hiroshima con una gigantesca esplosione, la più grande
di tutta la storia dell’umanità fino a quel momento. Qualche secondo prima l’aereo denominato Enola
Gay, un bombardiere B29 dell’aviazione americana, aveva sganciato sul centro della città un ordigno contenente
60 chili di uranio 235, denominato Little Boy. L'esplosione si verificò a 580
metri dal suolo, con uno scoppio equivalente a 13 chilotoni, uccidendo sul
colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone. Circa il 90% degli edifici venne
completamente raso al suolo. Tutti e 51 i templi della città furono rasi al
suolo dalla forza dell'esplosione. Ma non fu quella esplosione, né quella
equivalente di tre giorni dopo su Nagasaki a far scomparire il Giappone e la
sua cultura. Fu la ben più disastrosa potenza della uniformizzazione tecnica
moderna che seguì la guerra a distruggere il vecchio Giappone e a farlo
diventare la squallida copia di tante città moderne occidentali. E’ così che
una grande cultura, ricca di storia e di tradizioni, fu letteralmente spazzata
via nel giro di pochi anni. Il neon e l’elettricità sostituirono le penombre
delle intime case tradizionali giapponesi, fatte di legno e di stuoie, di
pannelli di carta translucida. Il cemento, i grattacieli, l’asfalto, il
bombardamento mediatico, si sostituirono al ritmo lento della vita a contatto
con la natura. La cura degli oggetti, della casa, dell’immagine della donna,
dei piccoli piaceri che danno un senso alla vita, tutto sparì rapidamente,
insieme alle foreste, ai laghi, ai paesaggi tradizionali. Junichiro Tanizaki,
con poesia e commozione, ci descrive tutto questo in un piccolo libro straordinario:
“Libro d’ombra” in cui la scomparsa delle ombre e delle penombre degli interni delle case ad opera delle luci
elettriche sono la metafora della scomparsa di un intero mondo.
“Se di
fronte all’Occidente, avessimo adottato sin dall’inizio un atteggiamento meno
servile, oggi non solo indosseremmo altri abiti, mangeremmo altri cibi,
abiteremmo altre case, ma diverse sarebbero anche la nostra politica, la nostra
religione, la nostra arte, la nostra economia. Tutto sarebbe altro, e
orientale. (pag. 17).
…Incomparabilmente
di più, in quel chiarore dubitoso, risaltava la bellezza del servizio in legno
laccato. Il vano in cui mi trovavo non misurava più di tre metri quadrati; era
un luogo intimo, originariamente concepito per la cerimonia del tè. Neppure le
lampade elettriche riuscivano a cacciare interamente l’ombra da quella saletta
che aveva le colonnine della nicchia
(il "toko no ma") e il legno del soffitto completamente coperti da una
gromma di nerofumo. Ma solo quando spenta ogni altra luce, una tenue fiammella
vacillante si levò, vassoi e ciotole sembrarono avvolti da una vaga aureola.
Per la prima volta scoprivo quel lucore fondo e suggestivo che emana dalla
lacca, e ne fui quasi commosso. Capii perché i nostri antenati, scoperta l’arte
di applicare la lacca al legno, se ne fossero appassionati, al punto da
intenderne ogni sottigliezza… Solo la penombra permette di ammirare la beltà di
una lacca. Benché oggi se ne fabbrichino anche di bianche, i colori
tradizionali delle lacche restano il nero, il marrone, il rosso. Si direbbero tinte per accumulo,
ottenute sovrapponendo molti strati di oscurità, quasi per materializzare le
tenebre circostanti. Un cofanetto,
un tavolo minuscolo, una mensola a muro, tutti quegli oggetti in legno laccato
così spesso decorati con disegni in polvere d’oro o d’argento – i “maki e”-,
possono , se una luce troppo intensa vi cade, offendere gli occhi, e apparire
lampanti, e persino volgari. Ma lasciate che, per qualche tempo, le tenebre li
intridano, e poi esponeteli non agli splendori del sole e dell’elettricità, ma
ai deboli guizzi di un lume a olio o di una candela: subito assumeranno una
fisionomia grave, sobria, nobilmente riflessiva…Chi per primo spalmò oro sulla
placca, non pensava a un ambiente luminoso dove il disegno sarebbe subito
apparso nella sua interezza, ma a una stanza annegata nella penombra, dove le
parti del disegno si stagliassero, e baluginassero ambiguamente, una dopo
l’altra, contro un fondo scuro. Che un disegno così smagliante resti per noi,
in gran parte, nascosto ed enigmatico, ci turba e ci incanta. La superficie
translucida che abbiamo visto sgargiare alla luce, specchia ora il tremolare
precario di una fiammella. Improvvisamente avvertiamo, nella stanza apparentemente così immobile, l’invisibile passaggio dell’aria. Da
pensiero nasce pensiero, ed eccoci immersi nella più profonda delle
fantasticherie…Sulla superficie laccata i disegni d’oro imprigionano filamenti
di luce; altri filamenti scendono, come rivoli, sino al pavimento coperto di
stuoie, e vi formano minuscole pozzanghere luminose. Tutte queste fosforescenze
nottiluche sembrano misteriosamente tessere un arazzo prezioso, e voler
interamente decorare la notte di disegni alla “maki e” (pag. 37 seg.).
