Presento un testo
che è tra quelli
fondamentali per comprendere l’origine di una nuova sensibilità e un nuovo
pensiero ambientalista successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Sto
parlando del vero ambientalismo, non quello dovuto alla banalizzazione
pseudo-marxista che vede nel disastro ambientale un semplice effetto del
sistema economico capitalista. Un testo che pone al centro del destino
nichilista dell’uomo moderno l’antropocentrismo che sottende il sistema
tecnico-scientifico. Quel sistema, cioè, basato sull’affermazione globale dello strapotere della tecnica, e che
sta travolgendo il pianeta in quanto vede nell’uomo il fine di tutto e nella
natura un semplice mezzo per soddisfare i bisogni umani. Il brano trae origine
dalla conferenza “L’ABBANDONO” che
il filosofo tenne nel 1955 in memoria del musicista compositore Conradin Kreutzer nella sua città
natale di Messkirch. In esso c’è la famosa distinzione tra pensiero calcolante
e pensiero meditante ed il richiamo alla necessità per l’uomo di un diverso
rapporto con il pianeta. Da quel richiamo hanno preso ispirazione non solo gli
allievi diretti di Heidegger, come Levinas, Jonas, Gadamer, ma anche tanti
altri pensatori –di provienienze diverse - come Habermas, Adorno, Lovelock che
sono alla base della nuova filosofia ambientalista.
“Non
facciamoci illusioni. Tutti noi, inclusi quelli che debbono pensare perché, per
così dire, è il loro mestiere, tutti noi ci troviamo abbastanza spesso in una
situazione di povertà di pensiero,
tutti noi cadiamo troppo facilmente nell’assenza di pensiero. L’assenza di pensiero è un ospite
inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi. Infatti al giorno
d’oggi, se si vuole conoscere qualcosa, si prende la via più rapida e più
economica e, una volta raggiunto lo scopo, nello stesso istante, altrettanto
rapidamente, lo si è già dimenticato. Le manifestazioni culturali si susseguono
l’una all’altra. Nelle commemorazioni regna la povertà di pensiero.
Commemorazione e assenza di pensiero si accordano armonicamente…L’assenza di
pensiero, che sempre più sta prendendo piede nel nostro tempo, si fonda su un
evento che distrugge l’uomo nell’intimo: l’uomo del nostro tempo è in fuga
davanti al pensiero (auf der Flucht vor dem Denken). La fuga davanti al pensiero è ciò che
provoca l’assenza di pensiero (Gedanken-losigkeit). La fuga davanti al pensiero è poi
caratterizzata dal fatto che l’uomo non se ne vuole accorgere, non la vuole
riconoscere. L’uomo del nostro tempo, anzi, contesterà vivacemente queste
nostre affermazioni, penserà addirittura il contrario. Dirà – e con pieno
diritto – che mai come oggi si fanno progetti così a lunga scadenza, si compiono
ricerche in tante e così diverse direzioni, si attuano indagini così
appassionanti. Certamente. Questo dispendio di acume intellettuale nel
costruire ipotesi e di energie e di mezzi nel ripensarle e verificarle ha
certamente la sua grande utilità.
Anzi, pensare in questo modo risulta indispensabile. Ciononostante,
resta sempre il fatto che si tratta di un pensiero di tipo particolare.
La sua
particolarità consiste in questo. Quando facciamo dei progetti, compiamo delle
ricerche o intraprendiamo delle attività, non possiamo non fare i conti (rechnen) con determinate circostanze. Le
mettiamo sempre in conto (Wir stellen sie in Rechnung), e in un conto che è costituito dalle
nostre intenzioni commisurate (berechnet) a determinati scopi. Contiamo infatti già in precedenza
su determinati risultati. Questo “contare” (rechnen) caratterizza ogni pensiero che è all’opera nei progetti e nelle
ricerche scientifiche. Un tale pensiero è sempre un calcolare (rechnen), anche quando non compie operazioni
con i numeri, anche quando non fa uso delle macchine calcolatrici e dei grandi
calcolatori elettronici. Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che
mette in conto è un pensiero che calcola (Das rechnende Denken kalkuliert).
