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domenica 16 giugno 2013

SI STANNO COMPRANDO L'AFRICA




550mila ettari di terra coltivabile in Mali, 3 milioni e mezzo in Etiopia. E poi Sierra Leone, Madagascar, Mozambico, Tanzania: solo nel 2009 l'Africa ha venduto o affittato (per periodi che vanno dai 20 ai 99 anni) 60 milioni di ettari delle sue terre migliori, un territorio vasto come la Francia.
E il fenomeno non fa che aumentare, di anno in anno: basti pensare che nel 2008 i terreni affittati in Africa erano "a malapena" 4 milioni di ettari. Ormai le conseguenze sono evidenti: il prezzo degli alimentari cresce, "è volatile" avvertono gli economisti.
Il land grab è stato denunciato pesantemente dall'Onu già dal 2009: in un rapporto le nazioni asiatiche emergenti  sono state accusate di aver stipulato contratti fortemente iniqui, strappando affitti irrisori ( tra i 2 e i 10 dollari all'anno per ettaro in Africa, mentre in Argentina o Brasile sono intorno ai 5mila dollari) in cambio di "promesse" di posti di lavoro e di nuove infrastrutture per lo sviluppo, ma senza nessuna clausola che penalizzi il mancato rispetto di queste "promesse". Si tratta di un fenomeno in rapido aumento a partire dall’inizio del XXI secolo, legato soprattutto alla crescita della domanda mondiale di generi alimentari e di biocarburanti.
Gli stati poveri di terre coltivabili, come ad esempio l’Arabia Saudita, quelli densamente popolati come il Giappone e quelli emergenti, come la Cina, che devono far fronte al costante incremento della domanda interna di prodotti alimentari, da tempo hanno incominciato ad affittare e a comprare terreni all’estero per coltivarli e soddisfare così il fabbisogno nazionale di cibo. Tra i privati, le richieste provengono invece soprattutto dalle industrie produttrici di biocarburanti che necessitano di immense estensioni di terra per coltivare palme da olio, mais, colza, girasole, canna da zucchero e altre specie vegetali dalle quali ricavano il carburante alternativo ai prodotti petroliferi.
 Alcune cifre rendono un’idea dell’entità del fenomeno. Per quanto è dato sapere, il governo e le imprese private della Corea del Sud sono proprietari di almeno 2.306.000 ettari di terre all’estero. Seguono la Cina, con 2.090.796 ettari, l’Arabia Saudita, con 1.610.117 ettari, gli Emirati Arabi Uniti, con 1.282.500 ettari, il Giappone, con 324.262 ettari.
L'Africa si presta a meraviglia per questo scopo: enormi distese di terra ricca, non sfruttata. Di proprietà di governi o di privati che non sanno che farsene. E che cedendo facilmente alle offerte di denaro, firmano contratti di affitto davvero iniqui.
In questo brutto affare l'Occidente non ha le mani pulite: lo denuncia un rapporto dell'Oakland Institute (un importante think tank statunitense), che punta il dito contro i grandi finanzieri internazionali. Sul banco degli imputati soprattutto gli hedge funds e alcuni fondi pensione, che, emulando Pechino e New Delhi, hanno direttamente acquisito o affittato vasti terreni africani, invece che investire, come di consueto, in titoli o derivati. I fondi speculativi non sono controllati solo da importanti banche come JPMorgan o Goldman Sachs: l'Oakland Institute avverte che sono coinvolte anche alcune grandi università statunitensi, come Harvard, Spelman o Vanderbilt.
Esattamente come i governi asiatici, i contratti stipulati dagli hedge fund occidentali non tengono in considerazione le esigenze delle popolazioni locali, la complessità economica e sociale delle realtà africane, il rispetto dell'ambiente e della stessa stabilità politica, perchè intacca direttamente la sicurezza alimentare nazionale.
 I nuovi proprietari, inoltre, rimpiazzano le colture tradizionali con massicce produzioni di biocarburanti o di fiori da recidere. Cosa che ridotto l'offerta alimentare, facendo lievitare i prezzi a livello locale, come internazionale, considerate le dimensioni del fenomeno.  
A giovarsi del land grabbing, oltre evidentemente agli acquirenti, sono i governi africani che nella cessione sconsiderata di terre e risorse nazionali vedono un modo facile e sicuro di far soldi senza investire in progetti economici e sociali ed evitando i rischi e le incognite del mercato nero e dell’evasione fiscale: sono i governi, infatti, non le comunità locali, a incassare il denaro di quasi tutte le vendite e gli affitti. Non è una novità. Succede da decenni con le risorse minerarie ed energetiche: oro, diamanti, petrolio, ecc. È evidente poi che i terreni rurali renderebbero molto di più alle popolazioni autoctone, e ai loro paesi, se fossero loro a coltivarli, a sfruttarli e a commercializzare i raccolti vendendoli agli stati e alle imprese stranieri: meglio ancora se poi si sviluppassero industrie locali di trasformazione con i relativi indotti. Il danno è ancora maggiore se si considera che, per far posto ai nuovi proprietari, ogni volta innumerevoli famiglie, talvolta decine di migliaia, perdono mezzi di sostentamento e casa. 
I governi africani consentono che gli abitanti delle terre cedute vengano costretti ad andarsene, se necessario con la forza, lasciando abitazioni, campi e pascoli: talvolta senza ricevere risarcimenti e in altri casi ottenendo in cambio inadeguate somme di denaro oppure il reinsediamento in altre aree del paese, spesso però periferiche, prive di servizi e di infrastrutture e meno adatte alla vita umana. Data la situazione, quindi, si possono considerare fortunati gli africani che vengono assunti come braccianti e operai dalle imprese straniere quando queste non decidono di impiegare invece prevalentemente manodopera del loro paese piuttosto che quella locale. Ad esempio si vedono sempre più cinesi a coltivare terre africane. 
Tutto questo succede nel continente della fame, che importa generi alimentari a caro prezzo, l’unico in cui denutrizione e malnutrizione continuano ad aumentare, come documentano ogni anno i rapporti della Fao e degli istituti internazionali di ricerca.
Rights and Resources Iniziative, una coalizione internazionale di Ong, ha pubblicato nel febbraio del 2012 i risultati di una ricerca condotta in 35 stati africani secondo la quale la maggior parte degli 1,4 miliardi di ettari di terre rurali africane, dai quali dipende la sopravvivenza di almeno 428 milioni di contadini poveri subsahariani, non risultano proprietà di nessuno, a disposizione dei governi che possono servirsene a loro discrezione, approfittando di sistemi di proprietà lacunosi e del potere di cui così spesso fanno cattivo uso. 
Dall’indagine risulta inoltre che soltanto nove dei 35 stati considerati prevedono norme e leggi a reale tutela dei diritti fondiari dei cittadini. Ma anche in quei paesi le leggi per lo più non vengono rispettate e di rado comunità e individui vengono coinvolti nelle trattative di vendita e affitto, persino nel caso in cui si tratta di terre registrate come proprietà privata. A peggiorare il quadro è il fatto che tante terre fertili siano destinate alla produzione di biocarburanti a scapito delle colture alimentari per ricavare energia. Le ripercussioni in questo caso riguardano non solo l’Africa, ma l’intero pianeta. La riduzione delle terre coltivate per produrre cibo, causata dall’incremento delle colture di derrate per biocarburanti, ha contribuito a provocare la grave crisi alimentare mondiale del 2008 che ha fatto crescere i prezzi del grano del 77 per cento e del riso del 18 per cento (fino a punte del 150 per cento) con conseguenti aumenti generalizzati dei prezzi dei prodotti alimentari sia di origine vegetale che animale. A livello dei terreni le conseguenze sono:  disboscamenti,  aratura profonda,  sfruttamento massimo del suolo,  monocultura, perdita della varietà delle specie di piante, sovvertimento delle tradizioni agricole locali.  


