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sabato 12 dicembre 2015
COP21. L'Affare della Green Economy
L'accordo alla conferenza Cop21 si dovrebbe concretizzare oggi. Si tratta di soldi: 100 miliardi di dollari l'anno a partire dal 2021 destinati ai paesi a scarsa industrializzazione per incentivare le tecnologie rinnovabili ed il risparmio energetico. Si attendono dagli investimenti in green tecnology ben 48 milioni di posti di lavoro in 5 anni.L'EU sovvenzionerà le rinnovabili con 73 miliardi di euro. La torta da spartirsi dunque è bella grossa e io credo che siano in gioco a Parigi più i miliardi di dollari di sovvenzioni, che la preoccupazione per il clima. Come sempre a muovere finanza, imprese e governi ci sono i miliardi di dollari. Quanto all'obiettivo che dovrebbe essere principale, cioè il mantenimento entro i due gradi dell'aumento di temperatura atmosferica, siamo al generico: si, forse, vedremo. Ci saranno conferenze che controlleranno i risultati step by step. Quanto dire "nulla di definito" se non i soldi da spartirsi. Non esiste nessuna restrizione vincolante sull'utilizzo di fossili, anzi vengono mantenuti 270 dollari per ogni cittadino del pianeta per incentivo sui fossili, bell'esempio di contraddizione nei termini stessi del problema.
Verrebbe da dire che "E' l'economia, bellezza!". Le capacità di riconversione del capitalismo sono infinite. Fino ad oggi ha vinto tutte le sfide perché il sistema del libero mercato ha questa capacità darwiniana di adattarsi alle mutate circostanze e anzi di cavalcare i cambiamenti. Altro che crisi del capitalismo in seguito al collasso ambientale, come sperato da tanti verdi politically correct. La bestia è camaleontica e si trasforma rapidamente per cibarsi delle novità. L'affare delle rinnovabili e della green economy profuma di dollari e attrae investitori da tutto il mondo con vecchi apparati che si riciclano adeguatamente convertiti e sistemi finanziari che si riassettano su nuovi equilibri fossili-rinnovabili. I paesi industrializzati, fiutato l'affare, stanno riorganizzando la propria produzione per intercettare i nuovi mercati. La Cina ne ha fatto un obiettivo primario della propria economia, ma nel frattempo continua ad estrarre e bruciare carbone . I paesi in via di sviluppo si dedicano alla colpevolizzazione dei paesi ricchi sulle emissioni, onde ricavarne finanziamenti (che andranno in gran parte ai fossili). Molti boicottano, specie i produttori di greggio e carbone: Alcuni dell'EU, Venezuela, paesi arabi, Iran, Cina, Pakistan, sapendo che comunque la conferenza distribuirà miliardi ma non cambierà l'andazzo di fondo del mercato energetico. Poi ci sono i repubblicani americani che non credono al riscaldamento globale.
Sono pochi a pensare che si possa arrivare ad un accordo sugli obiettivi climatici davvero vincolante per ben 195 paesi. Gli interessi sono troppo distanti, ad esempio non c'è solo la differenza tra i produttori di combustibili fossili e i non produttori, c'è anche quella tra i nuclearisti e i senza nucleare. Per alcuni il nucleare, a carbonio zero, è un'ottima risorsa per abbattere le emissioni, per altri è il demonio. Sui tempi di raggiungimento degli obiettivi c'è poi una vera babele di voci tra chi è pronto e tra coloro che non risultano aver messo in piedi alcun piano d'azione. In tutto questo, come dicevo, fiutato l'affare è il capitalismo che si muove. Stando ai report delle banche d'affari e soprattutto all'affollamento degli indici che fanno da termometro all'eco-sensibilità delle imprese, il mondo dell'industria si sta dando target concreti. Riconvertire la produzione con un impiego sempre più massiccio delle tecnologie cosidette low-carbon e liberare maggiori investimenti in efficienza e risparmio energetico è ormai un obiettivo di molte imprese. In particolare i mercati sostengono le quotazioni di quelle utility del settore oil & gas più attive nelle fonti di energia a basso impatto inquinante, come fotovoltaico, eolico, idroelettrico e nucleare. Ma non solo le utility, l'interesse va esteso per cominciare alle società di costruzioni e a quelle del settore dei trasporti, dai costruttori di aerei a quelli di automobili. Per gli areomobili, tra i maggiori consumatori di combustibile, si guarda alla realizzazione di velivoli sempre più leggeri in grado di volare con un minor consumo di jet fuel. Il focus è su Airbus per l'Europa, o sui costruttori di motori come Safran. Per la Iata, l'organizzazione internazionale del trasporto aereo, le emissioni di CO2 del settore areonautico scenderanno addirittura del 50% nel 2020 rispetto ai livelli del 2005.