Esso calcola
incessantemente in nuovi modi, con nuove possibilità sempre più ricche di
prospettive e al tempo stesso sempre più economiche. Il pensiero calcolante
insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, non si arresta mai alla
meditazione (Besinnung).Il
pensiero calcolante non è un
pensiero meditante, non è un pensiero che pensa quel senso che domina su tutto
ciò che è.
Ci sono
pertanto due modi di pensare, entrambi necessari e giustificati, anche se in
maniere diverse: il pensiero calcolante e il pensiero meditante.
Proprio al
pensiero meditante alludiamo quando diciamo che l’uomo del nostro tempo è in
fuga davanti – al pensiero. Soltanto si può obiettare, la speculazione pura
fluttua senza saperlo al di sopra della realtà, perde il contatto col terreno
su cui si fonda. Essa non serve a nulla quando si tratta di sbrigare gli affari
di tutti i giorni, non porta alcun aiuto quando si debbono affrontare le cose
pratiche.
Infine si dice
comunemente che la speculazione pura, il perseverare nella meditazione sia
qualcosa di troppo “elevato” per l’intelligenza comune. In tutti questi
discorsi solo una cosa è giusta: il pensiero meditante non avviene senza
sforzo, quasi da sé – e in questo è simile al pensiero calcolante. Il pensiero
meditante richiede invece uno sforzo ancora più elevato, esige un apprendistato
ancora più lungo, abbisogna di un’ accuratezza ancora più raffinata di quella
che caratterizza un qualsiasi altro mestiere vero e proprio. Ma è necessario
anche saper attendere, come fa il contadino, che il seme cresca e giunga a
maturazione. D’altra parte, ognuno di noi può percorrere a suo modo ed entro i
propri limiti le vie del pensiero. Per quale motivo? Perché l’uomo è l’essere
che pensa, e ciò vuol dire: l’essere che medita. Perciò non abbiamo affatto
bisogno, anche quando meditiamo, di porci “fuori dalla portata”. E’ già
sufficiente se ci soffermiamo sulle cose che abbiamo vicino e che perciò ci
appaiono ovvie, se ci raccogliamo su ciò che ci tocca più da vicino, che
riguarda ciascuno di noi nella sua individualità, qui ed ora. Qui: in questa
parte della Terra; ora: nella presente ora del mondo. E se realmente siamo disposti a meditare, cosa ci viene
proposto dalla commemorazione odierna? Concentriamo la nostra attenzione su
questo fatto soltanto: una creazione dell’arte è sbocciata dal seno della
nostra terra…Meditiamo più a fondo e domandiamoci: lo sbocciare di un’opera ben
riuscita non comporta forse il suo radicarsi in seno alla propria terra? Johann
Peter Hebel ha scritto una volta: “Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo
piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire
nell’etere e dare i loro frutti”.
Il poeta vuol
dire: perché riesca a sbocciare un’opera dell’uomo che porti autentica gioia e
giovamento, è necessario che l’uomo possa espandersi nell’etere, radicandosi
nel profondo seno della propria terra. Etere qui significa: l’aria libera che
spira nelle altezze del cielo, la regione aperta dello spirito.
Meditiamo più
a fondo e domandiamoci: come stanno oggi le cose con quel che afferma Johann
Peter Hebel? Esiste ancora quel quieto abitare dell’uomo tra terra e cielo?
Domina ancora sul nostro paese lo spirito della meditazione? La nostra terra
può ancora accogliere e nutrire le nostre radici, può ancora offrire un terreno
fecondo su cui l’uomo può impiantarsi, può radicarsi stabilmente (boden-standig)?
