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sabato 25 dicembre 2021
La guerra cinese per il terzo millennio
Mentre in Occidente avanza il pensiero unico dell'ambientalismo naif e del politically correct multicultural-nogender, il mondo si frantuma dietro nuove linee rosse che delineano la nuova geopolitica del terzo millennio. Alcune linee di fondo sono chiare: il declino, ancora limitato della potenza americana; il crollo (una specie di Titanic) dell'Europa e della sua rilevanza politica; l'emergere della superpotenza cinese e, assai dietro, di quella indiana. La ridefinizione delle aree di influenza è rapida: l' Asia sta velocemente cadendo sotto l'egida del dragone, l'Africa è letteralmente comprata dal governo cinese, la Russia sta apertamente scegliendo l'autocrazia autoritaria elaborando consapevolmente una ripulsa, filosofica prima che politica, della democrazia liberale. Tutti questi fenomeni della geopolitica contemporanea sono descritti nell'ultimo interessante libro di Federico Rampini "Fermare Pechino" con sottotitolo: "Capire la Cina per Salvare l'Occidente". Finalmente Rampini introduce, nell'analisi politica, l'elemento che in passato veniva rigorosamente evitato per la solita ideologia dominante terzomondista : la demografia. Non si può infatti ignorare che dietro l'abbandono della politica del figlio unico la Cina abbia indicato la demografia come un'altra delle armi a disposizione per le sue ambizioni mondiali. Come in passato il contenimento della crescita della popolazione era conseguente alla politica di investimenti interni per la modernizzazione, nell'attuale fase di espansione planetaria la crescita demografica conviene al potere cinese esattamente come conviene il greenwashing, cioè la sua politica degli annunci sulla economia verde, nella realtà mai attuata nel territorio controllato da governo cinese, se non in modo superficiale e di facciata. L'ambientalismo infatti è buono per porre in crisi il concorrente americano ed europeo, si pensi alla frattura fra US e EU sulle politiche dei dazi e la tassazione delle emissioni. Ma per quello che riguarda la produzione nazionale, la Cina apre nuove centrali a carbone e sfrutta in maniera massiva l'energia da idrocarburi o quella idrica con annessa devastazione ambientale. Come esempio si guardi alle oltre cento dighe costruite dai cinesi e che hanno alterato i sistemi naturali dei fiumi Yarlung Tsangpo-Brahmaputra, generando tra l'altro un conflitto ancora sottarraneo (ma che potrebbe degenerare in conflitto aperto) con l'India per lo sfruttamento delle acque. Su quel confine asiatico si fronteggiano tre miliardi di umani e i loro interessi politico-economici. Mentre l'occidente si alambicca il cervello con la macchinosa burocrazia dei dazi sulla sostenibilità e con l'industria delle certificazioni del carbon border tax, il protezionismo ambientale non si concilia con gli interessi dei paesi emergenti, per i quali l'orizzonte delle zero emissioni non è realistico . La Cina, nella sua attuale espansione in Africa, ha un argomento forte: esporta un modello che ha funzionato a casa propria per fare il salto verso l'industrializzazione, che significa la vittoria contro la fame e la miseria. Gli occidentali pensano a un futuro sostenibile dell'Africa come una sorta di Arcadia bucolica, che eviti il passaggio sgradevole del boom manifatturiero, e non hanno un modello concreto, esistente, da opporre a quello di Pechino. La Cina ha studiato la storia dello sviluppo economico occidentale con più attenzione dei sacerdoti verdi. "I poveri erediteranno la terra" non fa parte del repertorio ideologico del suo presidente, che in questo ha abbandonato il vecchio maoismo in favore di un capitalismo regolato dallo stato. Xi Jinping vuole fare della Cina una potenza ricca come ai tempi dell'Impero Celeste. Il dominio del mondo esige sviluppo economico , risorse energetiche a basso costo ed efficienti, e una produzione industriale capace di rifornire gran parte del mondo con merci scarsamente studiate per ridurre gli impatti ambientali. Qualcosa che i fondamentalisti verdi preferiscono ignorare.