Tra le società che vinceranno sul mercato, secondo gli analisti di Credit Suisse, per avvantaggiarsi nella lotta allo shock climatico ci sono ai primi posti la società tedesca Verbund che basa il 90 % della sua generazione energetica sulle fonti idroelettriche. Ben posizionata anche la spagnola Iberdrola, grazie al suo mix di idroelettrico e nucleare. Tra le altre quotate c'è Centrica, che pur includendo ancora il termoelettrico, ha adottato tecnologie in grado di abbattere le emissioni. Guardando alle big oil, Credit Suisse segnala in particolare Royal Dutch Shell e Total come le major meglio posizionate nel settore gas e quindi pronte a raccogliere i maggiori benefici da un eventuale successo (almeno riguardo ad un accordo formale) della Cop21. Svantaggiate invece la ceca Cez e la tedesca Rwe, due utility che utilizzano ancora molto il carbone. Il caso della Germania è piuttosto emblematico. Il Paese è tra i maggiori produttori di energia da rinnovabili, e per questo la cancelliera Merkel aveva deciso una uscita graduale dal nucleare da concretizzare verso il 2020; poi ci si è accorti che le rinnovabili non erano in grado di assicurare energia sufficiente all'economia tedesca e alla vita di più di ottanta milioni di abitanti -in rapida crescita, visto l'esplodere su scala gigante del fenomeno immigratorio- e che i costi dell'energia stavano salendo esponenzialmente. Ha dovuto così fare un maggior ricorso al carbone per contenere i costi e non far levitare improvvisamente i prezzi dell'energia. Rwe, ad esempio, ricava il 60% della sua energia da lignite e carbone. La auspicata chiusura delle centrali nucleari rischia di costare molto all'economia tedesca e di far mancare gli obiettivi sul riscaldamento climatico: molti ossrvatori ritengono che saranno da rivedere le scelte fatte. Al contrario la Gran Bretagna ha fatto una scelta opposta, arrivando ad annunciare la chiusura del suo intero parco centrali a carbone entro il 2025, al contempo autorizzando per ora la costruzione di due nuove centrali nucleari (fidandosi poco del solo apporto delle rinnovabili) e mantenendo ben avviato il programma nucleare già realizzato con le sue numerose centrali attive. Diverso la situazione delle imprese attive nel settore minerario che vengono incluse nella lista nera degli inquinatori. E' per questo che Enel ha già da tempo deciso di separare i suoi destini da quelli di Bayan Resources, maggior produttore indonesiano di carbone,cedendone per ora il 10%. Il gigante Rio Tinto sta riducendo rapidamente la sua esposizione verso il carbone, ma altri gruppi faticano a riconvertirsi e guardano con preoccupazione alle decisioni che potrebbero arrivare dalla Cop21. Anche Glencore, Bhp Billiton (alle prese con il disastro brasiliano del Rio Dolce) e Goldfields hanno appena annunciato nuovi progetti pilota per adeguarsi al nuovo contesto del mercato. Per James Magness della Investors research di Cdp (Carbon disclosure Projet) "Le maggiori società minerarie del mondo, che attualmente capitalizzano circa 329 miliardi di dollari, sono impreparate alla transizione verso la low-carbon economy". Il Cdp è una organizzazione che conta ben 822 investitori istituzionali che gestiscono un patrimonio di circa 95 mila miliardi di dollari, e tra le società che si basano sui suoi parametri per contrastare gli shock climatici ci sono colossi come Dell, PepsiCo e Walmart. La riconversione al low-carbon è visto da tutti questi investitori più come un affare che come una battaglia per salvare la terra . Goldman Sachs segnala come la capitalizzazione di mercato delle compagnie minerarie statunitensi sia andata a picco addirittura del 95% nel 2015, in gran parte a causa dei nuovi regolamenti anti-emissioni. Secondo la banca d'affari, anche se gli obiettivi intermedi della Cop21 si allungano al 2030 e al 2050, il vero cambiamento del mercato comincia da adesso e si realizzerà in gran parte entro il 2025. Entro il 2020, per esempio, si prevede che la Cina aggiungerà 193 GigaWatt di energia eolica e fotovoltaica al suo parco produttivo, fermandosi invece per quel che riguarda il carbone a 23 GigaWatt aggiuntivi in un settore produttivo che già si basa su molto carbone. Altro input forte arriverà per i produttori di lampadine a Led, che rimpiazzeranno quasi per il 70 % le tradizionali lampadine a bulbo. Avanzata anche per