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mercoledì 11 luglio 2012

LA OCCIDENTALIZZAZIONE DEL MONDO: LA SCOMPARSA DEL GIAPPONE




Dagli inizi del novecento il Giappone aveva assorbito molti elementi provenienti dalla cultura occidentale. Ma fondamentalmente fino allo scoppio della seconda guerra mondiale era rimasto un paese attaccato alle proprie tradizioni e costumi, pur essendo affascinato dalle innovazioni scientifiche importate dall’occidente. Poi
Il mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16 la modernità occidentale  presentò  il suo biglietto da visita sul cielo di Hiroshima con una gigantesca esplosione, la più grande di tutta la storia dell’umanità fino a quel momento. Qualche secondo prima l’aereo denominato Enola Gay, un bombardiere B29 dell’aviazione americana,  aveva sganciato sul centro della città un ordigno contenente 60 chili di uranio 235, denominato Little Boy. L'esplosione si verificò a 580 metri dal suolo, con uno scoppio equivalente a 13 chilotoni, uccidendo sul colpo tra le 70.000 e le 80.000 persone. Circa il 90% degli edifici venne completamente raso al suolo. Tutti e 51 i templi della città furono rasi al suolo dalla forza dell'esplosione. Ma non fu quella esplosione, né quella equivalente di tre giorni dopo su Nagasaki a far scomparire il Giappone e la sua cultura. Fu la ben più disastrosa potenza della uniformizzazione tecnica moderna che seguì la guerra a distruggere  il vecchio Giappone e a farlo diventare la squallida copia di tante città moderne occidentali. E’ così che una grande cultura, ricca di storia e di tradizioni, fu letteralmente spazzata via nel giro di pochi anni. Il neon e l’elettricità sostituirono le penombre delle intime case tradizionali giapponesi, fatte di legno e di stuoie, di pannelli di carta translucida. Il cemento, i grattacieli, l’asfalto, il bombardamento mediatico, si sostituirono al ritmo lento della vita a contatto con la natura. La cura degli oggetti, della casa, dell’immagine della donna, dei piccoli piaceri che danno un senso alla vita, tutto sparì rapidamente, insieme alle foreste, ai laghi, ai paesaggi tradizionali. Junichiro Tanizaki, con poesia e commozione, ci descrive tutto questo in un piccolo libro straordinario: “Libro d’ombra” in cui la scomparsa delle ombre e delle penombre degli interni delle case ad opera delle luci elettriche sono la metafora della scomparsa di un intero mondo.

“Se di fronte all’Occidente, avessimo adottato sin dall’inizio un atteggiamento meno servile, oggi non solo indosseremmo altri abiti, mangeremmo altri cibi, abiteremmo altre case, ma diverse sarebbero anche la nostra politica, la nostra religione, la nostra arte, la nostra economia. Tutto sarebbe altro, e orientale. (pag. 17).