Molti sono
coloro che non hanno più una patria, che hanno dovuto abbandonare i loro
villaggi e le loro città, che vagano profughi lontano dalla terra che li ha
generati. Innumerevoli altri sono quelli che, pur avendo ancora una patria,
sono costretti ugualmente ad emigrare, finiscono nell’ingranaggio delle grandi
città, debbono stabilirsi negli squallidi suburbi industriali, sono ormai
diventati estranei alla terra che li ha generati. E quei cittadini che vi
vivono ancora? Spesso sono da essa ancora più lontani di coloro che l’hanno
lasciata. Ogni ora, ogni giorno, seguono incantati le trasmissioni della radio
e della televisione, ogni settimana il cinematografo li porta in un mondo
certamente meraviglioso, ma spesso costituito soltanto da ambiti di
rappresentazione ordinari, che simulano un mondo che non è un mondo.
Dappertutto è a portata di mano una cosiddetta rivista illustrata. Certo, tutto
ciò con cui i moderni strumenti tecnici di informazione ogni ora,
incessantemente, sorprendono, incalzano, stimolano la curiosità dell’uomo, è
oggi molto più vicino del campo che circonda la propria cascina, più vicino del
cielo sopra la campagna, più vicino dell’avvicendarsi di giorno e notte, più
vicino degli usi e dei costumi del villaggio, più vicino delle tradizioni del
proprio mondo d’origine.
Meditiamo più
a fondo e domandiamoci: cosa succede, non solo a coloro che hanno lasciato la
propria terra, ma anche a quelli che vi sono rimasti? Risposta: il radicarsi
stabile (Bodenstandigkeit)
dell’uomo di oggi nel proprio terreno è minacciato nell’intimo. Di più ancora:
questa perdita di radici, l’impossibilità per l’uomo di radicarsi stabilmente
nel proprio terreno dipende dallo spirito dell’epoca in cui tutti noi ci
troviamo a vivere.
Meditiamo
ancora più a fondo e domandiamoci: se le cose stanno così potrà mai avvenire in
futuro che l’uomo, l’opera dell’uomo riesca a sbocciare di nuovo dal seno
fecondo della propria terra d’origine e possa espandersi nell’etere , nella
vastità del cielo e dello spirito? Oppure tutto dovrà cadere nella morsa della
pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatizzazione?
Se, in
occasione dell’odierna celebrazione, noi meditiamo su ciò che essa ci propone,
ecco che concentriamo la nostra attenzione su quella perdita di radici,
sull’impossibilità per l’uomo di radicarsi stabilmente nel proprio terreno che
incombe sulla nostra epoca. E ci domandiamo: cosa accade realmente nel nostro
tempo? Da che cosa è caratterizzato?
Si sente dire
da un po’ di tempo che l’era che ora sta iniziando è l’era atomica. Il suo
simbolo più appariscente è la bomba atomica. Ma in realtà questo è solo un carattere superficiale: infatti si è
subito riconosciuto che l’energia atomica può essere utilizzata anche per scopi
pacifici. Perciò la fisica atomica ed i suoi specialisti sono oggi impegnati
dappertutto a far divenire una realtà, in progetti di ampia portata,
l’utilizzazione pacifica dell’energia atomica. I grandi complessi industriali
dei paesi più avanzati, in testa a tutti l’Inghilterra, hanno già calcolato che
l’energia atomica può diventare un affare colossale. Si ravvisa nell’affare
energia atomica la fortuna del futuro…nel luglio di quest’anno (1955) diciotto
Premi Nobel hanno dichiarato testualmente: “La scienza – qui si intende la
moderna scienza della natura- costituisce una strada che conduce l’uomo ad una
vita più felice”.
Che pensare di
questa affermazione? Scaturisce forse da una meditazione, pensa forse il senso
dell’era atomica? No. Se ci lasciamo accontentare da queste affermazioni della
scienza restiamo tanto lontani quanto è possibile da una meditazione autentica
sulla nostra epoca. Perché? Perché dimentichiamo di pensare. Perché
dimentichiamo di chiederci: da cosa dipendono le scoperte della scienza e della
tecnica che portano a sprigionare nuove energie dalla natura?
Dipendono dal
fatto che, da alcuni secoli, è in corso un sovvertimento di tutte le più
importanti rappresentazioni. Per questo l’uomo viene trasportato in una realtà
completamente diversa. Questo radicale rivoluzionamento della visione del mondo
si compie nella filosofia dell’epoca moderna. Nasce in questa epoca un modo di
porsi completamente nuovo
dell’uomo nel mondo e rispetto al mondo. Ora il mondo appare come un oggetto,
un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali, si
ritiene, nulla è più in grado di opporsi.