La Cina è campione mondiale del globalismo commerciale, ma allo stesso tempo è uno stato fortemente "sovranista", nazionalista, protezionista verso le proprie produzioni e insofferente verso le prediche dell'Occidente sui diritti umani. Riferisce Rampelli che sull'argomento ne sanno qualcosa H&M, Adidas, Nike, Zara e molte altre marche della moda e abbigliamento. Quando i top manager delle aziende hanno applicato il politically correct -fatto per piacere al pubblico occidentale- al problema cinese degli uiguri esprimendo condanna per gli abusi del governo verso la minoranza musulmana della regione dello Xinjiang, e hanno boicottato il cotone proveniente dalla regione perchè prodotto con l'opera di detenuti, si è avuta una reazione furibonda. H&M e le altre marche ha subito la chiusura in molti shopping mall cinesi, che hanno revocato i contratti. Sono state cancellate tutte le vendite on line producendo un danno commerciale enorme. L'aritmetica è banale: in un braccio di ferro l'azienda occidentale può subire un danno cinquanta volte superiore a quello, teorico, che la Cina subirebbe da un blocco delle sue esportazioni. Il "consumatore morale " in Estremo Oriente segue canoni molto diversi dai nostri. Mentre da noi si accusa di nazionalismo e razzismo per qualunque cosa chiunque non si attenga al politically correct, e si attaccano sempre i brutti e cattivi americani, in oriente non viene passata nessuna critica. L'associazione dei produttori della moda ha dovuto autocensurarsi e cancellare dal proprio sito ogni riferimento ai lavori forzato degli uiguri. Ora preferiscono riservare le loro critiche alle ingiustizie della società americana, dove sanno di non dover pagare prezzo, anzi incassano applausi. Allo stesso tempo, nel silenzio generale, Xi abolisce la legge costituzionale sul limite di mandato e sulla direzione collegiale, avviando la Cina verso una dittatura autocratica personale.
Il flusso continuo delle merci- e delle materie prime essenziali per produrle- è in balia di eventi che possono interromperlo: una pandemia, un conflitto, un embargo, una sanzione, un incidente, un cyberattacco. Altre volte interi settori strategici si scoprono davvero troppo vulnerabili, alla mercé di fornitori lontanissimi, talvolta ostili. Per questo la Cina espande le sue infrastrutture strategiche, acquista porti in tutto il mondo, costruisce e gestisce ferrovie in Africa, espande le sue flotte militari, pensa all'annessione prossima di Taiwan (ricca di terre rare e imprese per la produzione di microcip), esprime la politica più sovranista e ipernazionalista che si possa immaginare. Allo stesso tempo si traveste da agnello alle Conferenze sul clima, è il principale e , ormai quasi unico, produttore mondiale di pannelli solari e altre rinnovabili che però usa poco in patria ma esporta per la quasi totalità. Condanna le emissioni di carbonio, ma espande la produzione di energia con il carbone e altri idrocarburi. Firma contratti del valore di decine di miliardi di dollari con i principali produttori di petrolio e gas, e riceve poi gli applausi alla Cop 6 dalla dabbenaggine degli ambientalisti alla cappuccetto rosso. Questa politica mantiene basso il costo medio dell'energia in Cina mentre le politiche succubi dell'ambientalismo naif stanno portando a triplicare il prezzo dell'energia in Occidente (salvo in parte per chi produce con il nucleare). Con mossa furbesca il Governo Cinese, nell'ultima conferenza climatica di Glasgow, ha prima firmato la dichiarazione di rientro dalle emissioni di carbonio, partecipando alla pantomima delle fotografie di gruppo con sorrisi e abbracci, e in seguito ha comunicato di rimandarne l'applicazione -per quanto riguarda la Cina- al 2060, imitati in questo dagli Indiani che la fissano al 2070, cioè un'altra era. Si tratta con ogni evidenza di una solenne presa per i fondelli degli ambientalisti alla cappuccetto rosso. I risultati sono sotto gli occhi: il 2021 è segnato un record tragico. E' il secondo anno più dannoso della storia per la quantità di CO2 rilasciata in atmosfera. La causa è prevalentemente la crescita asiatica, in particolare cinese. Le emissioni carboniche a fine anno potrebbero raggiungere i 33 miliardi di tonnellate, l'aumento più considerevole dal 2010, secondo le stime Aie.