…Incomparabilmente di più, in quel chiarore dubitoso, risaltava la bellezza del servizio in legno laccato. Il vano in cui mi trovavo non misurava più di tre metri quadrati; era un luogo intimo, originariamente concepito per la cerimonia del tè. Neppure le lampade elettriche riuscivano a cacciare interamente l’ombra da quella saletta che aveva le colonnine della nicchia  (il "toko no ma") e il legno del soffitto completamente coperti da una gromma di nerofumo. Ma solo quando spenta ogni altra luce, una tenue fiammella vacillante si levò, vassoi e ciotole sembrarono avvolti da una vaga aureola. Per la prima volta scoprivo quel lucore fondo e suggestivo che emana dalla lacca, e ne fui quasi commosso. Capii perché i nostri antenati, scoperta l’arte di applicare la lacca al legno, se ne fossero appassionati, al punto da intenderne ogni sottigliezza… Solo la penombra permette di ammirare la beltà di una lacca. Benché oggi se ne fabbrichino anche di bianche, i colori tradizionali delle lacche restano il nero, il marrone, il rosso.  Si direbbero tinte per accumulo, ottenute sovrapponendo molti strati di oscurità, quasi per materializzare le tenebre circostanti.  Un cofanetto, un tavolo minuscolo, una mensola a muro, tutti quegli oggetti in legno laccato così spesso decorati con disegni in polvere d’oro o d’argento – i “maki e”-, possono , se una luce troppo intensa vi cade, offendere gli occhi, e apparire lampanti, e persino volgari. Ma lasciate che, per qualche tempo, le tenebre li intridano, e poi esponeteli non agli splendori del sole e dell’elettricità, ma ai deboli guizzi di un lume a olio o di una candela: subito assumeranno una fisionomia grave, sobria, nobilmente riflessiva…Chi per primo spalmò oro sulla placca, non pensava a un ambiente luminoso dove il disegno sarebbe subito apparso nella sua interezza, ma a una stanza annegata nella penombra, dove le parti del disegno si stagliassero, e baluginassero ambiguamente, una dopo l’altra, contro un fondo scuro. Che un disegno così smagliante resti per noi, in gran parte, nascosto ed enigmatico, ci turba e ci incanta. La superficie translucida che abbiamo visto sgargiare alla luce, specchia ora il tremolare precario di una fiammella. Improvvisamente  avvertiamo, nella stanza apparentemente così immobile,  l’invisibile passaggio dell’aria. Da pensiero nasce pensiero, ed eccoci immersi nella più profonda delle fantasticherie…Sulla superficie laccata i disegni d’oro imprigionano filamenti di luce; altri filamenti scendono, come rivoli, sino al pavimento coperto di stuoie, e vi formano minuscole pozzanghere luminose. Tutte queste fosforescenze nottiluche sembrano misteriosamente tessere un arazzo prezioso, e voler interamente decorare la notte di disegni alla “maki e” (pag. 37 seg.).

V’è, nella stanza principale delle case giapponesi, una nicchia (il “toko no ma”) in cui, volta per volta, si usa esporre un quadro, o qualche fiore. Tali oggetti non mirano tanto a ravvivare l’ambiente, quanto ad aggiungere, al buio, una dimensione cava. Prima di appendere il quadro, lungamente riflettiamo sul “toko usuri”, sull’armonia, cioè, fra il quadro stesso e i muri del toko no ma. Grande importanza ha il passepartout, generalmente di seta; esso può valere quanto il quadro, o il calligramma. Se il passepartout non si accorda con la tonalità della nicchia, anche un’opera d’arte insigne perde di pregio, almeno come oggetto da toko no ma. Invece, un quadro o un calligramma, anche di qualità mediocre, possono, quando si intonino delicatamente al luogo in cui sono esposti, trasmettere tutt’intorno un’aura e una nobiltà inattese. Molte cose contribuiscono a questa trasfigurazione: l’aspetto antico della carta, lo sbiadimento dell’inchiostro, i tessuti lisi del passepartout…Queste sfumature della vetustà si armonizzano con le tenebre della nicchia, e con quelle circostanti (pag. 42).

In verità non esistono né segreti né misteri: tutto è magia nell’ombra.  Se snidassimo l’ombra da ogni cantuccio del toko no ma, non resterebbe che un vuoto spazio disadorno. Tale beltà il genio dei nostri avi seppe conferire a una nicchia  colma di nulla e di buio,da rendere inutile, e troppo inferiore, ogni altro ornamento o affresco…Più di ogni altra cosa mi incanta, tuttavia, la luce opalescente che entra, filtrata dalla carta bianca dello “shoji”, dalla finestra a fianco della nicchia. Ho spesso sostato, davanti a quella luminescenza arcana, dimenticando il passare del tempo. In origine, la finestra detta shoin, o “finestra dell’angolo dello studioso”, era destinata a rischiarare un luogo per letture appartate; più tardi la si conservò perché illuminasse, con il suo fioco riverbero, il toko no ma. Ma illuminare è la parola giusta? La sua vera funzione non è forse quella di filtrare ogni luce che venga dall’esterno, di soffocarla, di spossarla? V’è qualcosa di trasognato e doloroso nel debole, smorto riflesso che ne trapela. La luce viva ha dovuto attraversare ombre di spioventi e verande, prima di raggiungere il suo scialbo filtro di carta; stremata ora, languente e senza più forza di illuminare, si limita a disegnare su un fondo buio i vaghi contorni dello shoji. Quante volte, immobile davanti a una di queste finestre, ho meditato sull’enigma di una luce senza bagliore! (pag. 46).