La natura si
trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell’energia di
cui hanno bisogno la tecnica e l’industria moderne. Questo rapporto
essenzialmente tecnico dell’uomo alla totalità del mondo che sorse per la prima
volta nel 17° secolo, proprio in Europa e soltanto in Europa, restò per lungo
tempo ignoto alle restanti parti del mondo e fu completamente estraneo alle epoche precedenti e ai
destini dei loro popoli.
La potenza che
si nasconde nella tecnica moderna è ciò che determina la relazione dell’uomo a
ciò che è. Essa domina ormai tutta la terra. L’uomo comincia già ad
abbandonare la Terra, ad inoltrarsi nello spazio. Da appena
un paio di decenni soltanto abbiamo scoperto, grazie all’energia atomica, delle
fonti di energia talmente gigantesche che saranno in grado, in un prossimo
futuro, di far fronte al fabbisogno mondiale di energia di ogni tipo. La
fornitura immediata di nuove energie presto non sarà più circoscritta a paesi e
zone determinate della Terra, come accade ora per i giacimenti di carbone o di
petrolio e per il legname dei boschi. In un prossimo futuro le centrali
atomiche potranno essere costruite dappertutto.
Oggi la
scienza e la tecnica non si domandano più: da dove possiamo ricavare quantità
sufficiente di combustibile e di carburante? Oggi la domanda decisiva suona: in
che modo possiamo riuscire a domare ed ad imbrigliare queste quantità di
energia atomica inimmaginabilmente grandi, in che modo possiamo assicurare
all’umanità che questa enorme riserva di energia improvvisamente non si
ribelli, anche non per effetto di una guerra, non “sfugga di mano”, non
annienti ogni cosa?
Quando si
riuscirà ad imbrigliare l’energia atomica – e si riuscirà a farlo- allora
comincerà uno sviluppo del mondo tecnico completamente nuovo. Quei fenomeni che
oggi ci sono familiari, la tecnica cinematografica e quella televisiva, la
tecnica dei trasporti, soprattutto quella dei trasporti aerei, la tecnologia
medica e quella alimentare, si
trovano probabilmente soltanto ad uno stadio iniziale, ancora rozzo del proprio
sviluppo. Nessuno può oggi dire quali rivoluzionari progressi saranno
compiuti in un prossimo futuro. Lo
sviluppo della tecnica diventerà nel frattempo sempre più veloce, non potrà
arrestarsi in nessun luogo. In ogni ambito della propria esistenza (Dasein) l’uomo è sempre più strettamente
assediato dal potere delle apparecchiature tecniche e delle macchine
automatiche. La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una
forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvince l’uomo di oggi – questa
potenza è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà,
la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede.
Ma c’è ancora
un carattere del mondo della tecnica che deve andare sottolineato: il fatto
che i risultati della tecnica,il
suo progresso sempre più veloce vengono ammirati e conosciuti da un pubblico
vastissimo. Tutti oggi possono leggere in ogni rivista illustrata ben condotta,
o ascoltare alla radio quelle notizie e quelle informazioni che abbiamo
menzionato nel nostro discorso sul mondo della tecnica. Ma una cosa è aver
sentito o aver letto qualcosa, vale a dire averne semplicemente preso
coscienza; un’altra è rendersi conto effettivamente di ciò che si è sentito o si
è letto, vale a dire: riflettervi.
Nell’estate di
quest’anno, il 1955, a Lindau ebbe luogo ancora una volta l’incontro
internazionale dei Premi Nobel. In quest’occasione il chimico americano Stanley
fece la seguente affermazione: “Si avvicina l’ora in cui la vita stessa sarà
posta nelle mani del chimico, che a suo piacimento potrà scomporre e ricomporre
e modificare la sostanza vivente”. Si prende conoscenza di una tale
affermazione, si ammira l’audacia della ricerca scientifica, ma non si va più in là, non si pensa su queste
cose. Non si pensa che si viene preparando, proprio con questi discorsi, un
attacco alla vita e all’essere dell’uomo che si avvale dei mezzi della tecnica,
un attacco al cui confronto l’esplosione della bomba all’idrogeno significa ben
poco. Perché proprio se la bomba H non esplode e l’uomo non si estingue dalla
terra, si appresta un’inquietante trasformazione del mondo.