V’è,
nella stanza principale delle case giapponesi, una nicchia (il “toko no ma”) in
cui, volta per volta, si usa esporre un quadro, o qualche fiore. Tali oggetti
non mirano tanto a ravvivare l’ambiente, quanto ad aggiungere, al buio, una
dimensione cava. Prima di appendere il quadro, lungamente riflettiamo sul “toko
usuri”, sull’armonia, cioè, fra il quadro stesso e i muri del toko no ma.
Grande importanza ha il passepartout, generalmente di seta; esso può valere
quanto il quadro, o il calligramma. Se il passepartout non si accorda con la
tonalità della nicchia, anche un’opera d’arte insigne perde di pregio, almeno
come oggetto da toko no ma. Invece, un quadro o un calligramma, anche di
qualità mediocre, possono, quando si intonino delicatamente al luogo in cui
sono esposti, trasmettere tutt’intorno un’aura e una nobiltà inattese. Molte
cose contribuiscono a questa trasfigurazione: l’aspetto antico della carta, lo
sbiadimento dell’inchiostro, i tessuti lisi del passepartout…Queste sfumature
della vetustà si armonizzano con le tenebre della nicchia, e con quelle
circostanti (pag. 42).
In
verità non esistono né segreti né misteri: tutto è magia nell’ombra. Se snidassimo l’ombra da ogni cantuccio
del toko no ma, non resterebbe che un vuoto spazio disadorno. Tale beltà il
genio dei nostri avi seppe conferire a una nicchia colma di nulla e di buio,da rendere inutile, e troppo
inferiore, ogni altro ornamento o affresco…Più di ogni altra cosa mi incanta,
tuttavia, la luce opalescente che entra, filtrata dalla carta bianca dello
“shoji”, dalla finestra a fianco della nicchia. Ho spesso sostato, davanti a
quella luminescenza arcana, dimenticando il passare del tempo. In origine, la
finestra detta shoin, o “finestra dell’angolo dello studioso”, era destinata a
rischiarare un luogo per letture appartate; più tardi la si conservò perché
illuminasse, con il suo fioco riverbero, il toko no ma. Ma illuminare è la
parola giusta? La sua vera funzione non è forse quella di filtrare ogni luce
che venga dall’esterno, di soffocarla, di spossarla? V’è qualcosa di trasognato
e doloroso nel debole, smorto riflesso che ne trapela. La luce viva ha dovuto
attraversare ombre di spioventi e verande, prima di raggiungere il suo scialbo
filtro di carta; stremata ora, languente e senza più forza di illuminare, si
limita a disegnare su un fondo buio i vaghi contorni dello shoji. Quante volte,
immobile davanti a una di queste finestre, ho meditato sull’enigma di una luce
senza bagliore! (pag. 46).
Mi sono
sempre chiesto dove possa, l’oro, trovare tanta luce, in luoghi tanto bui.
