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lunedì 3 dicembre 2012

ALLE ORIGINI DEL PENSIERO AMBIENTALISTA: HEIDEGGER E L'ABBANDONO



Presento un testo  che  è tra quelli fondamentali per comprendere l’origine di una nuova sensibilità e un nuovo pensiero ambientalista successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Sto parlando del vero ambientalismo, non quello dovuto alla banalizzazione pseudo-marxista che vede nel disastro ambientale un semplice effetto del sistema economico capitalista. Un testo che pone al centro del destino nichilista dell’uomo moderno l’antropocentrismo che sottende il sistema tecnico-scientifico. Quel sistema, cioè,   basato sull’affermazione globale  dello strapotere della tecnica, e che sta travolgendo il pianeta in quanto vede nell’uomo il fine di tutto e nella natura un semplice mezzo per soddisfare i bisogni umani. Il brano trae origine dalla conferenza  “L’ABBANDONO” che il filosofo tenne nel 1955 in memoria del musicista compositore  Conradin Kreutzer nella sua città natale di Messkirch. In esso c’è la famosa distinzione tra pensiero calcolante e pensiero meditante ed il richiamo alla necessità per l’uomo di un diverso rapporto con il pianeta. Da quel richiamo hanno preso ispirazione non solo gli allievi diretti di Heidegger, come Levinas, Jonas, Gadamer, ma anche tanti altri pensatori –di provienienze diverse - come Habermas, Adorno, Lovelock che sono alla base della nuova filosofia ambientalista.
“Non facciamoci illusioni. Tutti noi, inclusi quelli che debbono pensare perché, per così dire, è il loro mestiere, tutti noi ci troviamo abbastanza spesso in una situazione di povertà di pensiero, tutti noi cadiamo troppo facilmente nell’assenza di pensiero. L’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi. Infatti al giorno d’oggi, se si vuole conoscere qualcosa, si prende la via più rapida e più economica e, una volta raggiunto lo scopo, nello stesso istante, altrettanto rapidamente, lo si è già dimenticato. Le manifestazioni culturali si susseguono l’una all’altra. Nelle commemorazioni regna la povertà di pensiero. Commemorazione e assenza di pensiero si accordano armonicamente…L’assenza di pensiero, che sempre più sta prendendo piede nel nostro tempo, si fonda su un evento che distrugge l’uomo nell’intimo: l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero (auf der Flucht vor dem Denken). La fuga davanti al pensiero è ciò che provoca l’assenza di pensiero  (Gedanken-losigkeit). La fuga davanti al pensiero è poi caratterizzata dal fatto che l’uomo non se ne vuole accorgere, non la vuole riconoscere. L’uomo del nostro tempo, anzi, contesterà vivacemente queste nostre affermazioni, penserà addirittura il contrario. Dirà – e con pieno diritto – che mai come oggi si fanno progetti così a lunga scadenza, si compiono ricerche in tante e così diverse direzioni, si attuano indagini così appassionanti. Certamente.  Questo dispendio di acume intellettuale nel costruire ipotesi e di energie e di mezzi nel ripensarle e verificarle ha certamente la sua grande utilità.  Anzi, pensare in questo modo risulta indispensabile. Ciononostante, resta sempre il fatto che si tratta di un pensiero di tipo particolare.
La sua particolarità consiste in questo. Quando facciamo dei progetti, compiamo delle ricerche o intraprendiamo delle attività, non possiamo non fare i conti (rechnen) con determinate circostanze. Le mettiamo sempre in conto (Wir stellen sie in Rechnung), e in un conto che è costituito dalle nostre intenzioni commisurate (berechnet) a determinati scopi. Contiamo infatti già in precedenza su determinati risultati. Questo “contare” (rechnen) caratterizza ogni pensiero  che è all’opera nei progetti e nelle ricerche scientifiche.  Un tale pensiero è sempre un calcolare (rechnen), anche quando non compie operazioni con i numeri, anche quando non fa uso delle macchine calcolatrici e dei grandi calcolatori elettronici. Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che mette in conto è un pensiero che calcola (Das rechnende Denken kalkuliert).
Esso calcola incessantemente in nuovi modi, con nuove possibilità sempre più ricche di prospettive e al tempo stesso sempre più economiche. Il pensiero calcolante insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, non si arresta mai alla meditazione (Besinnung).Il pensiero calcolante non è  un pensiero meditante, non è un pensiero che pensa quel senso che domina su tutto ciò che è.
Ci sono pertanto due modi di pensare, entrambi necessari e giustificati, anche se in maniere diverse:  il pensiero calcolante e il pensiero meditante.