Ciò che è
veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio
della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto
preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante
è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante,
un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.
Nessun singolo
uomo, nessun gruppo di uomini, nessuna commissione, per quanto composta dai più
eminenti tra gli uomini di stato, gli scienziati e i tecnici, nessuna
conferenza di leaders economici e di capitani d’industria ha il potere di
frenare o di dirigere il corso storico dell’era atomica. Nessuna organizzazione
composta soltanto da uomini è in grado di giungere al dominio su quest’epoca.
L’uomo
dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e inerme, in balìa
dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo
di oggi rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo,il pensiero
meditante contro il pensiero puramente calcolante.
Ma una volta
che il pensiero meditante è ben desto, la riflessione sarà all’opera
incessantemente, anche nei momenti che possono sembrare meno decisivi; quindi
anche qui, ora, in occasione della celebrazione odierna.
Essa infatti
ci dà la possibilità di riflettere su ciò che, nell’epoca moderna, viene ad
essere minacciato in misura crescente: il radicarsi stabile delle opere dell’uomo nel proprio terreno.
Perciò ora ci
domandiamo: se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non
potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno,
radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in
modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica?
Quale potrebbe
essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie
radici? Forse ciò che cerchiamo con questa domanda si trova già vicino a noi,
tanto vicino che neppure ce ne accorgiamo. Per noi uomini infatti la via che
conduce a ciò che è vicino risulta sempre la più lunga e quindi la più
difficile da percorrere. Questa via è una via del pensiero. Il pensiero
meditante richiede da noi che non restiamo attaccati in maniera unilaterale ad
un’ unica rappresentazione, che non corriamo sempre più oltre su un unico
binario, nell’unica direzione in cui ci costringe una rappresentazione. Il
pensiero meditante richiede da noi che ci lasciamo ricondurre (sich
einlassen) a ciò che
in sé, a prima vista, appare inconciliabile.
Proviamo a
farne l’esperimento. Gli impianti, le apparecchiature, i macchinari che
caratterizzano il mondo della tecnica risultano oggi, per tutti noi, per alcuni
di più, per altri di meno, indispensabili. Sarebbe folle slanciarsi ciecamente
contro il mondo della tecnica, sarebbe miope condannarlo in blocco come opera
del diavolo. Ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica, siamo
costretti senza tregua a perfezionarli sempre di più. Essi ci hanno, per così
dire, forgiati a nostra insaputa e così saldamente che ne siamo ormai schiavi.
Tuttavia
possiamo anche comportarci altrimenti. Possiamo infatti far uso dei prodotti
della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo,
possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno (loslassen). Possiamo fare uso dei prodotti della
tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo
abbandonarli a loro stessi (auf
sich beruhen lassen),
considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo
dir di si all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo
possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che
deformino, confondano, devastino il nostro essere.
Ma se diciamo
allo stesso tempo si e no ai prodotti della tecnica, il nostro rapporto al
mondo della tecnica non diventerà forse ambiguo e incerto? Nient’affatto: il
nostro rapporto al mondo della tecnica diventerà invece semplice e sicuro. Si
tratterà infatti di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i
prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli
a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso
stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al
tempo stesso si e no al mondo della tecnica con un’antica parola: l’abbandono
di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l’abbandono delle cose
e alle cose).