Davanti
a questi spettacoli, mi par di capire perché i nostri avi rivestissero di
foglie d’oro le statue di Buddha, e le pareti delle case patrizie. Vivendo in
locali chiari, noi moderni ignoriamo la vera bellezza dell’oro. Ma i nostri avi, che trascorrevano gran
parte del loro tempo dentro buie dimore, non solo ne conoscevano la bellezza:
sapevano anche apprezzarne l’utilità. In una casa labilmente illuminata, l’oro
serviva da collettore di luce. Gli antichi usavano foglie, o polvere d’oro, non
solo come simboli di ricchezza, ma anche come sorgenti luminose. Argento e
altri metalli presto si offuscano; la luce dell’oro perdura, e continua a
rischiarare alloggi tenebrosi. Anche da ciò, forse, l’oro ha tratto il suo
pregio (pag. 50).
Come i
legni laccati di nero con disegni in polvere d’oro, o gli oggetti intarsiati di
madreperla, la donna era per i nostri avi un ornamento dell’oscurità. Per
questo la affogavano nell’ombra, la avvolgevano in lunghi kimoni, lasciavano
che solo piccoli lembi di carne
viva pendessero o emergessero da
svasature o imboccature profonde. E’ possibile che, svelato, il corpo piatto e
disarmonico di una giapponese sarebbe apparso privo di grazia, vicino a quello
di un’Occidentale; ma ciò che non si vede presto si oblìa, e quasi non ha
esistenza. Chi vuole toccare con mano la beltà, è condannato a dissolverla e a
rovinarla. Non diversamente, annichilirebbe il toko no ma di una stanza da tè
chi, per vederlo meglio, lo illuminasse con una lampadina elettrica da cento
candele (pag.64).
A
proposito di Ishiyama, mi viene ora in mente che proprio quest’anno, dopo molte
esitazioni, avevo deciso di andare là, per vedere il plenilunio d’autunno. Alla
vigilia della festa lessi sul giornale che, per attirare i turisti, erano stati
disposti, nel bosco intorno al monastero, altoparlanti che avrebbero diffuso la
“Sonata al chiaro di luna” di Beethoven. Bastò questo a fermi rinunciare. Gli
altoparlanti sono un flagello, ma avrei giurato che gli organizzatori non se ne
fossero accontentati; certamente, per rendere più gaia la serata, avevano
illuminato a giorno la pendice selvosa. Già avevo avuto esperienza di un
plenilunio guastato dall’elettricità. Fu la volta che andammo a contemplare la
luna da una barca, sullo stagno del monastero di Suma. Era, con me, una brigata
di amici; portavamo panieri colmi di manicaretti squisiti; quale non fu la
delusione quando, giunti allo stagno, lo scoprimmo pavesato da festoni di
lampadine multicolori! La luna era lassù, e tuttavia si sarebbe detto che non
ci fosse. Ne fummo profondamente amareggiati…
In una
stanza giapponese, l’aria calda si disperde presto e dunque è meno opprimente;
nei locali all’occidentale, invece, tende a stagnare; pavimenti, pareti,
soffitti ne restano impregnati anche molte ore dopo il crepuscolo, e diffondono
una calura intollerabile…Sono di moda, da qualche tempo, edifici di tipo
occidentale, con il soffitto basso. Accade spesso, in questi locali,
specialmente durante l’estate, di avere il cranio bombardato da raggi
incandescenti. Non appena entrati, si avverte la differenza di temperatura fra
la parte del corpo vicina la soffitto, e quelle sottostanti; poi, a poco a
poco, il calore si propaga giù per la nuca e per il midollo spinale, e si ha
l’impressione di arrostire su di una graticola (pag. 82).
Ho
scritto queste pagine perché penso che, almeno in certi ambiti, per esempio in
quello dell’arte, o in quello della letteratura, qualche correzione sia ancora
possibile. Vorrei che non si spegnesse anche il ricordo del mondo d’ombra che
abbiano lasciato alle spalle; mi piacerebbe abbassare le gronde, offuscare i
colori delle pareti, ricacciare nel buio gli oggetti troppo visibili, spogliare
di ogni ornamento superfluo quel palazzo che chiamano Letteratura. Per
cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà (pag. 90).
Brani
tratti da Junichiro Tanizaki : “Libro d’ombra” (1935). Bompiani, 2011
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