 (Le notizie sopra riportate sono tratte da articoli di Sara Milanese,  Anna Bono e Maria Luisa Doldi)
In genere in queste analisi sulla svendita delle terre africane c'è sempre un "non detto", anzi in questo caso i "non detto" sono più di uno. Il primo e più importante non detto è che l'accaparramento straniero delle terre africane non è solo un portato dello sfruttamento capitalistico e delle leggi del mercato. Il fenomeno dipende infatti in maniera sostanziale dalla maggiore richiesta mondiale di derrate alimentari e di energia frutto dell'aumento esplosivo della popolazione mondiale negli ultimi 50-60 anni. Ciò ha reso conveniente andare a coltivare prodotti agricoli in terre lontane, con grandi problemi infrastrutturali e di collegamento, con scarsità idrica, ma fertili, in quanto la maggiore richiesta ha fatto lievitare i prezzi. Il secondo "non detto" è che la trasformazione di foreste e savane in terreni agricoli a produzione cerealicola o di colture per biocarburanti comporta inevitabilmente la distruzione del patrimonio naturale africano e dell'habitat di specie animali e vegetali rare e ormai in via di estinzione. Purtroppo la distruzione di beni naturali di incomparabile valore ecologico non viene tenuta in alcun conto di fronte alle esigenze delle popolazioni umane in continua crescita. Continua così la miope gestione antropocentrica della Terra che sta portando alla distruzione di savane, valli e alvei fluviali, bacini idrici, riserve naturali, foreste e delle specie animali che le abitavano da millenni, spesso milioni di anni. Un terzo "non detto" è che il fenomeno della vendita delle terre africane porterà all'ulteriore sradicamento di milioni di abitanti i quali andranno ad affollare i campi profughi e poi verranno avviati dalle organizzazioni criminali verso l'immigrazione clandestina e le deportazioni. In questo contesto operano organizzazioni religiose e civili che combattono apertamente o in maniera subdola il controllo demografico e la procreazione consapevole, con lo scopo di aumentare la presa degli integralismi e il caos politico.

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