In questo modo
riusciamo a non vedere più le cose soltanto dal punto di vista della tecnica,
vediamo finalmente chiaro e riconosciamo che la produzione e l’uso delle
macchine esige da noi un altro rapporto alle cose, che nondimeno ha un suo
senso. Vediamo ad esempio
l’agricoltura e l’economia rurale far uso di macchinari, trasformarsi in
industria alimentare. Che qui, come anche
in altri campi, abbia luogo una profonda trasformazione nel rapporto
dell’uomo alla natura e al mondo,
è ormai un dato di fatto. Resta tuttavia ancora oscuro quale senso operi in
questa trasformazione.
Ogni processo
tecnico è governato da un senso che attraversa e coinvolge l’agire e il
consentire dell’uomo (das menschliche Tun und Lassen), un senso che non l’uomo
ha inventato e creato.
Noi non
sappiamo a che cosa porterà il dominio della tecnica che si sta estendendo in
maniera sempre più inquietante. Il senso del mondo della tecnica si cela. Se però teniamo sempre ed
espressamente conto che dappertutto nel mondo della tecnica ci viene incontro
un senso nascosto, allora subito ci ritroviamo nell’ambito di ciò che a noi si
cela, e si cela proprio mentre a noi perviene. Ciò che in questo modo si mostra
e allo stesso tempo si ritrae è il
tratto fondamentale di ciò che chiamiamo il mistero. Il modo in cui ci teniamo
aperti al senso della tecnica lo chiamiamo: l’apertura al mistero.
L’abbandono di
fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra. Essi
ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente
diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci
stabilire, su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della
tecnica.
L’abbandono di
fronte alle cose e l’apertura al mistero ci permettono di intravedere la
possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno. Questo
nuovo modo potrebbe addirittura un giorno risultare adatto per richiamare a
noi, seppure in forma mutata, il vecchio modo che oggi sta velocemente
scomparendo.
Nel frattempo,
però, e non sappiamo fino a quando, l’uomo si trova su questa terra in una
situazione pericolosa. Per qual motivo? Soltanto perché da un momento all’altro
potrebbe scoppiare una terza guerra mondiale che avrebbe per conseguenze il completo annientamento dell’umanità
e la devastazione della terra? No. Nell’era atomica che sta iniziando, un
pericolo ancora più grave ci minaccia – e proprio quando pare scongiurato il pericolo
di una terza guerra mondiale. Un’affermazione certamente singolare, questa, ma
che resta tale solo fino a che non pensiamo.
In che modo
deve essere intesa questa frase? In questo modo: la rivoluzione della tecnica
che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare,
a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante
sarebbe l’unico ad
avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato.
Quale enorme
pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l’acume
intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell’invenzione e della
pianificazione calcolante, e la completa indifferenza verso il pensiero, la
totale assenza di pensiero. E allora? Allora l’uomo avrebbe rinnegato, avrebbe
gettato via il suo carattere più proprio: la sua essenza pensante. E’
necessario pertanto salvare l’essenza dell’uomo, è necessario tener desto il
pensiero.
Soltanto –
l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero non accadono mai senza
il nostro consenso (fallen uns niemals von selber zu), non sono affatto degli accadimenti
casuali. Entrambi scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e
appassionato (herzhaft).
Forse la celebrazione odierna può spingerci ad un tale sforzo. Se accogliamo questo stimolo potremo commemorare Conradin Kreutzer proprio rivolgendo il nostro pensiero alla provenienza essenziale della sua opera, alla sua terra, la regione dello Heuberg, che fu in grado di accogliere e nutrire le sue radici. E siamo noi a far questo se ci riconosciamo come quegli uomini che qui ed ora scoprono e preparano la via che porta all'era atomica e che ci conduce attraverso di essa.
Se teniamo desto in noi l'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero, potremo raggiungere quella via che conduce ad un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno. E su questo terreno la creazione di opere durature potrebbe gettare nuove radici. In tal modo si avvererebbero di nuovo, anche se in modo mutato, anche se in una diversa epoca, le parole di Johann Peter Hebel:
"Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell'etere e dare i loro frutti".
(Da
“L’abbandono” di Martin Heidegger, il Melangolo, 1998, pagg. 27-40)
Il cuore che
non sente la presenza degli dei in un bosco, è già un cuore incendiario.
(Guido Ceronetti)
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