Il governo cinese sta espandendo le sue ambizioni sfruttando le anime belle occidentali ben oltre le rinnovabili, ed oggi si rivolge alla rivoluzione elettrica. Ha cominciato boicottando la Tesla di Musk che produce auto elettriche il cui mercato principale era la Cina. L'offensiva ai danni di Musk nasconde un obiettivo protezionista.Le autorizzazioni a Tesla per costruire auto in Cina erano subordinate all'intento di acquisire la tecnologia. Xi ha messo l'auto elettrica nell'elenco delle tecnologie strategiche su cui vuole che la Cina conquisti il primato mondiale. Dopo anni di incentivi a imprese locali le vendite di auto elettriche made in China sul mercato cinese sono equivalenti a quelle dell'intera Europa (1,4 milioni). Per favorire le case cinesi, uno strumento a disposizione di Pechino è il protezionismo sui componenti e i minerali rari per le batterie. Nel futuro dell'auto elettrica la questione della componentistica è decisivo. Si fabbricano in Cina dal 70 all'80 per cento di tutte le parti necessarie ad assemblare le batterie per auto elettriche, nonché dei magneti usati nei motori. In quanto alle terre rare, minerali usati nell'industria elettronica e nelle batterie, la Cina è un fornitore dominante. La retorica ambientalista dei governi americano e cinese, che è diventata una liturgia, nasconde una realtà: Cina e Stati Uniti si sono convinti che la prossima guerra per il primato delle tecnologie strategiche riguarderà questo ambito, e in particolare l'auto elettrica e i microcip. Le questioni strategiche interessano anche la finanza: Exxon è stata espulsa dall'indice di borsa Dow Jones. A questo punto rimane una sola compagnia petrolifera nell'indice DJ, la Chevron. L'intero settore energetico che un decennio fa valeva 12 per cento del mercato azionario americano, oggi ha un peso inferiore al 2,5 per cento. Shell ha subito una sconfitta di fronte ad un tribunale olandese che la costringe a tagliare il 45 per cento di emissioni entro il 2030. Sorprendentemente ai primi posti negli investimenti per la ricerca su motori elettrici energie rinnovabili e nucleare sono le multinazionali degli idrocarburi. Questo, più di ogni altro elemento, dimostra che la strategia è già fissata e le banche lo sanno. Le multinazionali degli idrocarburi, più o meno volentieri, si adeguano investendo nei nuovi settori.
Per guidare la transizione energetica la Cina sta facendo forti investimenti in Africa con l'obiettivo di accaparrarsi tutte le miniere di terre rare, ma anche in Sud America. Il settore più strategico investito dall'invasione cinese sono le miniere di litio dell'Argentina, allo scopo di accaparrarsi un elemento essssenziale delle batterie. E così Biden si ritrova il problema di come fermare Pechino in quello che un tempo l'america considerava il cortile di casa propria. Il libero mercato non sembra essere in grado di guidare i processi con la necessaria previdenza e rapidità, mentre il capitalismo di stato cinese è stato sollecito.