Proprio al pensiero meditante alludiamo quando diciamo che l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti – al pensiero. Soltanto si può obiettare, la speculazione pura fluttua senza saperlo al di sopra della realtà, perde il contatto col terreno su cui si fonda. Essa non serve a nulla quando si tratta di sbrigare gli affari di tutti i giorni, non porta alcun aiuto quando si debbono affrontare le cose pratiche.
Infine si dice comunemente che la speculazione pura, il perseverare nella meditazione sia qualcosa di troppo “elevato” per l’intelligenza comune. In tutti questi discorsi solo una cosa è giusta: il pensiero meditante non avviene senza sforzo, quasi da sé – e in questo è simile al pensiero calcolante. Il pensiero meditante richiede invece uno sforzo ancora più elevato, esige un apprendistato ancora più lungo, abbisogna di un’ accuratezza ancora più raffinata di quella che caratterizza un qualsiasi altro mestiere vero e proprio. Ma è necessario anche saper attendere, come fa il contadino, che il seme cresca e giunga a maturazione. D’altra parte, ognuno di noi può percorrere a suo modo ed entro i propri limiti le vie del pensiero. Per quale motivo? Perché l’uomo è l’essere che pensa, e ciò vuol dire: l’essere che medita. Perciò non abbiamo affatto bisogno, anche quando meditiamo, di porci “fuori dalla portata”. E’ già sufficiente se ci soffermiamo sulle cose che abbiamo vicino e che perciò ci appaiono ovvie, se ci raccogliamo su ciò che ci tocca più da vicino, che riguarda ciascuno di noi nella sua individualità, qui ed ora. Qui: in questa parte della Terra;  ora: nella presente ora del mondo.  E se realmente siamo disposti a meditare, cosa ci viene proposto dalla commemorazione odierna? Concentriamo la nostra attenzione su questo fatto soltanto: una creazione dell’arte è sbocciata dal seno della nostra terra…Meditiamo più a fondo e domandiamoci: lo sbocciare di un’opera ben riuscita non comporta forse il suo radicarsi in seno alla propria terra? Johann Peter Hebel ha scritto una volta: “Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell’etere e dare i loro frutti”.
Il poeta vuol dire: perché riesca a sbocciare un’opera dell’uomo che porti autentica gioia e giovamento, è necessario che l’uomo possa espandersi nell’etere, radicandosi nel profondo seno della propria terra. Etere qui significa: l’aria libera che spira nelle altezze del cielo, la regione aperta dello spirito.
Meditiamo più a fondo e domandiamoci: come stanno oggi le cose con quel che afferma Johann Peter Hebel? Esiste ancora quel quieto abitare dell’uomo tra terra e cielo? Domina ancora sul nostro paese lo spirito della meditazione? La nostra terra può ancora accogliere e nutrire le nostre radici, può ancora offrire un terreno fecondo su cui l’uomo può impiantarsi, può radicarsi stabilmente (boden-standig)?
Molti sono coloro che non hanno più una patria, che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi e le loro città, che vagano profughi lontano dalla terra che li ha generati. Innumerevoli altri sono quelli che, pur avendo ancora una patria, sono costretti ugualmente ad emigrare, finiscono nell’ingranaggio delle grandi città, debbono stabilirsi negli squallidi suburbi industriali, sono ormai diventati estranei alla terra che li ha generati. E quei cittadini che vi vivono ancora? Spesso sono da essa ancora più lontani di coloro che l’hanno lasciata. Ogni ora, ogni giorno, seguono incantati le trasmissioni della radio e della televisione, ogni settimana il cinematografo li porta in un mondo certamente meraviglioso, ma spesso costituito soltanto da ambiti di rappresentazione ordinari, che simulano un mondo che non è un mondo. Dappertutto è a portata di mano una cosiddetta rivista illustrata. Certo, tutto ciò con cui i moderni strumenti tecnici di informazione ogni ora, incessantemente, sorprendono, incalzano, stimolano la curiosità dell’uomo, è oggi molto più vicino del campo che circonda la propria cascina, più vicino del cielo sopra la campagna, più vicino dell’avvicendarsi di giorno e notte, più vicino degli usi e dei costumi del villaggio, più vicino delle tradizioni del proprio mondo d’origine.
Meditiamo più a fondo e domandiamoci: cosa succede, non solo a coloro che hanno lasciato la propria terra, ma anche a quelli che vi sono rimasti? Risposta: il radicarsi stabile (Bodenstandigkeit) dell’uomo di oggi nel proprio terreno è minacciato nell’intimo.  Di più ancora: questa perdita di radici, l’impossibilità per l’uomo di radicarsi stabilmente nel proprio terreno dipende dallo spirito dell’epoca in cui tutti noi ci troviamo a vivere.