Mi sono sempre chiesto dove possa, l’oro, trovare tanta luce, in luoghi tanto bui.
Davanti a questi spettacoli, mi par di capire perché i nostri avi rivestissero di foglie d’oro le statue di Buddha, e le pareti delle case patrizie. Vivendo in locali chiari, noi moderni ignoriamo la vera  bellezza dell’oro. Ma i nostri avi, che trascorrevano gran parte del loro tempo dentro buie dimore, non solo ne conoscevano la bellezza: sapevano anche apprezzarne l’utilità. In una casa labilmente illuminata, l’oro serviva da collettore di luce. Gli antichi usavano foglie, o polvere d’oro, non solo come simboli di ricchezza, ma anche come sorgenti luminose. Argento e altri metalli presto si offuscano; la luce dell’oro perdura, e continua a rischiarare alloggi tenebrosi. Anche da ciò, forse, l’oro ha tratto il suo pregio (pag. 50).

Come i legni laccati di nero con disegni in polvere d’oro, o gli oggetti intarsiati di madreperla, la donna era per i nostri avi un ornamento dell’oscurità. Per questo la affogavano nell’ombra, la avvolgevano in lunghi kimoni, lasciavano che solo piccoli  lembi di carne viva pendessero  o emergessero da svasature o imboccature profonde. E’ possibile che, svelato, il corpo piatto e disarmonico di una giapponese sarebbe apparso privo di grazia, vicino a quello di un’Occidentale; ma ciò che non si vede presto si oblìa, e quasi non ha esistenza. Chi vuole toccare con mano la beltà, è condannato a dissolverla e a rovinarla. Non diversamente, annichilirebbe il toko no ma di una stanza da tè chi, per vederlo meglio, lo illuminasse con una lampadina elettrica da cento candele (pag.64).

A proposito di Ishiyama, mi viene ora in mente che proprio quest’anno, dopo molte esitazioni, avevo deciso di andare là, per vedere il plenilunio d’autunno. Alla vigilia della festa lessi sul giornale che, per attirare i turisti, erano stati disposti, nel bosco intorno al monastero, altoparlanti che avrebbero diffuso la “Sonata al chiaro di luna” di Beethoven. Bastò questo a fermi rinunciare. Gli altoparlanti sono un flagello, ma avrei giurato che gli organizzatori non se ne fossero accontentati; certamente, per rendere più gaia la serata, avevano illuminato a giorno la pendice selvosa. Già avevo avuto esperienza di un plenilunio guastato dall’elettricità. Fu la volta che andammo a contemplare la luna da una barca, sullo stagno del monastero di Suma. Era, con me, una brigata di amici; portavamo panieri colmi di manicaretti squisiti; quale non fu la delusione quando, giunti allo stagno, lo scoprimmo pavesato da festoni di lampadine multicolori! La luna era lassù, e tuttavia si sarebbe detto che non ci fosse. Ne fummo profondamente amareggiati…
In una stanza giapponese, l’aria calda si disperde presto e dunque è meno opprimente; nei locali all’occidentale, invece, tende a stagnare; pavimenti, pareti, soffitti ne restano impregnati anche molte ore dopo il crepuscolo, e diffondono una calura intollerabile…Sono di moda, da qualche tempo, edifici di tipo occidentale, con il soffitto basso. Accade spesso, in questi locali, specialmente durante l’estate, di avere il cranio bombardato da raggi incandescenti. Non appena entrati, si avverte la differenza di temperatura fra la parte del corpo vicina la soffitto, e quelle sottostanti; poi, a poco a poco, il calore si propaga giù per la nuca e per il midollo spinale, e si ha l’impressione di arrostire su di una graticola (pag. 82).

Ho scritto queste pagine perché penso che, almeno in certi ambiti, per esempio in quello dell’arte, o in quello della letteratura, qualche correzione sia ancora possibile. Vorrei che non si spegnesse anche il ricordo del mondo d’ombra che abbiano lasciato alle spalle; mi piacerebbe abbassare le gronde, offuscare i colori delle pareti, ricacciare nel buio gli oggetti troppo visibili, spogliare di ogni ornamento superfluo quel palazzo che chiamano Letteratura. Per cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà (pag. 90).

Brani tratti da Junichiro Tanizaki : “Libro d’ombra” (1935). Bompiani, 2011

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