le auto ibride ed elettriche, che si prevede cresceranno di 25 milioni nell'arco dei prossimi 10 anni, con previsti ricavi nell'ordine di 600 miliardi di dollari per le aziende produttrici. Goldman Sachs ha stilato una propria classifica delle aziende meglio posizionate nell'era della low carbon economy. Si tratta di SolarEdge (pannelli fotovoltaici), Vestas, Nordex e Gamesa (eolico onshore), Continental, Tesla e Albemarle per i veicoli ibridi ed elettrici, Aculty Brands e Hella KgaA Hueck per le lampadine a basso consumo. Un gruppo di imprese interessate al mercato di energia come BP, Pemex, Reliance Ind., Repsol, Saudi Aramco,Shell, Statoil, Total e la nostra Eni hanno fatto cartello creando l'Ogci (Oil and gas climate initiative) dichiarando nella carta di intenti: "scendere sotto i 2 C° di riscaldamento atmosferico è una sfida e ci impegnamo a fare la nostra parte con misure e investimenti per ridurre il gas ad effetto serra nel mix energetico globale". Via quindi ad investimenti crescenti nel settore del gas naturale, nella cattura dell'anidride carbonica e il suo stoccaggio, nelle rinnovabili, e nelle tecnologie a basse emissioni. Nel settore dei trasporti sono previsti investimenti nell'idrogeno e nei bio-combustibili oltre alle vetture elettriche. Per le costruzioni i grandi produttori di cemento si stanno organizzando per studiare e realizzare edifici con fonti integrate di energia rinnovabile e bio-combustibili. L'Eni nel periodo 2010-2014 ha raggiunto una riduzione delle emissioni del 27 % e sta investendo nel gas naturale dove ha raggiunto una quota sulla produzione complessiva del 50%. Nelle strategie low carbon di Eni c'è un piano di riconversione del business downstream attraverso la trasformazione in green refinery di Venezia e Gela e l'avvio dei progetti di "chimica verde" a Porto Torres e Porto Marghera, e la ricerca sulle rinnovabili innovative. Ha inoltre deciso di operare in Artico solo in zone libere da ghiacci. Impegnata nel settore anche Snam, Fiat FCA, Cnh Industrial, Save. Dice il presidente di Cdp Paul Dickinson che "le grandi aziende hanno grande influenza in quanto le scelte di business possono rallentare e arrestare il cambiamento climatico. Hanno bisogno di una politica ambiziosa sia a livello nazionale che internazionale". In prima linea anche l'Enel che sta per assorbire la controllata Enel Green Power proprio per gestire più direttamente il business delle rinnovabili con l'acquisizione di una grossa parte dei finanziamenti di stato e con l'apertura di un mercato in crescita. Enel è impegnato a giocare un ruolo attivo nel percorso di decarbonizzazione attraverso le sue attività industriali ed entro il 2020 ridurrà l'intensità delle emissioni di CO2 del 25 % rispetto al 2007. Gli investimenti sulle rinnovabili saranno di 11 miliardi di euro nel periodo 2015-2019 con accelerazione della ricerca e apertura di nuove produzioni.
Tuttavia molti osservatori si chiedono se gli accordi di Cop21 avranno un reale impatto. Le tempistiche sono diverse da paese a paese o addirittura da operatore a operatore. La copertura geografica degli impegni alla riduzione delle emissioni è a pelle di leopardo. Poi bisogna vedere il ruolo dei mercati e come l'economia di paesi spesso in carenza di fondi si tradurranno nel rispetto degli impegni. I costi delle riconversioni potrebbero riversarsi sulla gente a livello di bolletta energetica (come accaduto in Italia), oppure le pressioni e le resistenze dei produttori di petrolio e carbone (sia i privati sia gli stessi governi nazionali) potrebbero rivelarsi ancora forti. I grandi poteri finanziari e industriali insomma si sono messi in moto leccandosi i baffi per i miliardi in palio, ma le resistenze del BAU sono altrettanto forti.Nel frattempo il pianeta viaggia per un aumento delle temperature di oltre 4 gradi entro la fine del secolo e invertire la tendenza sarà molto complicato. Quanti dei partecipanti al Cop21 credono veramente che si riuscirà a ridurre il riscaldamento entro i due gradi? Qualcuno ha fatto notare che sono solo 55 le persone che hanno un ruolo rilevante nella stesura del documento finale del Cop21 a Parigi, e che questi pochi individui non avranno alcuna possibilità di influenzare seriamente i processi energetici in atto nelle grandi potenze economiche e anche nelle piccole realtà politiche locali.