Meditiamo ancora più a fondo e domandiamoci: se le cose stanno così potrà mai avvenire in futuro che l’uomo, l’opera dell’uomo riesca a sbocciare di nuovo dal seno fecondo della propria terra d’origine e possa espandersi nell’etere , nella vastità del cielo e dello spirito? Oppure tutto dovrà cadere nella morsa della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatizzazione?
Se, in occasione dell’odierna celebrazione, noi meditiamo su ciò che essa ci propone, ecco che concentriamo la nostra attenzione su quella perdita di radici, sull’impossibilità per l’uomo di radicarsi stabilmente nel proprio terreno che incombe sulla nostra epoca. E ci domandiamo: cosa accade realmente nel nostro tempo? Da che cosa è caratterizzato?
Si sente dire da un po’ di tempo che l’era che ora sta iniziando è l’era atomica. Il suo simbolo più appariscente è la bomba atomica. Ma in realtà questo è solo  un carattere superficiale: infatti si è subito riconosciuto che l’energia atomica può essere utilizzata anche per scopi pacifici. Perciò la fisica atomica ed i suoi specialisti sono oggi impegnati dappertutto a far divenire una realtà, in progetti di ampia portata, l’utilizzazione pacifica dell’energia atomica. I grandi complessi industriali dei paesi più avanzati, in testa a tutti l’Inghilterra, hanno già calcolato che l’energia atomica può diventare un affare colossale. Si ravvisa nell’affare energia atomica la fortuna del futuro…nel luglio di quest’anno (1955) diciotto Premi Nobel hanno dichiarato testualmente: “La scienza – qui si intende la moderna scienza della natura- costituisce una strada che conduce l’uomo ad una vita più felice”.
Che pensare di questa affermazione? Scaturisce forse da una meditazione, pensa forse il senso dell’era atomica? No. Se ci lasciamo accontentare da queste affermazioni della scienza restiamo tanto lontani quanto è possibile da una meditazione autentica sulla nostra epoca. Perché? Perché dimentichiamo di pensare. Perché dimentichiamo di chiederci: da cosa dipendono le scoperte della scienza e della tecnica che portano a sprigionare nuove energie dalla natura?
Dipendono dal fatto che, da alcuni secoli, è in corso un sovvertimento di tutte le più importanti rappresentazioni. Per questo l’uomo viene trasportato in una realtà completamente diversa. Questo radicale rivoluzionamento della visione del mondo si compie nella filosofia dell’epoca moderna. Nasce in questa epoca un modo di porsi  completamente nuovo dell’uomo nel mondo e rispetto al mondo. Ora il mondo appare come un oggetto, un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali, si ritiene, nulla è più in grado di opporsi.
La natura si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell’energia di cui hanno bisogno la tecnica e l’industria moderne. Questo rapporto essenzialmente tecnico dell’uomo alla totalità del mondo che sorse per la prima volta nel 17° secolo, proprio in Europa e soltanto in Europa, restò per lungo tempo ignoto alle restanti parti del mondo  e fu completamente estraneo alle epoche precedenti e ai destini dei loro popoli.
La potenza che si nasconde nella tecnica moderna è ciò che determina la relazione dell’uomo a ciò che è. Essa domina ormai tutta la terra. L’uomo comincia già ad abbandonare  la Terra,  ad inoltrarsi nello spazio. Da appena un paio di decenni soltanto abbiamo scoperto, grazie all’energia atomica, delle fonti di energia talmente gigantesche che saranno in grado, in un prossimo futuro, di far fronte al fabbisogno mondiale di energia di ogni tipo. La fornitura immediata di nuove energie presto non sarà più circoscritta a paesi e zone determinate della Terra, come accade ora per i giacimenti di carbone o di petrolio e per il legname dei boschi. In un prossimo futuro le centrali atomiche potranno essere costruite dappertutto.
Oggi la scienza e la tecnica non si domandano più: da dove possiamo ricavare quantità sufficiente di combustibile e di carburante? Oggi la domanda decisiva suona: in che modo possiamo riuscire a domare ed ad imbrigliare queste quantità di energia atomica inimmaginabilmente grandi, in che modo possiamo assicurare all’umanità che questa enorme riserva di energia improvvisamente non si ribelli, anche non per effetto di una guerra, non “sfugga di mano”, non annienti ogni cosa?