Seguendo le linee della geopolitica si può capire la virata del partito comunista cinese sul numero di figli. La politica di contenimento demografico seguita dalla Cina a questo punto era in contrasto con gli interessi geopolitici del paese. Il rallentamento della crescita della popolazione stava preoccupando i dirigenti del partito comunista. In prospettiva la diminuzione della forza lavoro e quella dei consumi minacciava la crescita economica.Inoltre la nuova politica di espansione della presenza militare in punti anche lontani del globo, e dell'emigrazione che assicura rimesse e presenza mondiale di punti vendita, richiedeva tassi di natalità più alti. Un invecchiamento della popolazione determina più spese sociali e sanitarie e a ciò si aggiunge che la popolazione anziana consuma di meno e tutta l'economia ristagna. Un vero esempio di decrescita. Un altro aspetto ha determinato il cambio di strategia: la lenta ma costante ripresa del tasso di natalità degli Stati Uniti, e quindi una aumento potenziale della concorrenza economica e militare. I cinesi sono preoccupati proprio dai superiori tassi di natalità degli Stati Uniti e guardano alle proiezioni dei demografi: in Cina gli ultrasessantenni, che oggi sono 264 milioni, saranno già a quota 300 milioni nel 2025, poi cresceranno a 400 milioni nel 2033 e varcheranno la soglia del mezzo miliardo nel 2050.Questo non potrà non ripercuotersi sulla produttività, oltre che sui consumi interni e la politica di potenza del paese che vede la Cina in piena espansione commerciale e imprenditoriale (oltre che militare) in Africa e in Asia. I falchi americani cercano di mantenere anche essi gli alti tassi di natalità, contrastando le politiche anticoncezionali e l'aborto, a cui si aggiunge la politica dei democratici favorevoli all'immigrazione che assicura nuovi consumatori e mano d'opera a bassi prezzi. A Washington c'è perfino chi si spinge a vedere (e a sperare) il sorpasso demografico: estrapolando i trend attuali, si può anticipare che nel 2100 sarà l'America ad avere più abitanti della Cina. Gordon Chang editorialista e avvocato americano di origine cinese, nel suo libro "The coming Collapse of China" prevede l'inverno demografico cinese e pregusta una ripresa dell'Occidente con gli Usa in prima linea di fronte ad una Cina in crisi. Sebbene alcuni economisti e sociologi cinesi vedano positivamente un calo demografico, ritenendo che la tecnologia e la intelligenza artificiale possano sopperire all'invecchiamento della manodopera, il governo comunista spinge sull'acceleratore della politica pro-natalista in maniera da mantenere alta l'espansione dell'economia e del potere geopolitico cinese. Così la moderna guerra (per ora fredda) tra le superpotenze non si fa più solo con la competizione sulle armi nucleari e la tecnologia come avveniva ai tempi dello scontro Usa-Urss, ma anche sui tassi di natalità e la demografia, con ripercussioni sull'ambiente che possiamo a mala pena immaginare. Le vittime in tutto questo sono la biosfera e il pianeta. Le politiche cosidette verdi dei burocrati europei contano, nel nuovo scenario con cui si apre il terzo millennio, meno di zero. Se non si cambia realisticamente l'approccio al problema ambientale, senza farsi inutili illusioni, lo scenario non verrà influenzato dalle deboli democrazie in particolare dell'Europa. Piuttosto che divisioni e conflitti interni, è necessario ad esempio una nuova idea di Stato che porti l'Europa a contare qualcosa e a dettare le sue condizioni. Ma di tutto questo non c'è traccia nella politica odierna.
Così conclude Rampini il suo libro:"La tragica vicenda di Hong Kong potrebbe insegnarci qualcosa. E' un segnale d'allarme in molte direzioni. Xi ha distrutto quella piccola oasi di uno Stato di diritto, e non sta pagando alcun prezzo. A garantirgli impunità non ci sono solo i nostri Trenta Tiranni, cioè le nostre multinazionali e grandi banche per le quali pecunia non olet. Anche nella società civile, nei mezzi di informazione,tra gli intellettuali e tra i giovani, tanti pensano che "i valori dell'Occidente" siano una espressione ipocrita, un mito da sfatare, un'impostura da smascherare. Ragione di più perché Xi sia certo che nessuno ci riuscirà, a fermare Pechino".
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