A questo scopo ci sarebbero ben altri argomenti da affrontare, anzi uno in particolare spicca su tutti gli altri per la completa assenza nei documenti e nelle discussioni in atto al Cop21: quello della sovrappopolazione del pianeta. Ho cercato nei vari argomenti in discussione e nelle bozze dei documenti anche solo un piccolo accenno al tema. Ma non ho trovato nulla di nulla al riguardo. L'argomento è un completo tabù. Ho letto in uno dei tanti documenti preparatori questo ragionamento: la Cina è il primo emettitore di carbonio del pianeta. Lo è nonostante che la produzione del carbonio sia di 74 tonnellate/anno ad abitante rispetto alle più di 200 tonnellate/anno di un abitante degli Stati Uniti. Ciò nonostante la Cina inquina di più degli Stati Uniti perché le 74 tonnellate vanno moltiplicate per un miliardo e mezzo di abitanti, mentre gli abitanti degli stati Uniti sono "solo" 360 milioni. Questo piccolo calcolo dovrebbe essere illuminante sul fatto che il numero di abitanti del pianeta ha un influsso diretto sull'effetto serra globale. Eppure nessuno ne parla, nessuno ha raccolto lo stimolo che deriva da quel calcolo matematico. La sovrappopolazione non influisce solo come moltiplicatore della quota individuale di emissioni. E' tutta l'organizzazione sociale, strutturale ed economica che viene trasformata dalla eccedenza demografica. Conseguenza della sovrappopolazione sono le megalopoli, la cementificazione massiccia delle superfici, l'organizzazione industriale della produzione, i consumi di massa, l'insufficienza delle risorse agricole e la necessità dell'uso massiccio della chimica, la carenza di acqua, la distruzione delle foreste (vero polmone verde che fissa il carbonio atmosferico), l'uniformizzazione produttiva e dei mercati di tutto il pianeta, la necessità di sempre maggiori quantità di energia per sostenere la popolazione sempre più numerosa e che richiede sempre più benessere (consumi). Non è un caso che coloro che chiedono deroghe alla low carbon economy, come Cina, India, Paesi Africani, Brasile , Indonesia ecc. siano anche i paesi con maggiore popolazione e in crescita demografica. Nessuno di questi paesi, in presenza di tassi di crescita demografica elevati, può fare a meno di carbone, gas e petrolio. Le rinnovabili non possono sostenere la maggiore richiesta di energia che deriva da un'alta crescita demografica. I verdi, per contestare questo argomento usano spesso esempi che sono invece la dimostrazione del contrario di quel che vogliono sostenere. Citano l'esempio della Danimarca che si è impegnata entro i prossimi dieci anni a non usare più i combustibili fossili come fonte di energia. Ma la Danimarca è un paese di soli cinque milioni di abitanti, con una popolazione stabile, e per di più con una economia fiorente (in grado di sostenere un 'energia molto costosa come le rinnovabili) e senza megalopoli. Questo obiettivo non può essere valido già per l'Italia che ha 62 milioni di abitanti, neanche riducendo di molto i consumi e riconvertendo molte industrie. Figurarsi se la cosa è possibile per paesi come l'India o la Nigeria con demografia in rapida crescita e una natalità che va dai 6 ai 9 figli in media per donna, con megalopoli in rapida espansione e consumi in forte aumento.
La colpevole silenziazione e vera e propria censura posta in atto a Cop21 riguardo l'argomento della sovrappopolazione mi porta a concludere che questa incredibile ed inescusabile omissione renderà vano tutto il carrozzone messo su dall'Onu sull'argomento "Effetto Serra". Tutto si risolverà in quello di cui si tratta in realtà: un colossale affare per le multinazionali e la finanza che specula sulla green economy. Quanto a salvare il pianeta non si farà nessun passo avanti. Almeno fino a quando la popolazione planetaria continuerà a crescere ai ritmi attuali che ci porteranno sopra gli 11 miliardi entro pochi decenni.
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