Quando si riuscirà ad imbrigliare l’energia atomica – e si riuscirà a farlo- allora comincerà uno sviluppo del mondo tecnico completamente nuovo. Quei fenomeni che oggi ci sono familiari, la tecnica cinematografica e quella televisiva, la tecnica dei trasporti, soprattutto quella dei trasporti aerei, la tecnologia medica  e quella alimentare, si trovano probabilmente soltanto ad uno stadio iniziale, ancora rozzo del proprio sviluppo. Nessuno può oggi dire quali rivoluzionari progressi saranno compiuti  in un prossimo futuro. Lo sviluppo della tecnica diventerà nel frattempo sempre più veloce, non potrà arrestarsi in nessun luogo. In ogni ambito della propria esistenza (Dasein) l’uomo è sempre più strettamente assediato dal potere delle apparecchiature tecniche e delle macchine automatiche. La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvince l’uomo di oggi – questa potenza è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede.
Ma c’è ancora un carattere del mondo della tecnica che deve andare sottolineato: il fatto che  i risultati della tecnica,il suo progresso sempre più veloce vengono ammirati e conosciuti da un pubblico vastissimo. Tutti oggi possono leggere in ogni rivista illustrata ben condotta, o ascoltare alla radio quelle notizie e quelle informazioni che abbiamo menzionato nel nostro discorso sul mondo della tecnica. Ma una cosa è aver sentito o aver letto qualcosa, vale a dire averne semplicemente preso coscienza; un’altra è rendersi conto effettivamente di ciò che si è sentito o si è letto, vale a dire: riflettervi.
Nell’estate di quest’anno, il 1955, a Lindau ebbe luogo ancora una volta l’incontro internazionale dei Premi Nobel. In quest’occasione il chimico americano Stanley fece la seguente affermazione: “Si avvicina l’ora in cui la vita stessa sarà posta nelle mani del chimico, che a suo piacimento potrà scomporre e ricomporre e modificare la sostanza vivente”. Si prende conoscenza di una tale affermazione, si ammira l’audacia della ricerca  scientifica, ma non si va più in là, non si pensa su queste cose. Non si pensa che si viene preparando, proprio con questi discorsi, un attacco alla vita e all’essere dell’uomo che si avvale dei mezzi della tecnica, un attacco al cui confronto l’esplosione della bomba all’idrogeno significa ben poco. Perché proprio se la bomba H non esplode e l’uomo non si estingue dalla terra, si appresta un’inquietante trasformazione del mondo.
Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.
Nessun singolo uomo, nessun gruppo di uomini, nessuna commissione, per quanto composta dai più eminenti tra gli uomini di stato, gli scienziati e i tecnici, nessuna conferenza di leaders economici e di capitani d’industria ha il potere di frenare o di dirigere il corso storico dell’era atomica. Nessuna organizzazione composta soltanto da uomini è in grado di giungere al dominio su quest’epoca.
L’uomo dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e inerme, in balìa dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo di oggi rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo,il pensiero meditante contro il pensiero puramente calcolante.
Ma una volta che il pensiero meditante è ben desto, la riflessione sarà all’opera incessantemente, anche nei momenti che possono sembrare meno decisivi; quindi anche qui, ora, in occasione della celebrazione odierna.
Essa infatti ci dà la possibilità di riflettere su ciò che, nell’epoca moderna, viene ad essere minacciato in misura crescente: il radicarsi stabile delle  opere dell’uomo nel proprio terreno.
Perciò ora ci domandiamo: se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica?
Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici? Forse ciò che cerchiamo con questa domanda si trova già vicino a noi, tanto vicino che neppure ce ne accorgiamo. Per noi uomini infatti la via che conduce a ciò che è vicino risulta sempre la più lunga e quindi la più difficile da percorrere. Questa via è una via del pensiero. Il pensiero meditante richiede da noi che non restiamo attaccati in maniera unilaterale ad un’ unica rappresentazione, che non corriamo sempre più oltre su un unico binario, nell’unica direzione in cui ci costringe una rappresentazione. Il pensiero meditante richiede da noi che ci lasciamo ricondurre (sich einlassen) a ciò che in sé, a prima vista, appare inconciliabile.
Proviamo a farne l’esperimento. Gli impianti, le apparecchiature, i macchinari che caratterizzano il mondo della tecnica risultano oggi, per tutti noi, per alcuni di più, per altri di meno, indispensabili. Sarebbe folle slanciarsi ciecamente contro il mondo della tecnica, sarebbe miope condannarlo in blocco come opera del diavolo. Ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica, siamo costretti senza tregua a perfezionarli sempre di più. Essi ci hanno, per così dire, forgiati a nostra insaputa e così saldamente che ne siamo ormai schiavi.
Tuttavia possiamo anche comportarci altrimenti. Possiamo infatti far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno (loslassen). Possiamo fare uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi  (auf sich beruhen lassen), considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dir di si all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere.
Ma se diciamo allo stesso tempo si e no ai prodotti della tecnica, il nostro rapporto al mondo della tecnica non diventerà forse ambiguo e incerto? Nient’affatto: il nostro rapporto al mondo della tecnica diventerà invece semplice e sicuro. Si tratterà infatti di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso si e no al mondo della tecnica con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l’abbandono delle cose e alle cose).
In questo modo riusciamo a non vedere più le cose soltanto dal punto di vista della tecnica, vediamo finalmente chiaro e riconosciamo che la produzione e l’uso delle macchine esige da noi un altro rapporto alle cose, che nondimeno ha un suo senso. Vediamo ad esempio  l’agricoltura e l’economia rurale far uso di macchinari, trasformarsi in industria alimentare. Che qui, come anche  in altri campi, abbia luogo una profonda trasformazione nel rapporto dell’uomo alla natura e al  mondo, è ormai un dato di fatto. Resta tuttavia ancora oscuro quale senso operi in questa trasformazione.
Ogni processo tecnico è governato da un senso che attraversa e coinvolge l’agire e il consentire dell’uomo (das menschliche Tun und Lassen), un senso che non l’uomo ha inventato e creato.
Noi non sappiamo a che cosa porterà il dominio della tecnica che si sta estendendo in maniera sempre più inquietante. Il senso del mondo della tecnica si cela. Se però teniamo sempre ed espressamente conto che dappertutto nel mondo della tecnica ci viene incontro un senso nascosto, allora subito ci ritroviamo nell’ambito di ciò che a noi si cela, e si cela proprio mentre a noi perviene. Ciò che in questo modo si mostra e allo stesso tempo si ritrae  è il tratto fondamentale di ciò che chiamiamo il mistero. Il modo in cui ci teniamo aperti al senso della tecnica lo chiamiamo: l’apertura al mistero.
L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra. Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica.
L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero ci permettono di intravedere la possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno. Questo nuovo modo potrebbe addirittura un giorno risultare adatto per richiamare a noi, seppure in forma mutata, il vecchio modo che oggi sta velocemente scomparendo.
Nel frattempo, però, e non sappiamo fino a quando, l’uomo si trova su questa terra in una situazione pericolosa. Per qual motivo? Soltanto perché da un momento all’altro potrebbe scoppiare una terza guerra mondiale che avrebbe per conseguenze  il completo annientamento dell’umanità e la devastazione della terra? No. Nell’era atomica che sta iniziando, un pericolo ancora più grave ci minaccia – e proprio quando pare scongiurato il pericolo di una terza guerra mondiale. Un’affermazione certamente singolare, questa, ma che resta tale solo fino a che non pensiamo.
In che modo deve essere intesa questa frase? In questo modo: la rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato.
Quale enorme pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l’acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della pianificazione calcolante, e la completa indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero. E allora? Allora l’uomo avrebbe rinnegato, avrebbe gettato via il suo carattere più proprio: la sua essenza pensante. E’ necessario pertanto salvare l’essenza dell’uomo, è necessario tener desto il pensiero.
Soltanto – l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero non accadono mai senza il nostro consenso (fallen uns niemals von selber zu), non sono affatto degli accadimenti casuali. Entrambi scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e appassionato (herzhaft).
Forse la celebrazione odierna può spingerci ad un tale sforzo. Se accogliamo questo stimolo potremo commemorare Conradin Kreutzer proprio rivolgendo il nostro pensiero alla provenienza essenziale della sua opera, alla sua terra, la regione dello Heuberg, che fu in grado di accogliere e nutrire le sue radici. E siamo noi a far questo se ci riconosciamo come quegli uomini che qui ed ora scoprono e preparano la via che porta all'era atomica e che ci conduce attraverso di essa. 
Se teniamo desto in noi l'abbandono di fronte  alle cose e l'apertura al mistero, potremo raggiungere quella via che conduce ad un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno. E su questo terreno la creazione di opere durature potrebbe gettare nuove radici. In tal modo si avvererebbero di nuovo, anche se in modo mutato, anche se in una diversa epoca, le parole di Johann Peter Hebel:
"Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell'etere e dare i loro frutti".

(Da “L’abbandono” di Martin Heidegger, il Melangolo, 1998, pagg. 27-40)


             
  

Il cuore che non sente la presenza degli dei in un bosco, è già un cuore incendiario.
                                          (Guido Ceronetti)

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